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Max Gallo e il Ritorno del Babau
Max Gallo e il Ritorno del Babau
Max Gallo e il Ritorno del Babau
E-book307 pagine4 ore

Max Gallo e il Ritorno del Babau

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Info su questo ebook

Max Gallo è un cacciatore di incubi. Un giorno alla sua porta bussano i fratelli Clarke, Alex e Anna, di sette e dieci anni. Vogliono il suo aiuto perché da qualche notte fa capolino nelle loro stanze una figura inquietante, circondata da un alone lattiginoso, la testa enorme e le mani lunghe come artigli. Pensano si tratti del Babau, l'Uomo Nero di cui il padre ha raccontato loro un paio di volte, e che c'entri qualcosa con la scomparsa di un loro compagno di scuola, Marty Foley.
Nella stanza del ragazzino, di cui nessuno sa più nulla, vengono ritrovati dei graffi lungo lo stipite della porta dell'armadio; segni tangibili della scia di terrore passata di lì. È stato davvero l'Uomo Nero? 

Per risolvere il mistero Max chiederà consiglio al dottor Andy Molnar del Millner Psichiatric Hospital, l'unico adulto in tutta Fortuneville, cittadina in cui si sono svolti questi fatti, a credere che certi incubi a volte possono essere talmente reali da turbare per sempre la vita delle persone. Max Gallo e il dottore osserveranno una notte il paziente B. venire aggredito dal mostro, ma il trambusto causato dall'apparizione verrà denunciato all'irremovibile detective Teo Johnson; questi, insospettito scoprirà che il cacciatore di incubi non è altri che un adolescente, orfano, che vive in una casa in rovina alla periferia della città. In attesa di capire qual è il suo ruolo nei misteriosi fenomeni che si stanno verificando a Fortuneville, farà in modo di rinchiuderlo nell'orfanotrofio di Mulholland Road, il St. Daniel Hospice. E dove il Babau avrebbe potuto trovare nutrimento migliore, se non in un posto in cui i bambini dormono soli, privati anche dell’amore dei propri genitori?

Questa è una storia di paura, di una leggenda che dal medioevo è riuscita ad arrivare ai giorni nostri. Il Babau, infatti, è uno dei pochi demoni dei sogni che gli uomini hanno contribuito a rendere reale: più si rifiutano di credere e più gli danno la forza necessaria per superare la Soglia.

Non sarebbe stato facile, Max lo sapeva e comprendeva lo stato d’animo dei due ragazzini. Era consapevole che ci sarebbe voluto solo un grande atto di fiducia nei suoi confronti.
Be’, lo stesso che ci voleva per decidere di credere che certi incubi sono concreti e che la paura ha la vera capacità di rendersi reale, nell’autentico senso della parola.
Alla fine Alex e Anna avevano deciso di accordargli quel grande atto di fiducia.
LinguaItaliano
Data di uscita26 mar 2018
ISBN9788827594346
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    Anteprima del libro

    Max Gallo e il Ritorno del Babau - Christian Perego

    mezzanotte

    Prologo

    L’uggiolio dei cani si era fatto più insistente.

    La luce della luna, in quel momento, appariva timida in mezzo alle nubi.

    Se ci fosse stato qualcuno a guardare verso l’alto, avrebbe visto un quadretto davvero di grande bellezza: nuvole grigie, sospinte da una brezza fredda ma leggera, contornavano una luna quasi piena, pallida e attraente da parere dipinta; ora la velavano ora la scoprivano, in una scena perfetta e affascinante.

    Un paio dei cani vagabondi che giravano per le strade a quell’ora di notte avevano anche alzato il muso al cielo: chi lo sa se erano in grado di apprezzare quanto vedevano sopra i tetti di Fortuneville.

    Probabilmente non in quell’occasione: i randagi erano troppo nervosi.

    La città era pressoché tutta addormentata, persino dai pub la gente era andata via e i gestori riordinavano tutto in fretta e furia per chiudere il locale e gli occhi il prima possibile.

    Fortuneville era una cittadina tranquilla, ordinaria: ogni tanto accadevano drammi, ogni tanto piccole gioie.

    Chi ci abitava avrebbe voluto andar via, per trovare qualcos’altro, salvo poi desiderare ritornarci. Chi ci passava avrebbe voluto fermarsi, immaginando chissà che, salvo poi rimanere deluso della scelta che aveva fatto.

    Ancora un uggiolio più insistente, lamentoso, quasi da apparire spaventato.

    I due bastardini che si trovavano in Abbey Street guardarono verso il secondo piano della palazzina in mattoni rossi che avevano davanti e guairono come se avessero ricevuto una pedata cattiva.

    Dalla finestra usciva una lucina di latte, simile a quella della luna che si trovava in cielo, ma venata di blu, come se provenisse da un acquario, o dalle profondità stesse del mare.

    In apparenza tutto era tranquillo all’interno della casa.

    Uno dei cani abbassò la coda tra le gambe e, senza chiedere il parere del compagno, si dileguò in un vicolo laterale.

    Dentro la stanza da letto al secondo piano della palazzina di mattoni dormivano Alex e Anna Clarke, di sette e dieci anni.

    Si rigiravano nel letto un po’ agitati. Alex era bagnato di sudore, Anna respirava male.

    I loro visini erano illuminati dalla tenue luce azzurrata che i randagi avevano visto da sei metri più in basso. Nella stanza era naturalmente più intensa.

    Tra poco, anche se era ancora notte fonda, i fratelli Clarke si sarebbero svegliati.

    ~

    Il detective Teo Johnson se ne stava sul divano a bere coca cola.

    Lo rilassava sorseggiarla dopo una giornata di lavoro e, anche se la moglie lo rimproverava di berne troppa, Teo non riusciva sempre a trattenersi.

    Sul lavoro era considerato uno bravo, serio e autorevole; andava molto vicino alla categoria del tipo che si definisce un duro. Torchiava un sospettato fino a farlo parlare, ordinava gli appunti e gli indizi con sistematico rigore, ragionava con gli occhi fissi sempre in un punto, senza voler essere disturbato, fino a quando arrivava a una delle sue proverbiali intuizioni.

    Buon per lui che i colleghi, e i delinquenti, non lo potessero vedere tra le mura di casa, dove invece Bertha, sua moglie, lo tiranneggiava neanche fosse stato uno degli ultimi attendenti arrivati alla stazione della polizia.

    In quel momento Johnson faceva zapping davanti alla Tv, nell’improbabile speranza, che anche lui sapeva sarebbe stata delusa, di trovare qualcosa di decente da guardare.

    Comunque sia qualche programma di scarso interesse e la sua lattina di coca in una mano lo aiutavano a svuotare la testa dai problemi e dalle fatiche della giornata, perciò andava più che bene così.

    A un certo punto il detective Johnson girò la testa verso la finestra. gli scuri non erano ancora stati richiusi, come al solito avrebbe dovuto farlo lui. Dentro la cornice delle tende vide una bellissima luna, sporcata appena da alcune nuvole grigie.

    Che pace che deve essere stare là fuori con il naso in su a guardare quello spettacolo! pensò.

    Sapeva però che fuori faceva piuttosto freddino in quella stagione e che tutto sommato il suo divano e le sue pantofole rappresentavano un’alternativa migliore.

    ––––––––

    In un’altra abitazione di Fortuneville anche qualcun altro era ancora sveglio a contemplare il bel quadretto offerto dal cielo quella sera.

    Nella finestra della casa di Nightmare Road compariva la sagoma abbastanza smilza di un adolescente. I suoi capelli folti e arruffati disegnavano ombre irregolari.

    L’aspetto dell’appartamento all’interno rivelava che il proprietario non riusciva a metterci ordine, così come avveniva con i suoi capelli.

    Le stanze non erano ingombre di oggetti, quello no; ma i pochi che c’erano si trovavano quasi sempre nel posto sbagliato. Delle mutande appese a un’abat-jour. Un pezzo di pizza sopra il frigorifero anziché al suo interno. Una mazza da hockey di traverso su un tavolo. Un libro penzolante dal lampadario.

    L’adolescente dava le spalle al salotto; insomma era affacciato alla finestra, con la fronte proprio appiccicata al vetro.

    Guardava la luna con aria interrogativa, come chi avesse fatto una domanda e non capisse perché l’interlocutore non rispondesse. Di tanto in tanto ticchettava sul vetro con l’indice.

    Indossava una maglietta di un tenue color lilla e dei jeans con le gambe piuttosto lunghe, così che l’orlo dei pantaloni finiva quasi sotto le scarpe, era infatti sfrangiato e rovinato dalle molte volte che era stato strisciato per terra. Il ragazzo non si era ancora cambiato i vestiti della giornata per mettersi il pigiama.

    Il suo viso non era assonnato. Si dimostrava ancora vispo e vigile.

    A un certo punto il giovane si grattò quasi con rabbia la cicatrice che aveva proprio alla base della nuca, poi staccò la testa dal vetro, si girò e andò a osservare il calendario.

    Rimase così per alcuni attimi, quindi tornò alla finestra.

    Rifece questa operazione un paio di volte ancora, come se lo aiutasse a pensare.

    Finché alla fine emise un lungo sbuffo, quasi che tutta quell’aria fosse il termine di una lunga fatica, oppure il tentativo di cacciare via un insetto davvero molesto.

    A quel punto, senza dire una parola, nemmeno al suo cane appisolato sul tappeto del salotto, prese un taccuino con una grossa M rossa e gialla impressa sulla copertina e, aprendolo apparentemente a caso, cominciò a scrivere qualcosa. Quando scriveva, tirava leggermente in fuori la lingua e stringeva gli occhi, come se dovesse prendere la mira per colpire un bersaglio.

    Sul suo volto si era appena disegnata un lunga ruga in mezzo alla fronte, che era il segno inequivocabile che qualcosa lo stava preoccupando.

    Dopodiché il ragazzo prese un giubbotto mezzo sgualcito dalla poltrona accanto a lui e uscì di casa.

    Fatti pochi passi, si fermò sul vialetto e si guardò le scarpe, come se stessero per dirgli qualcosa.

    ––––––––

    Arthur era un bassotto placido e amante della vita tranquilla. Aveva un lucido pelo marrone scuro, uno sguardo vispo e simpatico e un’attitudine spiccata a giudicare perfettamente gli esseri umani. Forse anche per questo gli piaceva stare in loro compagnia.

    In quel momento stava schiacciando un pisolino, ma non era così assopito da non sentire l’andirivieni del suo padrone in salotto, dove il cane si trovava raggomitolato.

    Aveva così socchiuso gli occhi, quel tanto che bastava per vedere il padroncino percorrere il soggiorno due tre volte.

    Brutto segno: se qualcuno va avanti e indietro da una stanza e non sta facendo un allenamento particolare, è proprio un brutto segno pensò Arthur, e raramente si sbagliava.

    Aveva così cominciato a seguire con maggior attenzione, e fare interrogativo, i movimenti del suo padrone.

    Lo aveva visto andare verso il calendario, che lui come cane non sapeva leggere perfettamente, anche se intuiva che per gli uomini i giorni e il loro susseguirsi avevano un significato tutto particolare.

    Poi vide il padroncino scribacchiare sul taccuino: lì sopra, poco ma sicuro, aveva scritto qualcosa per svuotare la testa e ripensarci il giorno dopo, qualcosa che c’entrava con i problemi di cui si occupava e che lo avrebbero occupato nei giorni a venire.

    Arthur era anche un po’ imbronciato: si risentiva del fatto che il ragazzo non gli dicesse niente, quando solitamente lo metteva a parte di idee, progetti o preoccupazioni.

    Anche questa è una cosa che non promette nulla di buono si ritrovò a pensare.

    Provò a scodinzolare timidamente, ma questo non sembrò attirare l’attenzione del padrone.

    Quando lo vide imboccare la porta di casa, Arthur pensò ancora: Ecco...

    Poi sollevò gli occhi al cielo.

    Infine, non avendo praticamente nulla da fare, infatti non aveva ancora imparato ad aprire la porta di casa, si rimise accovacciato sul tappeto e provò a richiudere gli occhi.

    ––––––––

    Boris Karlov osservava con sguardo indispettito il chiaro di luna che trapelava dalle nubi. Contraeva la mascella quadrata in una piccola smorfia di insofferenza.

    Odiava il plenilunio semplicemente perché molti lo trovavano bello da vedere. Odiava però anche le notti completamente senza luna, perché invece qualcun altro ne aveva un po’ paura. Non amava il sole, che metteva troppe persone di buon umore, e nemmeno la pioggia, perché non gli piaceva bagnarsi, neanche le scarpe.

    Già, Boris Karlov non era quel che si dice una persona allegra. Men che meno in quella giornata, visto che la polizia aveva appena catturato Natasha Ivanovna, la sua compagna di tante, illegali, avventure.

    In quel momento Karlov si trovava all’interno di un sudicio e anonimo appartamento di Stanley Street, in uno dei quartieri periferici e meno belli di Fortuneville.

    La carta da parati veniva via dal muro come se nemmeno lei desiderasse trovarsi lì; le finestre erano talmente sbilenche che più che spifferi in casa entravano sbuffi da locomotiva; qualche topo non disdegnava di far capire che lì dentro aveva più di un interesse.

    Boris l’aveva fatta franca per un pelo, quel pomeriggio: muri scrostati e roditori più o meno coraggiosi erano quindi l’ultima delle sue preoccupazioni. A Natasha non era andata così bene, povera donna.

    Il delinquente navigato diede un’ultima occhiata alla luna con uno sguardo torvo e storto, a metà tra il crudele e l’eccessivamente semplice, tanto da risultare vuoto.

    Poco ma sicuro a qualcuno l’avrebbe fatta pagare.

    E dopo questo pensiero di astio rivolto non si sa bene a chi, prima di essersi accorto che la lattina che aveva in mano era completamente vuota, le diede una lunga sorsata desideroso di trovarci ancora qualcosa. Poi, evidentemente stizzito, la stritolò tra le mani e imprecando la gettò in un angolo.

    ––––––––

    Lucy Lyu stava guardando un albero di pesco e uno di ciliegio persi in una radura di erba verde e folta, che era lievemente mossa da una tiepida brezza primaverile.

    I fiori rosa e bianchi erano davvero riposanti per gli occhi e la mente. E un po’ di relax era quello che le ci voleva.

    Non si ricordava se aveva visto quel paesaggio in un quadro oppure se era stato un quadro a suggerirle di fare quel paesaggio.

    Lucy Lyu prima pensò che ci sarebbe stato bene anche un cavallo, magari bianco, poi però ricacciò indietro l’idea: l’equino avrebbe movimentato troppo l’insieme. Meglio lasciare il tutto il più riposante possibile.

    È così noioso a volte stare con gli uomini, con tutti quei problemi che creano, che a volte mi domando come mai non rimango più spesso da sola.

    Il pensiero le era uscito ad alta voce e le sembrò giusto dirlo a qualcuno, prima o poi.

    Prima o poi avrebbe trovato qualcuno a cui dirlo.

    Dopo aver dato un ultimo sguardo al pesco, al ciliegio e a tutto il paesaggio in generale, Lucy Lyu girò i tacchi, si chiuse più compostamente il colletto della camicetta bianca, si diede una sprimacciata alla gonna e uscì dalla porta.

    Primo rintocco

    Children have you ever met the Boogeyman before?

    No, of course you haven't for you're much too good, I'm sure

    ––––––––

    Dai papà, raccontala la storia!

    John Clarke fece un sorriso benevolo. Era combattuto.

    Non era solito disattendere le richieste dei figli, che cercava di accontentare ogni volta che poteva. Soltanto che un’altra storia di paura non sarebbe stata certamente apprezzata dalla moglie.

    Siete proprio sicuri? Non è che per caso per stavolta possiamo passare a una favola più... normale?

    No, no, papà avevi promesso che ci avresti raccontato una storia del terrore!

    Alex e Anna non demordevano.

    In effetti ci sarebbe stata anche la motivazione per scegliere una favola della buona notte più classica: due notti prima, infatti, entrambi i fratelli non erano riusciti a dormire bene e probabilmente questo era accaduto proprio a causa di una storia spaventosa raccontata loro dal papà.

    Ma, si sa, provare paura è un piacere altrettanto irrinunciabile che provare sollievo e per due bambini di sette e dieci anni era duro privarsene.

    Allora... va bene disse John Clarke con un sorriso comunque compiaciuto che gli affiorava dalle labbra però ne sceglierò una con cura, magari senza troppi elementi... elettrizzanti.

    Eh no, dai papà! Deve fare paura! dissero in coro i due ragazzini.

    Va bene, va bene, non cominciate già a protestare fece John, il quale a ogni modo stava ripensando all’avvertimento della moglie, che gli aveva chiesto di non esagerare con quel genere di racconti a sera tarda.

    Si schiarì la voce, si mise comodo sul letto di Anna, mentre già Alex si protendeva dal suo, e cominciò così: "Circa una cinquantina di anni fa, pensate non ero nato neanche io, viveva, qua a Fortuneville, una famiglia abbastanza strana. Sapete, me lo ha raccontato più di una volta il nonno, che quelli si facevano vedere raramente in paese, non avevano né volevano il televisore e il telefono, e guardavano storto chiunque si avvicinasse troppo alla loro proprietà.

    Questa coppia aveva un figlio, che apparentemente non aveva nulla di diverso rispetto agli altri ragazzi. Il suo nome era Paul BausBaus.

    Alex fece un piccolo risolino dopo aver sentito quel nome buffo, ma il papà, da buon attore consumato, abbassando ulteriormente la voce, gli disse: No, no, Alex; vedrai, non riderai più, dopo che avrò finito la storia di Paul BausBaus.

    John piegò un po’ più avanti la schiena, come per avvicinarsi ulteriormente ai ragazzi in atteggiamento complice, e continuò: Paul sembrava avere una vera passione per gli animali domestici: la gente lo vedeva spesso in giro con un cane o un gatto, una volta persino con un coniglio. Il punto era che nessuno, dopo che lo aveva incontrato passeggiare con un nuovo amichetto a quattro zampe, aveva mai rivisto l’animale che Paul possedeva in precedenza...

    John! la voce di Clara irruppe nella stanza in penombra come un petardo tirato all’insaputa alle spalle. Fece letteralmente sobbalzare i bambini sui letti.

    John, avevamo deciso di non raccontare più questo genere di storie ai ragazzi prima di metterli a dormire!

    In verità era stata un’imposizione della stessa Clara, alla quale John Clarke non aveva potuto obiettare; ma l’uomo si sentiva comunque in colpa e non ribatté nulla.

    Non è bastata la scorsa nottata per far capire a tutti e tre e guardò i figli che piano piano si stavano rintanando sotto le coperte per far capire a tutti e tre che per riposare bene non è proprio il caso di ascoltare delle storie del terrore?!

    Con questo la discussione era chiusa. L’ora sufficientemente tarda.

    Così per i due fratelli era giunto il momento di trovare pace, ed evitare i rimproveri, spegnendo la luce e fingendo di cominciare già a prendere sonno.

    Il buon John Clarke, invece, non poteva avere questa fortuna.

    Una volta tornati al piano di sotto in salotto, infatti, la moglie lo rimbeccò ancora: Io non so perché ti ostini a continuare con questa cosa dei racconti del terrore.

    John stava per ribattere, ma Clara non gliene diede il tempo: E non dirmi che sono i bambini che te lo chiedono, pregandoti. Tu sei l’adulto, tu devi sapere cosa è bene per loro, anche se loro ti chiedono il contrario!

    L’uomo riuscì a inserirsi nella discussione: Guarda, Clara, che i racconti che scelgo di raccontare sono solo storielle, al massimo con un po’ di mistero, qualche notte buia e un po’ di ombre. Altro che ‘racconti del terrore’!

    Fatto sta che due notti fa abbiamo visto che effetto ha fatto il tuo ‘mistero’ all’acqua di rose!

    Clara si riferiva a quanto accaduto appunto un paio di giorni prima.

    Un’ora circa dopo la mezzanotte Anna era andata nella loro camera, dicendo di sentirsi poco bene. Si era svegliata con una brutta sensazione, una cosa tipo la nausea, aveva spiegato.

    I genitori avevano cercato di tranquillizzarla e di minimizzare la faccenda, ma non c’era stato verso: Anna era rimasta scossa e agitata per il resto della notte.

    C’era di più. Una volta andati nella stanza dei bambini, John e sua moglie avevano trovato anche Alex in preda all’agitazione e in un bagno di sudore.

    Proprio mentre i genitori erano sopraggiunti, il bambino si era svegliato abbastanza turbato e mormorava di non si sapeva bene quale brutto sogno.

    Tra il sonno e il malessere del figlio, papà e mamma non avevano ben compreso quale fosse l’oggetto dell’apparente incubo. Il mattino dopo Alex sembrò non ricordare nemmeno di non essere stato bene durante la notte e tutto fu, com’era naturale, dimenticato.

    Certo Clara, dopo aver saputo che John aveva raccontato una storia che c’entrava con l’Uomo Nero, aveva dato la colpa della nottataccia dei ragazzi a quel racconto.

    ––––––––

    Nella loro stanza, com’era logico, Anna ed Alex non presero sonno immediatamente.

    Appena i genitori furono scesi da basso, fecero scattare la luce dell’abat-jour.

    Questa volta papà è nei guai disse con un tono mezzo divertito quel birbante di Alex.

    Non c’è mica da scherzare, sai, povero papà! La mamma lo starà sgridando ben bene.

    Che pizza, però disse ancora Alex così non abbiamo sentito la fine della storia di Paul BausBaus.

    Ma se te la stavi già facendo sotto!

    Non è vero!

    Già, già, come l’altra notte con la storia dell’uomo nero.

    Dopo aver detto quest’ultima cosa, Anna voltò lo sguardo dalla parte opposta della stanza.

    Sulla parete di fronte ai loro letti stava lo sgabuzzino-cabina armadio delle scarpe e di alcuni loro vestiti.

    La porta era aperta.

    Alex, va’ a chiudere la porta dello sgabuzzino.

    No, l’hai lasciata aperta tu e ci vai tu.

    Guarda che ti sbagli, la porta l’hai lasciata aperta tu.

    Non mi ci sono neanche avvicinato!

    La solita storia... io sono sicura di non averla aperta: non avevo un bel niente da prendere.

    Che pizza! Ti ho già detto che io non l’ho lasciata aperta e perciò non ci vado a chiuderla. Lasciala aperta, no? Che t’importa?

    Uff! Non mi piace che rimanga aperta... e va bene, ci vado io, contento?

    Anna scostò le coperte di lato, appoggiò i piedi nudi sulla moquette, rabbrividendo leggermente alla frescura, e si avvicinò allo sgabuzzino.

    Per un attimo le parve di sentire uno spiffero provenire verso di lei, non di lato, dove c’era la finestra, ma di fronte.

    Fu solo un instante.

    Le sembrò anche che una certa nausea le stesse per tornare.

    La ragazzina cercò di non pensare a nessuna di queste due sensazioni. Spinse la maniglia della porta dello sgabuzzino e la chiuse, decisa.

    Poi tornò a letto per addormentarsi. Il sonno arrivò quasi subito.

    Ma Anna si ritrovò sveglia solo qualche mezz’ora più tardi.

    Le pareva di avere sentito una specie di brontolio, una cosa detta a mezza voce, e stava già per chiamare quello scocciatore del fratello: come non lo sopportava quando parlava nel sonno!

    Non appena lo sguardo si fu abituato alla semioscurità della stanza, Anna Clarke rimase come interdetta, con la bocca aperta, mezza appoggiata al braccio piegato sul cuscino e con la mano che, anche se non se ne stava accorgendo, stringeva forte il lenzuolo: la porta dello sgabuzzino era aperta.

    La prima cosa che la bambina si ritrovò a pensare fu proprio all’Uomo Nero: di nuovo quella storia del papà!

    Dopo che ebbe fatto però mente locale, si convinse che forse era il caso di smetterla per un po’ con i racconti del terrore, e che comunque lei era ormai troppo grande per credere a quelle storie.

    Figuriamoci: come le era potuta venire in mente una cosa del genere?!

    Il secondo pensiero fu che la porta dello sgabuzzino aperta era stato uno scherzo di Alex.

    Dopo averci pensato un po’, le sembrò improbabile anche quella ipotesi: che lui si fosse alzato dopo che lei si era assopita, che non avesse fatto rumore e così via... ma volle crederci lo stesso.

    Pssst...

    Alex non rispose, sembrava stesse dormendo profondamente.

    Psssssssst...

    Ancora nessuna risposta.

    Poi Anna lo vide agitarsi nel letto.

    Pssst! Alex! ma il fratello non dava segno di risvegliarsi.

    Anna gli si avvicinò e lo trovò tutto sudato e agitato, come quell’altra notte, con un’espressione in volto di muta sofferenza.

    Allora lo prese per il braccio e, dopo alcuni tentativi, finalmente riuscì a destarlo.

    Senza dirsi una parola, come se entrambi sapessero di doverlo fare, girarono contemporaneamente la testa verso lo sgabuzzino.

    La porta pareva un poco più aperta e un alone lattiginoso si stava formando sulla sua soglia.

    ––––––––

    La mattina seguente Clara e John Clarke non dovettero sudare come al solito sette camicie per far alzare dal letto i ragazzi: sembrava che i due fratelli stessero aspettando proprio il momento del risveglio e furono pronti e scattanti.

    I loro genitori ne furono quasi entusiasti.

    La mattina, in casa Clarke, risultava sempre abbastanza affaccendata e caotica. In questo caso era Clara a essere un po’ in ritardo, e spalmò la sua agitazione su tutta la famiglia.

    Così né Clara stessa né John si accorsero che i ragazzi erano sì pronti in cucina, già semi vestiti, ma con due borse sotto gli occhi che li si sarebbe potuti scambiare per dei panda.

    Nel piccolo trambusto che ci fu bisognava prendere tutto l’occorrente per andare rispettivamente o a scuola o al lavoro e saltare sull’auto di famiglia.

    John Clarke fu lieto di poter lasciare la casa in fretta: non si poteva sapere dove Clara sarebbe stata spinta dal suo nervosismo per il

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