malapace
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Come un demone Antoine costringe François a rievocare la sua infanzia di bambino cattolico, che si fa sospendere a scuola perché rifiuta la retorica della Grande Guerra che gli ha ucciso il padre. A rievocare, durante quella vacanza obbligata, l’incontro con Martine, figlia di un maestro elementare socialista che pare avere molte risposte. A rievocare, diventato un giovane comunista, la morbosa amicizia con Jean-Pierre, compagno di militanza e poi amante di Martine. A rievocare, infine, la scelta più sofferta: collaborare con il regime fascista di Vichy nel tentativo di fermare la guerra e l’eccidio di milioni di persone. Una scelta sanguinosa, portata avanti contro i compagni comunisti e persino contro Jean-Pierre e Martine, che accomuna il suo destino a quello di torturatori e miliziani come Antoine.
A emergere con più urgenza sono però il bisogno di François di essere amato e l’unica certezza che François mantiene salda, in mezzo a tanti rivolgimenti privati: che la pace debba essere difesa a qualsiasi costo. Anche quello di fare un patto col diavolo, da cui è impossibile tornare indietro.
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Anteprima del libro
malapace - Francesca Veltri
Tavola dei Contenuti (TOC)
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Capitolo X
Capitolo XI
Capitolo XII
Capitolo XIII
Epilogo
scafiblù
(20)
francesca veltri
malapace
© 2022 Miraggi edizioni, Torino
www.miraggiedizioni.it
Progetto grafico Miraggi
Finito di stampare a Chivasso nel mese di settembre 2022
da A4 Servizi Grafici snc per conto di Miraggi edizioni
su Carta da Edizioni Avorio Book Cream 80 gr
e Carta Fedrigoni Woodstock Materica Acqua 180 gr
Prima edizione digitale: settembre 2022
isbn
978-88-3386-227-9
Prima edizione cartacea: settembre 2022
isbn
978-88-3386-226-2
SINOSSI
Autunno 1944. In un campo di prigionia alleato della Francia appena liberata, è detenuto François, accusato di collaborazionismo. Quando al campo arriva Antoine, vecchio vicino di casa al tempo dell’infanzia e ora fascista convinto, François rammemora il percorso che l’ha condotto all’internamento, attraverso un dialogo intessuto di reticenze e accuse, di antagonismo e intimità carsica.
Come un demone Antoine costringe François a rievocare la sua infanzia di bambino cattolico, che si fa sospendere a scuola perché rifiuta la retorica della Grande Guerra che gli ha ucciso il padre. A rievocare, durante quella vacanza obbligata, l’incontro con Martine, figlia di un maestro elementare socialista che pare avere molte risposte. A rievocare, diventato un giovane comunista, la morbosa amicizia con Jean-Pierre, compagno di militanza e poi amante di Martine. A rievocare, infine, la scelta più sofferta: collaborare con il regime fascista di Vichy nel tentativo di fermare la guerra e l’eccidio di milioni di persone. Una scelta sanguinosa, portata avanti contro i compagni comunisti e persino contro Jean-Pierre e Martine, che accomuna il suo destino a quello di torturatori e miliziani come Antoine.
A emergere con più urgenza sono però il bisogno di François di essere amato e l’unica certezza che François mantiene salda, in mezzo a tanti rivolgimenti privati: che la pace debba essere difesa a qualsiasi costo. Anche quello di fare un patto col diavolo, da cui è impossibile tornare indietro.
BIOGRAFIA AUTORE
Francesca Veltri (1976) si è diplomata in Studi Filosofici alla Scuola Normale Superiore di Pisa nel 1999. Attualmente è docente presso l’Università della Calabria. Parte della sua formazione si è svolta in Francia, presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales e l’École Normale Supérieure di Parigi.
Ha pubblicato tre volumi di saggistica con Rubbettino: La città perduta (2002) premio internazionale Annie de Jaeger; La rete in movimento (2005) e Quale ordine sociale (2012). Nel 2017, insieme a Paolo Ceri, ha pubblicato Il movimento nella rete (Rosenberg & Sellier).
Finalista al premio Calvino nel 2002, nel 2015 arriva al secondo posto nel concorso letterario nazionale La Giara Rai (Giara d’argento). Nel 2019 esce per Divergenze il suo primo romanzo, Edipo a Berlino.
Capitolo I
Camp de Carrères, ottobre 1944
Da bambino facevo un incubo ricorrente. Sognavo di restare solo al buio, senza più la possibilità di parlare con qualcuno, di toccarlo, di avvertirne la presenza. Non c’era fame né freddo né dolore, solo un buio immenso, vuoto di qualsiasi compagnia. Mi giravo e rigiravo nel letto in preda alla disperazione, finché non mi svegliavo e scappavo fra le braccia di mia sorella che dormiva nel letto accanto al mio.
Non so da dove mi fosse venuto un simile terrore di restare solo. Di quell’incubo ricordo tutto, come se fossi ancora quel ragazzino di sette, otto anni, sprofondato in una coltre nera e silenziosa, che urlando chiamava per vedere se qualcuno gli rispondesse, al punto che a volte mia madre mi sentiva dal piano di sopra, e scendeva a controllare se non avessi la febbre.
Stanotte, per la prima volta da più di vent’anni, quel sogno è tornato. Ho riconosciuto il buio, il silenzio, il vuoto, ma a differenza di allora non ho provato alcun terrore, tutt’altro. Un sollievo enorme, piuttosto. Quando mi sono svegliato, ho pianto per il dispiacere.
Per un po’ ho cercato di tenere gli occhi chiusi, senza riuscirci. Alla fine li ho spalancati, tremando. È ancora buio, saranno forse le tre, le quattro di mattina. Dev’essere stato il freddo a svegliarmi, a quest’ora il dormitorio è gelato. Tossisco, mi stringo nella coperta ma non provo nessun calore. Per un po’ mi lascio assorbire dai gemiti, i respiri, gli scricchiolii di legno, di ossa, di denti; il rumore costante di corpi che non trovano pace neppure nel sonno.
Almeno loro dormono. Io invece me ne sto inchiodato alla mia veglia, aspettando il riaprirsi delle ostilità non appena spalancheranno gli occhi. Sto qui in attesa di giudizio, accusato di aver collaborato con il nemico. Gli altri per lo più sono detenuti di diritto comune. Dicono di aver già espiato la pena, ma il nuovo governo non ha ancora deciso cosa fare della Francia, figurarsi di loro. Più passano le settimane, più monta la loro frustrazione (come dargli torto, d’altronde), e più aumenta l’odio che provano per quelli come me.
Li osservo, ora che dormono. Lucas, Marius, i miei vicini di letto. Giovani, più giovani di me, poco più che analfabeti, cresciuti in povertà, arrestati per furto o per rissa un anno fa, in piena guerra. Tossiscono nel sonno, bestemmiano fra i denti, affondati nei loro incubi personali. Eccolo qui, davanti ai miei occhi, quel popolo a cui da quando posso ricordarmi ho cercato di andare incontro, quel popolo che mi sono illuso di amare, a cui ho desiderato appartenere.
E io chi sono, per loro? Un ricco-professore-fascista, odiato perché ricco, odiato perché professore, odiato perché facho. Non posso farci nulla, se non pensare a come sarei felice di vederli dissolversi nel nulla, lasciandomi finalmente solo al buio.
Alla mia destra dorme Antoine. Quando è arrivato qui ho bestemmiato fra i denti per la prima volta in vita mia. Mi è venuto spontaneo appena ho riconosciuto la sua faccia, lui non si era ancora accorto di me. Era quasi l’ora del pasto, io stavo disteso a leggere sul letto, con la coperta addosso. Avevo un po’ di febbre, come mi accade sempre più spesso al mattino. Lui è entrato scortato da due agenti, sdegnoso e tranquillo, come se stesse andando a fare una passeggiata. Aveva l’aria appena un po’ sbattuta per l’arresto, la barba di alcuni giorni, sul viso c’erano tracce di lividi, ma nel complesso stava bene. Ho bestemmiato piano, senza muovermi. Con tutta la gente che è morta ammazzata, ecco che lui sta bene, ho pensato. Di questi tempi, una faccia pesta non significa niente. Lo hanno arrestato, lo processeranno. Ma intanto non lo hanno ammazzato.
Gli agenti gli hanno indicato un letto vuoto nel dormitorio. Sono sempre inquieti perché sentono la tensione nell’aria, e sanno che ci vorrebbe poco per farla esplodere. Hanno salutato Lucas, che ha fatto una smorfia.
– Un altro fascista? – ha imprecato, indicando Antoine. Uno degli agenti ha alzato le spalle. Un pezzo grosso, pare, ha sussurrato, quasi fosse un segreto di stato. Io continuavo a fissare il libro, come se non stesse succedendo niente.
– Ne abbiamo abbastanza di loro qui dentro, – ha continuato Lucas – portatelo in un altro dormitorio.
L’agente l’ha fissato senza ribattere. Come se dipendesse da me, aveva l’aria di dire. Qui o altrove, da qualche parte devo pur metterlo. Il suo nervosismo non è sfuggito ad Antoine, che dava l’impressione di divertirsi un mondo.
– Chi altri c’è? – ha chiesto in tono leggero, come se si trovasse a un incontro mondano. Lucas ha guardato verso di me, e lui ne ha seguito l’occhiata. Mi ha visto, i nostri occhi si sono incrociati e io ho posato il libro.
– François…? O mio Dio. E che ci fai tu qui?
L’ho fulminato con lo sguardo prima che potesse dire altro. Ha esitato, poi se ne è uscito in una risatina.
– Va bene, va bene. Non ci mancherà il tempo di parlare. Però, che sorpresa. E io che pensavo che niente potesse più stupirmi, ormai…
Si è diretto da solo verso il letto che gli avevano indicato, come se ci tenesse a ribadire di avere il pieno controllo della situazione. Si è seduto, e dal sospiro che gli è sfuggito ho capito che dovesse essere esausto, ma non lo avrebbe ammesso per nessuna ragione al mondo.
Per un po’ è tornato il silenzio. Lucas è andato a cercare i suoi amici per informarli della sgradita novità, e gli agenti hanno deciso che potevano allontanarsi. Da allora sono passati due giorni. So che prima o poi Antoine tornerà alla carica, ma per il momento preferisce ignorarmi, e io ne sono ben felice. Ha accettato con totale indifferenza le regole del campo, le corvée per le pulizie o in cucina. Per il resto del tempo ha dormito, incurante degli sguardi d’odio intorno a lui. Sospetto che gli ci voglia del tempo per riprendersi. Non so che cosa abbia passato, e neppure mi interessa. Qualunque cosa gli abbiano fatto, avrebbe meritato di peggio.
Di peggio. Dio mio, chi sono io per dirlo? Eppure ho bisogno di farlo. Ho bisogno di scagliarmi contro di lui. Perché mi ha guardato con quell’aria stupefatta? In effetti erano anni che non ci incontravamo, ma avevamo un certo numero di conoscenti in comune, e avrei pensato che lui sapesse tutto di me, così come io sapevo di lui anche più di quello che avrei voluto.
Quasi mi avesse letto nel pensiero, sento la sua voce bassissima nel buio che mi chiama. Sobbalzo e mi volto. È sveglio, mi sta fissando. Gli altri dormono profondamente. Vorrei far finta di dormire anche io, ma non ci riesco.
– Che c’è?
– Sei sveglio anche tu – constata, girando la testa via da me, a fissare il soffitto.
– Che strano, – prosegue, incurante del mio silenzio – mi è appena venuto in mente che non è la prima volta in cui dormiamo accanto. Eravamo ragazzini… tu eri tornato a passare le vacanze nella proprietà dei tuoi nonni, in campagna. Ricordi la notte in cui mi hanno mandato a dormire da voi?
Certo che mi ricordo di quella notte, sebbene siano passati più di vent’anni, ed è l’ultima cosa di cui immaginavo lui si mettesse a parlarmi. Per un momento, lo stupore è così forte da abbassare le mie difese nei suoi confronti.
Poche ore prima, sua madre aveva tentato il suicidio. C’era stato un fitto andirivieni di medici a casa sua, io e mia sorella eravamo andati a spiare da un’inferriata del cancello cosa stesse succedendo, nascosti da una vite americana che ricadeva tutto intorno a noi. Ricordo l’odore di terra smossa, di erba bruciata che veniva dai campi, il calore del sole, e il nostro sudore aspro che sapeva di colpa e di curiosità. Per quanto piccoli fossimo, avevamo inteso bene, nel salotto di casa nostra, le mezze frasi sussurrate fra mamma e nonna, dove ricorrevano le parole isterica
e viziata
, così spesso che sarebbe stato impossibile per noi due non notarle e non interrogarci sul loro significato. Sapevo che si stavano riferendo a Laure, la mamma di Antoine, ma non riuscivo a capire come una persona adulta potesse essere viziata, era una parola che fino a quel momento avevo sentito riferire solo ai bambini che facevano i capricci.
Mi dispiaceva per Laure, nessuno mi aveva spiegato cosa si fosse fatta, ma anche un bambino di dieci anni era in grado di capire le parole tentato suicidio
. Non doveva comunque essere morta, questa era l’unica certezza che avessimo. Era una donna molto bella, almeno così mi sembrava allora, molto curata, doveva avere qualche anno in più di mia madre, ma ne dimostrava assai meno. La conoscevo da sempre, e ogni volta che la incontravo mi parlava con gentilezza distaccata, signorile. L’avevo però sentita urlare più di una volta dalle finestre aperte, richiuse in fretta ma non abbastanza, mentre giocavo con Antoine in giardino, nella nostra infanzia d’anteguerra.
Ricordo bene quelle urla, e il senso di disagio che avevo sperimentato, mentre Antoine faceva finta di niente. Forse per questo non mi sorprese sapere che Laure aveva tentato di uccidersi. Quella notte di tanti anni fa, io e Lise rimanemmo assai più stupefatti alla notizia che Antoine avrebbe dormito da noi. Mia madre aveva spostato Lise nella camera degli ospiti per lasciargli il suo letto. È meglio che non stia da solo, stanotte, mi aveva detto sfiorandomi la fronte con una carezza triste, meglio che stia con un amico. Io avevo annuito senza ribattere nulla, non sapevo cosa dire. Ero completamente sconvolto. Quando lo accompagnarono su in camera mia, mi ero già infilato nel letto. Anche allora non volevo che mi parlasse. Però non riuscivo a fare a meno di guardarlo, quasi ipnotizzato, sperando che non ci facesse troppo caso.
Era un ragazzo alto, molto più alto di me, sul volto la prima pubertà affiorava con una peluria lieve di cui andava orgoglioso. Lo fissavo mentre si spogliava senza dire una parola, ne osservavo il corpo snello, muscoloso, l’odore già diverso dal mio, già quasi adulto. Aveva in volto la bellezza di sua madre, ma il taglio degli occhi, le linee dure della bocca venivano da suo padre, il militare, l’ufficiale, il padrone di larga parte delle vigne intorno a noi. Suo padre che amava bere e ridere con i contadini alle feste del paese, che andava a caccia e mi faceva paura per i baffi spessi e l’aria severa che aveva sempre rivolgendosi a noi ragazzi. Antoine sembrava assomigliargli, o quantomeno cercava di modellarsi su di lui assai più che sulla madre, ma l’impazienza, la sensualità, quel modo strano di stringere le labbra quando era in collera, mi ricordavano invece lei. Lo osservavo muoversi in camera mia, con una disinvoltura che io non avrei mai avuto a casa d’altri, tantomeno in circostanze simili. Con il senno del poi, mi chiedo se sotto l’apparente imperturbabilità con cui si muoveva quella notte in camera mia, non si nascondesse una strana oscura energia paragonabile a quella che improvvisamente faceva urlare sua madre. Di dolore, di rabbia, di semplice sfinimento, di altro ancora che ignoravo e non credo avrei mai voluto sapere.
Un istante prima che sparisse in bagno, lo vidi contemplarsi nello specchio grande di Lise, completamente nudo, con una sorta di istintivo autocompiacimento. Arrossii per lui e cacciai la testa contro il muro. Se ne accorse e sorrise, ma non disse niente. Quel solo gesto ebbe il potere di bloccare ogni possibile compassione che avessi potuto sentire nei suoi confronti, di riportarmi al bambino inesperto che ero, di fronte a un adolescente che mi guardava con superiorità.
Come fa a citare quell’episodio così tranquillamente, come un qualunque altro ricordo d’infanzia? Non credo sia in cerca di un sentimento di complicità da parte mia, è troppo intelligente per questo. Piuttosto, forse, scioccarmi, trovare un modo di rompere il muro di silenzio fra di noi. E in effetti non posso fare a meno di rispondere, sia pure malvolentieri.
– Me lo ricordo, sì.
Sento qualcuno gemere nel sonno, qualcun altro russa. Mi interrompo, imbarazzato. Antoine non ci fa caso, a differenza mia ha trascorso l’adolescenza come interno in un collegio, dormire insieme ad altri deve essere qualcosa di molto familiare per lui.
– François?
– Eh?
– Si può sapere cosa ci fai qui?
– Secondo te?
Lo vedo sollevarsi su di un gomito, come se volesse squadrarmi