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Grigionero
Grigionero
Grigionero
E-book305 pagine4 ore

Grigionero

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Info su questo ebook

Grigionero è stato dipinto presumibilmente da Renoir, come si deduce dallo stile, dalle iniziali, A. R., e dalla data, 1881. Il soggetto raffigurato è un paesaggio marino che in molti hanno indicato essere la costa della Calabria, in Italia, in cui il grande maestro francese aveva soggiornato per qualche periodo. Si chiama Grigionero ma di colore ce n’è, e pure tanto.

LinguaItaliano
Data di uscita16 set 2010
ISBN9788895031736
Grigionero
Autore

Vanessa Lico

Vanessa Lico è nata a Vibo Valentia il 9 Luglio del 1986 e ha trascorso buona parte della sua vita a Pizzo (VV). Dopo aver frequentato il Liceo Linguistico “V. Capialbi” di Vibo, nel 2005 si iscrive al corso di laurea in Mediazione Linguistica a Cosenza, dove si laurea tre anni più tardi. Attualmente vive a Roma e studia Traduzione Letteraria per il cinema presso l’Università La Sapienza. Aspirante interprete e traduttrice, si occupa di traduzione per il turismo. Grigionero è la sua opera d’esordio.

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    Anteprima del libro

    Grigionero - Vanessa Lico

    Grigionero

    romanzo

    Vanessa Lico

    Published by Giuseppe Meligrana Editore at Smashwords

    Copyright © 2010 by Giuseppe Meligrana Editore

    ISBN 978-88-95031-73-6

    www.meligranaeditore.com

    All rights riserved - Tutti i diritti riservati

    * * * * *

    To my best friend,

    who opened my eyes,

    teaching me colours,

    saving me from

    a black and white

    existence.

    * * * * *

    Lo squillo del cellulare a quell’ora improbabile gli sembrò un vero sacrilegio che lo riportava nel mondo reale dopo che la sua mente, piena di aspettative, aveva vagato in luoghi magnifici. Era un collezionista, il che, in altre parole, significava che conosceva bene l’arte e sapeva come trattarla; per questo non amava ricevere chiamate nel cuore della notte, anche se aveva personalmente pregato il suo uomo di fiducia di contattarlo appena avesse avuto notizie.

    «Che c’è?» – domandò scocciato nel duro accento moscovita, il suo dialetto, mettendosi a sedere con gli occhi ancora chiusi e la bocca impastata dal sonno.

    Dall’altra parte, qualcuno pronunciò poche parole concise con un forte accento russo e poi interruppe la chiamata. Si trattava di uno Chagall stavolta. Poteva ritenersi soddisfatto. Era come essersi tolto un grosso peso dal petto: finalmente anche quel quadro sarebbe stato suo!

    Il freddo autunno che aveva colpito Montecarlo, senza preavviso, stringendola in una morsa glaciale, lo costrinse ad avvolgersi tra le coperte. Godendo della sua posizione di ricco uomo d’affari e di quelle sue amicizie importanti, si sentiva in una botte di ferro in quella sua nuova casa, dal recente restauro, nel Principato, città che amava poiché qui, a differenza della sua Mosca, poteva trascorrere una vita più mondana.

    Stava pensando a quanto bene quel nuovo pezzo si sarebbe mescolato alla sua già cospicua collezione, di sotto, in quella che originariamente era stata la cantina della sua antica villa a tre piani, quando un rumore appena percettibile risvegliò i suoi sensi. Poteva esserselo solo immaginato?

    Essenzialmente era un uomo pratico, un imprenditore senza scrupoli ipocriti e quindi con una buona dose di intuito nel valutare le situazioni; così, per prima cosa, aprì il cassetto del suo comodino e ne trasse una pistola piccola e particolarmente maneggevole, che si rigirò tra le dita con la maestria di un professionista. Controllò per un attimo nella penombra della camera da letto che fosse carica e si diresse spedito verso la porta, con un vago senso di pericolo. Andò dritto nella vasta hall della villa, contornata di scale di marmo e corrimano d’ottone finemente cesellati, quindi diede una rapida occhiata al quadrante digitale del sistema d’allarme. Il respiro gli si mozzò nella gola: era stato disinserito!

    Senza perdere la calma ma con quel senso di pericolo che cresceva e irrigidiva ogni muscolo del suo corpo, si voltò guardandosi attorno, poi una precisa consapevolezza prese posto nella sua mente: erano i quadri ciò che cercavano. Ma c’era qualcosa di ben più prezioso di tutte quelle opere d’arte messe insieme, qualcosa per cui nessun prezzo sarebbe stato sufficientemente alto. Per la prima volta ebbe paura.

    Si sentì sicuro che qualcuno di quegli operai italiani, dalle facce non proprio rassicuranti, che aveva avuto in casa fino a qualche giorno prima per i lavori di adeguamento e abbellimento della cantina, avesse detto in giro qualche parola di troppo; forse era stato proprio quello che aveva cacciato in malo modo qualche settimana prima, per aver imbrattato il pavimento con della vernice, ad aver parlato. Ciò che aveva temuto si stava verificando, ne era sicuro. Nessuna organizzazione criminale, conoscendo perfettamente qual era il suo ruolo e sapendo chi lo proteggeva, avrebbe agito in tal senso. Erano sicuramente degli squattrinati improvvisati, dei ladri di galline. E per questo stesso motivo solo più pericolosi perché non poteva avere alcun controllo su di loro.

    Corse senza fiato fino alle scale che dalla stanza attigua conducevano nella parte sotterranea della casa e in un attimo capì che il suo timore era più che reale: la finta parete scorrevole che celava l’entrata dell’antica cantina era stata spostata, dentro poteva chiaramente distinguere una luce leggera.

    Il russo impugnò saldamente la sua arma e la puntò alla schiena dell’uomo in tuta nera e dal viso coperto che stava staccando dal muro la parte migliore della sua intera collezione. Non quello pensò in preda a una miriade di sentimenti diversi. Quel quadro significava troppo, per ovvie ragioni; era come una bomba ad orologeria e non poteva certo finire in mano ad altri, men che meno a degli sprovveduti. Si schiarì lentamente la gola e poi chiese allo sconosciuto di voltarsi lentamente e di togliersi il passamontagna.

    «Non un solo passo falso» – lo mise in guardia in perfetto francese, sistemandosi meglio sulle gambe leggermente divaricate, rese molli dall’incertezza. Prese bene la mira.

    L’altro uomo era evidentemente spaventato e, difatti, non disse una parola.

    «Come diavolo hai fatto ad entrare?» – lo incalzò sforzandosi di mostrarsi perfettamente calmo. Fu allora che sentì dei passi alle spalle. Fece appena in tempo a voltarsi che un dolore lancinante e immediato lo investì al petto facendolo barcollare, mentre una grossa macchia brunastra si allargava all’altezza del suo stomaco.

    «Mio Dio, no!» – biascicò con un filo di voce; le parole non avevano la forza di uscire. Si accasciò bruscamente sul pavimento di pietra e il suo ultimo sguardo andò alla collezione, adesso in mano a quegli sconosciuti. Era un sacrilegio ciò che quei maledetti stavano facendo! Avrebbe dovuto far installare un sistema d’allarme più sofisticato o pagare qualcuno per la sicurezza. Quello valeva troppo…

    «Muoviti, andiamocene via di qua» – bisbigliò incredulo l’uomo che aveva sparato, indossando ancora il passamontagna. Staccarono un altro paio di quadri dalle pareti, i più piccoli e facili da trasportare, poi sparirono con la stessa agilità con la quale erano entrati. Avrebbe dovuto stare attento a non fare rumore, avrebbe dovuto mantenere la calma e minacciare soltanto il ricco magnate, non sparargli a sangue freddo. Lo sguardo pungente del suo socio non lo abbandonava un attimo e allora fu invaso dalla paura. Non aveva mai ucciso nessuno prima di quella notte.

    Di una cosa era assolutamente certo, dovevano dileguarsi alla svelta da quella maledettissima casa e liberarsi al più presto della poca refurtiva.

    * * *

    Lo so che non speravi di avere mie notizie così presto e invece ho deciso di farti una sorpresa. Credimi, stavolta c’è in ballo qualcosa di grosso, lo sento nelle ossa e sono sicuro che non ti farai pregare troppo. Sai quanto posso essere persuasivo… E sai anche che se voglio una cosa trovo il modo di ottenerla. Si tratta di un quadro, ma dobbiamo essere cauti perché altri vogliono ciò che cerchiamo noi. E non sono persone esattamente a modo, non so se mi spiego. Se farai il bravo, avrai una bella fetta della torta, so quanto sei goloso, signor filosofo. C’è un mucchio di soldi in ballo che potrebbero letteralmente pioverci dal cielo e una settimana fa ne ho avuto la conferma. Dobbiamo vederci al più presto fuori Londra, al solito posto, e devi venire da solo perché c’è qualcosa di estremamente interessante da discutere.

    Ora vado a godermi un bello spettacolo, pensa che trovo anche il tempo di concedermi qualche piccolo piacere. Tieniti nei paraggi e soprattutto non una parola con i tuoi cari amici fuori di testa, stavolta non tollererò imprecisioni.

    Oxford, 28 marzo c.a.

    Henry Wotton.

    * * *

    La prima volta che lo vidi ero nel mio alloggio universitario, al terzo piano di un palazzo grigio e anonimo che ha il potere di tirar fuori il lato peggiore della gente. Passavo la notte e buona parte delle giornate piovose in quattordici metri quadri, con una sola finestra munita di tendine di pizzo per ravvivare un po’. Preparavo il mio primo esame di letteratura inglese ma, come molte altre cose nella mia vita, prendevo tutto con estrema nonchalance. Avevo passato la mattinata a leggere e rileggere almeno dieci volte ciascuno dei vecchi scritti che avevo recuperato in biblioteca, poi finalmente optai per una doccia bollente che mi ritemprasse, e nulla sarebbe successo se la caldaia non avesse fatto i capricci.

    Mi avvolsi in un asciugamano pulito e uscii sul balcone a sistemarla: a fine aprile faceva già caldo. In breve, la caldaia non volle saperne di ripartire, mi misi a darle dei colpi, frustrata, e mi accorsi che lo spaccone di fronte mi fissava ridendosela di cuore.

    - «Lo trovi divertente?» – gli urlai mentre spariva all’interno del suo alloggio. Dieci minuti più tardi stava suonando alla mia porta. Ero da sola in casa (a dire il vero Greta, una delle mie coinquiline, che veniva da qualche posto del Sud Italia, era nella sua stanza, ma quando studiava era praticamente irreperibile). Mi accorsi che lo spaccone era un bello spaccone: alto, biondo e con dei penetranti occhi blu che facevano tanto bravo ragazzo.

    «Puoi ripararla?» – gli chiesi scocciata, senza convenevoli; dopo altri dieci minuti era tutto più o meno a posto.

    Mi domandò che ci facesse una francese carina come me in un posto come quello e io odiai il fatto che il mio accento, a suo dire raffinato, fosse il mio biglietto da visita in ogni occasione. Per cambiare argomento (la cosa in realtà mi imbarazzava), mi informai su come potevo sdebitarmi e l’occhiata profonda che mi rivolse me lo spiegò fin troppo bene. Lo sbattei fuori. Non ci pensai più per tutto il pranzo ed il pomeriggio seguente, ma quando la sera poggiai la testa sul cuscino e Nicole spense la lampada sul suo comodino iniziai ad immaginarmi come doveva essere la sua stanza, quali erano le cose che gli piacevano, che tipo di gente frequentava… Mi addormentai e lo sognai, sognai i suoi occhi bellissimi e soprattutto il sorriso sarcastico sulle sue labbra perfette. Erano ormai diversi mesi che stavo ad Oxford, dopo una serie infinita di rinunce e sacrifici, e conoscevo ancora pochissima gente, non avevo neanche l’ombra di un amico. A casa, mi ero sempre ritenuta un tipo socievole, ma ora iniziavo ad avere qualche dubbio e mi annoiavo a morte.

    Il giorno dopo la radiosveglia di Nicole mi fece quasi cadere dal letto, ma al solito lei non si svegliò. Mi alzai, preparai un caffè forte, imburrai le fette biscottate e ci passai su un bel po’ di marmellata di ciliegie, poi accesi MTV in cerca di un diversivo. Non avevo lezioni quella mattina e, a parte studiare, non sapevo che fare se non andarmene in giro senza una meta precisa. Le relazioni critiche su Shakespeare erano nella mia borsa e le avrei portate con me fino a che non mi fossi decisa ad aprirle su qualche panchina sotto al timido sole, o magari sull’erba. Magari, potevo anche andare in biblioteca… Sì, avrei optato per quell’idea!

    La biblioteca di Oxford mi piaceva; era tranquilla e solenne, intrisa di storia. Più che altro volevo andarci perché era sempre piena di gente e la cosa contribuiva a farmi sentire meno sola. I soffitti alti e i leggii di legno antico mi mettevano sempre in soggezione perché sentivo di non appartenere a quel mondo, però mi piaceva infinitamente.

    Entrai nella sala di lettura numero dodici alle 8:30 di mattina, un po’ annoiata e con la speranza che la mia vita migliorasse a breve. Non ero triste o cose del genere, ma neppure felice nel senso che molte persone possono intendere. Pensavo che non mi restavano più troppi soldi e che avrei dovuto cercarmi un lavoro nel poco tempo libero che le lezioni mi lasciavano. Mia madre avrebbe trovato da ridire anche su quello, ma tanto per lei era un’abitudine. Devo a lei tutto il mio buon cinismo, quello per cui ho così pochi contatti con la gente tra virgolette normale. Ma torniamo ad Oxford e a quella mattina grigia e noiosa di aprile. Mi sedetti ad un tavolo di fronte a due ragazzi biondo-slavato, con gli occhiali spessi e lo sguardo immerso nella lettura, e tirai fuori i miei documenti sul caro vecchio Shake, con tutto il seguito di appunti presi a stento dall’ultima fila dell’aula dove il professor Withbrighton teneva il suo corso. Sorrisi un po’ sfacciatamente ad uno dei due tizi snob (tipicamente inglesi, direi) e mi misi all’opera. Neanche mezz’ora più tardi (ma io ero convinta che fosse passato molto meno tempo) qualcuno mi toccò la spalla. Alzai la testa un po’ sorpresa e sentii gelare il sangue nel trovarmi davanti gli occhi blu oceano che il giorno prima avevo respinto senza riserve.

    - «Salve!» – mi salutò quel tipo col solito sorriso ambiguo sulle labbra – «Posso sedermi?». Senza nemmeno una parola alzai le spalle per indicargli che ne aveva tutto il diritto, se proprio ci teneva. Tirò fuori anche lui il suo materiale, per lo più grossi volumi con la copertina rivestita di pelle che teneva in una borsa lercia, poi si mise all’opera, piuttosto rumorosamente. Avevo una strana sensazione, ma non riguardava nulla di negativo, anzi… Era qualcosa che mi faceva sorridere; volevo a tutti i costi che mi rivolgesse di nuovo la parola, che si interessasse a me, che diventassimo amici perché c’era qualcosa nel suo modo di fare di terribilmente accattivante.

    Mettiamo subito in chiaro che non ero interessata a lui in quanto ragazzo, ma come persona. Ero certa che era uno con cui non ci si annoiava. Ma il bel tipo non aggiunse nemmeno un monosillabo e mi costrinse a fare la prima mossa.

    - «Che studi?» – gli chiesi con quella nonchalance che distingue tutti i francesi. Il biondino alzò gli occhi un po’ meravigliato e si limitò a fissarmi alcuni secondi prima di rispondere con una vaga alzata di spalle.

    - «Mi pare di ricordarmi di te…» – mi disse continuando a scrutarmi provocatoriamente – «Ma mi pare anche che l’ultima volta che ci siamo visti mi hai sbattuto la porta in faccia».

    Io replicai con un sorriso un po’ freddo, pronta al dietrofront. Ero risentita da tutto il complesso di quell’approccio disperato, in genere sono una alquanto permalosa, ma la solita sensazione mi indusse a dargli ascolto.

    - «Devi avermi scambiata per qualcun’altra» – gli dissi sicura di me, mentre i due secchioni sbruffavano chiedendo silenzio – «Sono abbastanza certa di vederti oggi per la prima volta».

    Il mio atteggiamento spavaldo ebbe l’effetto che speravo. Il biondino confermò che era certamente così e si scusò, ma ancora una volta pretese di avere l’ultima parola e continuò ad ignorarmi. Ci avevo quasi rinunciato quando finalmente si decise a dirmi che studiava filosofia.

    Un filosofo… Ho sempre detestato la categoria. Li reputavo persone così piene di sé da pretendere di conoscere il mondo nei suoi più intimi dettagli e di capire perché le cose accadono. Ma il biondino era diverso; tanto per cominciare nulla del suo aspetto suggeriva cosa faceva, non aveva l’aria da intellettuale e mi sembrava piuttosto trasandato, superficiale direi, a giudicare da come si vestiva. Sembrava più uno studente squattrinato di arte o storia del cinema, uno di quelli che prende la vita come viene e che non si cura più di tanto del futuro, ma che sa bene cosa vuole dal presente.

    - «Tu invece?» – continuò col tono di chi in realtà non è molto interessato all’argomento.

    - «Sono un’aspirante interprete» – risposi soddisfatta, con un leggero sorriso – «ma per il momento sono costretta a seguire delle interminabili lezioni di letteratura inglese del ‘500! È piuttosto frustrante».

    - «Il tuo accento è delizioso!» – ammise lui ironico – «Anche se immagino che per te sia insopportabile, un vero problema».

    Rimasi senza parole, e vi assicuro che non mi capita spesso. Era evidente che si volesse vendicare; il suo tono non era però aspro, più che altro stava constatando un dato di fatto, ma sapeva che questa cosa poteva infastidirmi. E mi sembrava si stesse divertendo molto.

    Ormai i due tipi di fronte si facevano insistenti e minacciarono di avvertire il bibliotecario se non ci davamo un taglio, cosa che mi decisi a fare. Continuai a leggere le mie carte sparpagliate senza capirci una parola, presa com’ero da quella strana situazione. Lui invece girava pagina piuttosto di frequente e sottolineava alcuni passi con colori sgargianti, appuntando poi qualcosa su un foglio.

    - «A proposito» – riprese dopo un po’ – «io sono Chris» – e mi tese la mano pieno di calore.

    - «Piacere, Chris» – risposi sorpresa – «mi chiamo Lara, heureuse de faire ta connaissance».

    Non riuscii a stabilire subito se mi avesse capita, ma non si scompose minimamente e due secondi più tardi mi invitò a seguirlo alla caffetteria dell’università. Non so dire perché lo feci, ma ci andai senza pensarci troppo, raccogliendo in fretta le mie cose mentre i due tipi esultavano di sollievo.

    Camminammo fianco a fianco senza che nessuno di noi parlasse, una situazione bizzarra e un tantino imbarazzante, ma era così tanta la voglia di stravolgere la mia routine che mi andava anche bene. Chris era di certo un tipo sui generis, ma a dispetto di tutto mi aveva fatto una buona impressione e avevo un disperato bisogno di socializzare. Al bar, ordinò senza consultarmi due caffè macchiati e quando gli chiesi come aveva fatto ad indovinare i miei gusti, mi disse che tutte le francesi lo prendevano così. Si fece loquace all’improvviso, mi parlò di come andavano le cose ad Oxford, dei suoi prof che si reputavano filosofi, di come amava gli scambi culturali (questo lo disse con un esplicito doppio senso) e di come i francesi fossero snob. Replicai che non era affatto così, ma non me la presi. Invece mi convinsi a parlargli di me e di che cosa ci facevo in quel posto, del mio amore smisurato per la sua lingua, dei miei progetti per il futuro e di come lui fosse il primo a cui raccontassi certe cose.

    - «Sono lusingato, allora» – disse con un sorriso sincero, accendendosi una sigaretta; gliene chiesi una (fumavo dai tempi del liceo) e lui mi passò la sua (che aveva stretto tra le labbra) accendendosene un’altra. Mi sembrò che avesse un sapore ancora migliore del solito.

    * * *

    Ancora una volta mi ha sorpreso come hai agito con la ragazza, e dire che fino a ieri mi chiedevo se potessi essere all’altezza del compito.

    Mi domando ancora secondo quale criterio hai scelto, ma non ci vuole un mago per indovinarlo. Perspicace come al solito, questa nostra alleanza può funzionare davvero bene. Spero che riusciremo ad arrivare a quel quadro. Lo voglio, lo esigo, lo pretendo, accidenti! Non potrò dormire tranquillo sino a che non ci avrò messo sopra le mani. Se riusciremo ad avere il quadro prima di quei russi che lo stanno cercando dappertutto, potremmo trattare direttamente con loro e farci su un bel gruzzoletto, ma tu sai che non è solo per questo che mi interessa. Lo sai che le sfide mi eccitano! Bene, ora mi rimetto a studiare, domani ho un esame. Tu fai il bravo e cerca di usare più la testa che… capito? À tout à l’heure chéri…

    Henry Wotton.

    * * *

    Sento che è una cosa troppo grande per noi, mai eravamo arrivati a tanto prima d’ora nei piccoli traffici di cui c’eravamo occupati in questi pochi anni. È come fare il salto di qualità e non mi aspettavo proprio di esserne coinvolto, ma anche se inizio ad avere paura, per una serie di buone ragioni, non mi tirerò indietro perché ci potrei guadagnare davvero un bel po’. Potrebbe essere l’ultimo colpo, poi basta. Non avrò reflussi di coscienza stavolta, né farò sciocchezze avventate che ci potrebbero portare allo scoperto.

    Mai avrei potuto immaginare che da quel primo giorno di aprile, quando ho trovato quella strana lettera nella cassetta del mio dormitorio, saremmo arrivati a questo punto. La lettera era strana ma non inusuale, visto che non era la prima che ricevevo da parte del solito mittente: Henry Wotton. In realtà non mi aspettavo che si facesse vivo così presto dopo il bel casino dell’ultima volta, ma la cosa mi faceva in un certo senso piacere. Io ed Henry abbiamo frequentato lo stesso liceo, ma abbiamo legato solo qualche anno fa, quando per la prima volta mi ha trascinato in una delle sue avventure.

    In breve, mi chiedeva di incontrarci in un posto abbastanza fuori mano di Londra e di andarci da solo perché c’era qualcosa di estremamente interessante da discutere. Parlava di un mucchio di soldi e di come la prospettiva di incassarli gli fosse piovuta dal cielo così, per caso, una settimana prima. Henry è un po’ fuori di testa, è imprevedibile, stravagante, ma su una cosa è assolutamente apprezzabile: se fa una promessa, trova sempre il modo di mantenerla.

    All’incontro, in quel locale un po’ malfamato e dalla dubbia reputazione, Henry mi disse che era stato ad un’asta illegale, a metà gennaio, da qualche parte a Londra e di aver assistito alla vendita di un quadro che in molti (anche se la critica, diversi decenni prima, lo aveva negato) attribuivano a Renoir, quotato, nonostante tutto, un bel po’ di sterline. Henry, che doveva il suo invito ad alcuni amici del giro dei quadri rubati (uno di questi era lo stesso banditore dell’asta illegale), ci era andato più per curiosare che per altro. Sulle prime non aveva dato tanta importanza a quel quadro, essendocene degli altri molto più costosi e famosi, tutti rigorosamente rubati. E non aveva dato nessun valore neanche al fatto che ad aggiudicarselo, per una somma non proprio alta, fosse stato un anonimo cliente, che aveva saputo solo all’ultimo della vendita del quadro e che, impossibilitato a essere presente, aveva chiamato e fatto un’offerta, poi rivelatasi vincente, al telefono.

    Esattamente due mesi dopo, però, Henry, sempre grazie a quelle sue amicizie del giro, era venuto a sapere che alcuni russi, tra cui un certo Romanov, erano alla ricerca del quadro, o meglio del compratore del quadro, e che erano disposti a pagarlo qualsiasi cifra. Henry, pur conoscendo la strana mania dei russi di comprare tutto quello che desiderano a qualsiasi prezzo, non comprese fino in fondo quell’interesse e perciò fece le sue indagini.

    Seppe che il quadro era stato rubato ad un uomo della stessa nazionalità a Montecarlo, ucciso poi per sbaglio durante la rapina; per mesi questi russi avevano cercato invano il dipinto e solo dopo l’asta illegale avevano saputo che era giunto fino in Inghilterra, seguendo dei percorsi estranei ai normali circuiti dei dipinti rubati, segno questo di una rapina fai dai te.

    Henry, allora, stupito di come quel presunto Renoir potesse valere tanto per dei russi, capì che c’era dietro qualcosa che non aveva nulla a che vedere con Renoir o con un qualsiasi altro pittore; lui, che amava le sfide più d’ogni altra cosa al mondo, voleva a tutti i costi scoprire cosa c’era dietro; la curiosità era uno dei suoi problemi. E non solo: sperava anche di guadagnarci un bel po’, sfruttando proprio il vizietto (un pregio a ben dire) dei russi di pagare tutto bene e subito.

    Quando fu sicuro che erano disposti a qualunque cosa pur di avere il quadro, a pagare qualsiasi cifra, decise che quello sarebbe stato il suo prossimo colpo. Avrebbe dovuto trovare il quadro e rubarlo, come aveva da sempre fatto nella sua breve ma intensa attività, prima di tutti e, dopo aver svelato il mistero, venderlo a quei russi, al prezzo che lui avrebbe fissato.

    «Il quadro che stiamo cercando» – così mi disse Henry – «si chiama Grigionero ed è stato dipinto presumibilmente da Renoir, come si deduce dallo stile, dalle iniziali, A. R., e dalla data, 1881. Il soggetto raffigurato è un paesaggio marino che in molti hanno indicato essere la costa della Calabria, in Italia, in cui il grande maestro francese aveva soggiornato per qualche periodo».

    E allora entrai in gioco io, che non chiedevo di meglio se non qualche spicciolo gratuito. Ma poi mi accorsi che tanto gratuito non era: tanto per cominciare ci serviva qualcuno che facesse il lavoro sporco al posto nostro, una vittima da immolare insomma, qualcuno da sfruttare senza troppi scrupoli e che si esponesse al posto nostro. E qui sono stato davvero bravo…!

    Il mio piano procede, ormai la francese pende dalle mie labbra e ho idea che questo presunto quadro di Renoir ci farà tutti più felici. Niente reflussi di coscienza! In fin dei conti non morirò

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