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Terra bruciata
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E-book604 pagine8 ore

Terra bruciata

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Info su questo ebook

A settant’anni dalla fine della civiltà come noi la conosciamo, tre superstiti affrontano un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti devastati da un conflitto nucleare. Le grandi distanze e l’assenza di mezzi di trasporto rendono il viaggio estremamente difficile e pieno di pericoli. I rapporti sociali tra i sopravvissuti sono sempre
più complessi, la delinquenza dilaga e le bande di predatori non mancano, anche se alcuni gruppi di persone si danno da fare per ricostruire una società degna di tale nome.
Brian, in cerca della sua vendetta personale, Mike, desideroso di un mondo migliore, e Sid, ragazzino senza famiglia e tanta speranza, affrontano questo duro viaggio assieme. Tra le difficoltà e le avversità, i numerosi nemici e le incompatibilità relazionali quasi insormontabili, non sarà facile portare a termine i loro propositi.
Con un tono coinvolgente e una trama che lascia col fiato sospeso, Enrico Pedrelli permette ai lettori di immergersi in un’avventura indimenticabile.

Enrico Pedrelli è appassionato di cinema e musica. Con l’etichetta PMS Studio ha pubblicato cinque album, con lo pseudonimo Against. Si avvicina al mondo della scrittura da molto giovane, ricevendo in regalo dai suoi genitori una macchina da scrivere, con la quale comincia a creare i suoi personaggi e i suoi mondi di fantasia, passando poi alla tastiera del computer per scrivere racconti e storie più complesse e articolate, ispirandosi alle proprie esperienze e passioni. Legge un po’ di tutto ma si lega particolarmente ad autori quali King e Asimov. Un’importante fonte di ispirazione per i suoi scritti sono anche i videogiochi.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2023
ISBN9788830683488
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    Anteprima del libro

    Terra bruciata - Enrico Pedrelli

    pedrelliLQ.jpg

    Enrico Pedrelli

    Terra bruciata

    © 2023 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-7844-6

    I edizione maggio 2023

    Finito di stampare nel mese di maggio 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Terra bruciata

    A Ginevra

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    CAPITOLO 1 - La fine del mondo

    L’auto procedeva lungo la strada deserta, la I-17, diretta a Phoenix. L’uomo al volante era concentrato e guidava veloce, ma non stava pensando alla strada. In lontananza vedeva la sagoma delle montagne, alla sua sinistra. Di fronte a lui la città, ancora molto lontana. Non si vedeva, ma lui sapeva che era là; quasi come se lo stesse aspettando. Il suo sguardo era fisso all’orizzonte. Sul sedile del passeggero c’era il suo camice bianco, disordinato; ancora agganciato al taschino anteriore il suo tesserino: G.C.Def., Ing. Alan Verse, capo ricercatore scientifico. Nella foto lo sguardo serioso, la leggera barba incolta e gli occhiali spessi; gli stessi occhiali bordati oro che si stava sistemando sul naso mentre guardava fisso la strada, in direzione della città; in attesa.

    Passò di fianco a quella fattoria. L’aveva vista centinaia di volte e più di una volta aveva pensato che se non avesse scelto la carriera scientifica forse gli sarebbe piaciuto avere una fattoria come quella. Ma non si era mai soffermato a riflettere sul fatto che lì ci viveva davvero qualcuno, qualcuno che aveva preferito restarsene lontano dalla grande città; qualcuno che non sapeva le cose che sapeva lui. Era concentrato sul suo obiettivo, ma riuscì a pensare che forse era l’ultima volta che vedeva quella fattoria. Si immaginava i recinti pieni di animali, dietro la casa, e poi i campi. Era una bella zona quella: lontana dalla città ma non ancora in mezzo al deserto. Forse avrebbe dovuto investire il suo tempo ed il suo denaro in un appezzamento di terra come quello e non alla sua carriera e alle ricerche scientifiche. Era tardi per cambiare idea. Era tardi per qualsiasi cosa.

    L’auto avanzava spedita. Quella vecchia Ford bianca tenuta in perfetto stato non faceva quasi rumore in mezzo a quel deserto vuoto e caldo. Non aveva incrociato nessuno per molti chilometri, ma non era insolito: nonostante fosse la strada principale che collegava Phoenix a Flagstaff, non era mai molto trafficata, soprattutto a quell’ora. La cosa non lo aveva mai infastidito, anzi; ma in quella circostanza gli sembrò sbagliato: la sensazione era come di un’incredibile spreco di spazio. Forse aveva solo voglia di vedere qualcuno indaffarato a raggiungere un posto caro, come lui; forse aveva solo voglia di incrociare lo sguardo di qualcuno, qualcuno che aveva ancora qualche speranza.

    Guidava oramai da molto tempo; non si era mai fermato: non ce n’era motivo. Continuava a pensare a quella strada, che aveva percorso centinaia di volte senza mai soffermarsi a guardarla, ad apprezzarla; era solo una striscia infinita di asfalto in mezzo al niente. Forse si era sempre sbagliato; forse avrebbe dovuto sfruttare meglio il suo tempo a disposizione. Il G.C.Def. gli aveva portato via molto tempo, troppo tempo… tempo che non aveva più. Non avrebbe mai raggiunto la città, lo sapeva: era troppo lontana; ma cos’altro poteva fare?

    Poi successe: l’esplosione.

    Una luce intensa, come il sole, illuminò l’aria. Il gigantesco fungo si innalzò verso il cielo, come quasi a voler fuggire da quel luogo. Si poteva percepire la tremenda potenza anche a quella distanza. Alan non si scompose; strinse solo leggermente gli occhi e si risistemò gli occhiali: sapeva che sarebbe successo. Passarono alcuni secondi prima che il suono della detonazione lo raggiungesse. Anche quel rombo dirompente non lo scompose. Osservò l’onda d’urto, stringendo leggermente la mascella e le mani sul volante, pensando di doverla affrontare; ma la detonazione era avvenuta troppo lontana per raggiungerlo. L’esplosione atomica aveva investito la città, probabilmente a Sud; forse non aveva colpito il centro, data la distanza del fungo da lui. Non che cambiasse molto: in ogni caso Phoenix non esisteva più.

    Alan proseguì lungo la strada deserta; senza accelerare, senza rallentare, senza scomporsi in nessun modo, come se nulla fosse successo; anche se in realtà era successo tutto. Non sapeva dove sarebbe riuscito ad arrivare, ma non aveva nessuna intenzione di fermarsi.

    CAPITOLO 2 - Il ragazzo

    Brian si svegliò. Aprì gli occhi senza muoversi, lentamente. Cercò di guardarsi attorno ma era troppo buio e i sui occhi si dovevano abituare a quell’oscurità; ma aveva sentito qualcosa… aveva sentito qualcosa? O se lo era immaginato? Mise mano alla sua pistola, che teneva sempre accanto a sé, e si mise a sedere su quel giaciglio improvvisato. Si appoggiò di schiena al muro dietro di lui, cercando la concentrazione per scrutare nell’oscurità. Il piano superiore di quella casa era ancora in buone condizioni, nonostante tutto: di mobili non ce n’erano quasi più, il poco che rimaneva era in rovina; i muri erano scrostati ma ancora intatti e apparentemente stabili. Probabilmente era stata una bella casa.

    -Tutto bene?- gli chiese Mike; solo un’ombra nel buio.

    -Non hai sentito un rumore?-

    -Non mi pare.-

    -Ho sentito un rumore.-

    -Dormi, è tutto ok.-

    Brian ascoltò ancora, in silenzio; fino a che Mike non interruppe i suoi pensieri: -ho detto che è tutto ok; tranquillo, ci sono io di guardia. Dormi.-

    Attese di udire qualcosa, qualsiasi cosa; ma non sentì nulla. Chiuse gli occhi e rimase in ascolto ed in allerta per qualche minuto; ma nessun rumore attirò la sua attenzione, se non il vento, di fuori. Si alzò in piedi e si diresse verso la finestra più a portata di mano.

    -Dove stai andando?-

    Brian non rispose al suo fin troppo loquace compagno di viaggio. Si avvicinò all’apertura: i vetri non c’erano più da molto tempo e gli scuroni erano quasi del tutto staccati dai loro cardini, ma nonostante il degrado dovuto al lungo periodo di inutilizzo, la struttura dell’abitazione sembrava essere ancora solida. Guardò fuori, sbirciando dal bordo dello stipite. La luce della luna illuminava abbastanza da riuscire a scorgere se qualcosa o qualcuno era in avvicinamento. Non sempre la luna era d’aiuto, ma quella era una zona dove le pesanti nuvole sporche non arrivavano molto spesso.

    -Non ti fidi più di me?- apostrofò Mike.

    Brian continuò ad ignorarlo: non era lui il suo problema, in quel momento.

    Si erano sistemati al primo piano della casa padronale di quella fattoria, in una delle stanze che dava sul davanti: c’era una buona visuale del cortile sottostante e della strada. Brian rimase in osservazione per molto tempo. La staccionata alla fine del vialetto era crollata quasi tutta ed il giardino non era altro che una matassa di sterpi rinsecchiti; la strada sterrata che si snodava oltre i confini della proprietà portava direttamente sulla strada principale, quella che una volta si chiamava I-17, a circa duecento metri da loro. Tornò verso il suo letto e prese il fucile di precisione, un Remington 700. Si inginocchiò alla base della finestra e puntò l’arma verso l’esterno. Guardò attraverso l’ottica. Niente di sospetto attirò la sua attenzione, neanche sulla strada principale. Osservò attentamente tutti i potenziali nascondigli: rottami di auto, cespugli secchi, alberi crollati, avvallamenti e sporgenze naturali. Ritirò l’arma e si sedette a terra, accanto alla finestra. Guardò verso il soffitto che, al contrario del pavimento, era crollato quasi completamente e lasciava scoperto il cielo stellato. Si appoggiò il fucile in grembo, respirando con cautela quell’aria polverosa e malsana.

    -Hey, tutto bene?- Mike si era avvicinato e lo guardava con un filo di ansia; anche se era buio riusciva a scorgere la sua preoccupazione.

    Brian si guardò attorno: erano lì da quasi un giorno intero. Non gli piaceva restare troppo a lungo nello stesso posto: -dobbiamo andarcene da qui.- disse più rivolto a se stesso che a Mike, mentre si alzava diretto verso il corridoio.

    Mike non era della stessa opinione: -ma siamo appena arrivati!-

    -Siamo qui da questa mattina.- gli rispose continuando la sua strada. Fece attenzione a non mettere i piedi in fallo, il pavimento era disconnesso, e raggiunse la stanza che dava sul retro, sulla fattoria. Non era rimasto molto nemmeno di quella: i recinti per gli animali erano quasi completamente distrutti, ma non c’era molto legno in giro; probabilmente qualcuno lo aveva utilizzato per fare qualcos’altro. La stalla, il fienile e la baracca degli operai erano ancora in piedi: edifici antichi, bui e silenziosi; quasi spettrali. Scrutò l’area con l’ottica del fucile ma era troppo scuro per scorgere qualcosa oltre i recinti, nella zona dove settant’anni prima ci dovevano essere i campi.

    -Abbiamo bisogno di un po’ di riposo,- gli disse Mike dopo averlo raggiunto: -l’ultimo tratto di strada che abbiamo fatto è stato lungo e faticoso; dobbiamo recuperare le…-

    -Abbiamo recuperato.- lo interruppe bruscamente Brian.

    -Devi darti una calmata, amico. Siamo stanchi e sotto pressione da troppo tempo.-

    -Dobbiamo andarcene da qui. Dobbiamo raggiungere la città il più in fretta possibile. Le scorte si stanno esaurendo.-

    -Lo so, ma la città non è lontana e qui è tranquillo!-

    -Adesso, è tranquillo.- sottolineò Brian.

    I due viaggiatori si guardarono per qualche istante. Mike sapeva bene a cosa si riferiva Brian, ma non riusciva a pensare sempre al peggio come lui.

    -Partiremo domattina, presto.- il suo tono era inequivocabile.

    Mike sapeva che non era il caso, ma non riuscì a non dire nulla: -non sono d’accordo. Questa sistemazione, questa casa è… tranquilla; può andare bene per almeno un altro giorno. Non ci riposiamo mai veramente! Facciamo solo piccole soste e so che anche tu sei stanco. Non c’è poi così tanta fretta di arrivare in città; sarà a non più di un’ora di cammino, forse anche meno se ci diamo una mossa. Io credo che…-

    -Puoi anche restare qui se vuoi.-

    Mike si interruppe, quasi incredulo: non poteva vederlo in faccia, era troppo buio, ma sapeva che la sua espressione era fredda e impassibile, come ogni volta che aveva quel tono di voce gelido e crudele.

    -Brian, certe volte sei proprio uno stronzo.- concluse irritato Mike.

    -Ho capito il tuo punto di vista, Mike,- disse scandendo forzatamente le parole per enfatizzarle il più possibile: -ma domattina ce ne andiamo.-

    Mike lo guardò ancora per qualche istante, pensieroso; sapeva che non scherzava: Brian sarebbe partito comunque, anche senza di lui. In realtà era un buon compagno di viaggio: se la sapeva cavare in qualsiasi situazione e non aveva paura di nulla, e in fondo Mike sapeva che non era cattivo come sembrava, ma a volte non era facile avere a che fare con lui. A quel punto non c’era molto altro da aggiungere e non aveva molta scelta se non voleva restare solo: -ok, se è quello che vuoi. Ma non sono d’accordo.-

    -Io torno a dormire.- disse inespressivo Brian mentre tornava nell’altra stanza. Mike lo seguì senza fretta.

    Brian raggiunse il corridoio evitando gli ostacoli, anche se li vedeva a malapena. Era turbato. Probabilmente non era solo colpa di Mike, ma spesso l’eccessiva loquacità del suo compagno di viaggio lo innervosiva, e innervosirsi non serviva a niente e a nessuno; lo sapeva bene. Doveva restare calmo.

    Raggiunse il suo letto, realizzato con un materasso distrutto trovato sul posto e una coperta. Si stese, mentre sentiva i passi di Mike avvicinarsi. Lo sentì fermarsi accanto alla sua postazione. Temeva che ricominciasse a parlare inutilmente della loro imminente partenza o di qualsiasi altra cosa, ma non lo fece. Lo sentì sedersi e tornare a fare il suo turno di guardia. Lui cercò di sistemarsi cercando di evitare uno scomodo bozzo del materasso; si posizionò il fucile di precisione accanto, in modo da poterlo afferrare con prontezza, e cercò di riaddormentarsi. Non era facile… non era mai facile.

    Riuscì a dormire, male e per brevi intervalli di tempo, ma era meglio che niente.

    Appena la luce lo permise, fecero colazione con buona parte di quello che restava delle loro provviste: carne secca e scatolette di verdure disidratate. Fecero bollire tutto in un pentolino con un po’ di acqua pulita recuperata qualche giorno prima in un insediamento abbastanza organizzato, vicino Flagstaff. La carne era vecchia e quasi insapore, ma avevano mangiato anche di peggio.

    Brian si fece anche la barba: aveva trovato un rasoio, da qualche parte, qualche tempo prima; era provvisto anche di una piccola scatola con varie lamette di ricambio. Non occupava molto spazio nel suo zaino, pesava poco e a lui piaceva cercare di restare pulito. Lo utilizzava ogni volta che le circostanze lo permettevano. Lo specchio rotto nel bagno era più che sufficiente per quella semplice operazione.

    Raccolsero le poche cose che avevano e si prepararono a ripartire. Scesero al piano terra con gli zaini in spalla: miracolosamente la scala era ancora intatta. Fecero un ultimo giro di perlustrazione all’interno dell’abitazione; controllarono ancora i pochi mobili rimasti: cassetti, armadi e pensili; ma quello che ci poteva essere di utile lo avevano già preso, loro o qualcun altro. Prima di uscire Brian notò vicino alla porta d’ingresso una scritta. Non l’aveva notata prima; era incisa forse con un coltello. Qualcuno dei Black Raiders sosteneva che i Solomon Squad facevano schifo. Probabilmente due bande rivali di predatori che erano passati da lì chissà quanto tempo prima. I predatori erano un po’ ovunque. A volte erano bande ben organizzate, ma nella maggior parte dei casi erano solo gruppi di disadattati che non avevano trovato altro modo di tirare avanti se non approfittandosi delle debolezze di altri sopravvissuti. Erano passati settant’anni, settantatré per l’esattezza, dalla grande guerra nucleare, e gli esseri umani erano comunque riusciti a continuare a combattere fra di loro. Qualcuno diceva che la guerra non cambia mai; probabilmente aveva ragione.

    Uscirono dalla porta principale molto prudentemente, lui con la sua Beretta FS semiautomatica in mano; vecchia, malconcia, ma ancora affidabile. L’altro con un revolver Smith & Wesson 357 Magnum; forse ancora più vecchio della Beretta, ma anch’esso perfettamente funzionante.

    Fuori non c’era nessuno. Non andava sempre in quel modo: a volte capitava di imbattersi in qualche disperato che cercava di sopravvivere o in qualche banda di predatori pronti ad ucciderti per prenderti le poche cose che avevi; ma nella maggior parte dei casi non c’era nessuno… a volte per chilometri e chilometri. Per certi versi era meglio così. Controllarono un’ultima volta anche quello che restava del granaio, della stalla e della baracca degli operai: non trovando niente di utile.

    Si incamminarono verso la strada principale e poi a Sud.

    Poco più avanti, nei pressi di un incrocio, un cartello indicava Phoenix 30ml.. Là, da qualche parte, c’erano le vestigia di quella che era stata una vera città, molto tempo prima, quando il mondo aveva un senso; quando il mondo c’era ancora. Brian non era ancora nato quando successe. Sapeva però cosa c’era stato prima, cos’era successo e cosa aveva distrutto le città. Quando era arrivato lui il mondo era già un insensato ammasso di macerie. Dal suo punto di vista, quello che c’era prima non aveva nessuna importanza. Aveva sentito tante storie, tramandate verbalmente, lungo il suo percorso; alcune di quelle storie erano uscite dalla bocca di suo padre, prima che morisse. Altre cose le aveva scoperte da solo; altre ancora gliele avevano insegnate. Ma una cosa aveva compreso con assoluta chiarezza: tutto quello che era successo prima, prima delle esplosioni e della devastazione, non aveva nessuna importanza.

    Guardò all’orizzonte, cercando di scorgere i resti di quella città, ma era troppo lontana. Ci sarebbe voluto quasi un giorno per raggiungerla, se avessero voluto raggiungerla: le città erano state quasi tutte distrutte dalle bombe e nella maggior parte dei casi erano ancora radioattive. L’insediamento che si trovava a pochi chilometri da loro era tutto ciò che gli uomini erano riusciti a ricostruire dopo quella distruzione devastante. Sperava che fosse abbastanza grande da fornire loro ciò di cui avevano bisogno e abbastanza distante dalla vera città da non essere troppo pericoloso. Ci sarebbe voluta almeno un’ora per raggiungerlo e probabilmente avrebbero incontrato ostacoli nel tragitto, dato che c’erano sempre ostacoli nei pressi di un insediamento; ma aveva visto il fumo: sapeva che c’era gente là, e loro avevano bisogno di rifornimenti.

    Camminarono in silenzio seguendo i resti della strada. L’asfalto nel corso degli anni si era crepato e sgretolato, ma in buona sostanza era ancora una strada. Fortunatamente il suo compagno di viaggio non lo assillò con le sue chiacchiere, come spesso accadeva.

    La città non doveva essere lontana ma il caldo era soffocante. Decisero di fermarsi un attimo per bere un sorso d’acqua. Si sistemarono alla base di un grande albero morto, che resisteva ancora nonostante quello che era successo, poco distante dalla strada. Non faceva molta ombra ma si dovettero accontentare. Attorno all’albero non c’era più niente, solo sterpaglie. Dalle condizioni del terreno era abbastanza evidente che prima, nel vecchio mondo, fosse una zona ricca di vegetazione; ma quelle cose non c’erano più da molto tempo, in molte parti del paese. Le radiazioni avevano distrutto quasi tutto. C’erano ancora vaste aree verdeggianti ma non erano facilmente raggiungibili, dicevano. Per quello che aveva visto Brian che aveva viaggiato molto, a parte i piccoli gruppi che sfruttavano le ultime risorse delle zone meno colpite e delle città antiche, non c’era rimasto granché; solo terra bruciata e desolazione. Aveva visto terre coltivate nei pressi di quasi tutti gli insediamenti che aveva attraversato, ma fra un insediamento e l’altro c’era solo polvere; e comunque quelle coltivazioni spesso non duravano o davano raccolti radioattivi, non commestibili o immangiabili. Per sua esperienza nulla o quasi cresceva più spontaneamente. C’erano zone che non erano state colpite dalle bombe ed erano abbastanza distanti dagli effetti delle radiazioni, o in aree protette da particolari condizioni atmosferiche, che erano riuscite a sopravvivere, se così si può dire; ma in generale non era facile trovare zone sicure e non era per niente facile procurarsi cibo decente. Aveva sentito racconti di posti lontani ricchi di vegetazione e privi di radiazioni, dove anche gli animali avevano continuato a prosperare, ma nessuna delle persone con le quali aveva parlato li aveva visti con i propri occhi. E comunque Brian non era un sognatore: non era in cerca di un’oasi felice dove trascorrere il resto della sua vita; cercava qualcos’altro.

    Sganciò la borraccia dallo zaino. Mike non fece in tempo a compiere lo stesso gesto che entrambi udirono un’esplosione. Il rumore era inconfondibile; si guardarono: -mina.- dissero all’unisono.

    Rapidamente si prepararono alla battaglia: si nascosero dietro un avvallamento accanto all’albero; mentre Mike cercava il binocolo, rovistando nello zaino, Brian prese il fucile di precisione e lo puntò verso la direzione del suono. L’esplosione doveva essere abbastanza lontana, dato che si riusciva a scorgere solo uno sbuffo di polvere in dissolvenza, ma la prudenza non era mai troppa. Guardò nel mirino telescopico. Ci volle un po’, ma poi vide: sapeva quello che stava succedendo e sapeva cosa sarebbe successo da lì a pochi minuti.

    -Vedi quello che vedo io?- gli chiese Mike guardando attraverso il binocolo nella stessa direzione. Lui non rispose, ma Mike capì che anche lui vedeva: a circa ottocento metri da loro c’era un gruppo di esseri umani; alcuni erano armati, altri erano vestiti di stracci e legati.

    -Sono predatori, vero? Con degli schiavi, giusto?- incalzò Mike.

    Lui non rispose.

    -Riconosci la fazione?-

    Brian osservò con attenzione, anche se non era necessario: -Ravens.-

    Brian aveva avuto a che fare con vari predatori e i Ravens erano decisamente i peggiori di tutti: erano molti, ben organizzati, sparsi in tutto il territorio e dannatamente violenti e spietati. Avevano una particolare usanza per scegliere i nuovi adepti: quando trovavano un gruppo di persone, un villaggio o qualsiasi comunità poco numerosa, li prendevano tutti e se li portavano al loro accampamento. Una volta arrivati, o a volte anche durante il tragitto se era particolarmente lungo, prendevano i più giovani e li facevano correre lungo un percorso cosparso di mine ben nascoste. Chi arrivava alla fine del percorso aveva il privilegio di diventare uno di loro, trasformando la sua vita in un inferno.

    Brian aveva un conto in sospeso con i Ravens. Mentre lui e Mike si avvicinavano prudentemente, sentirono la seconda detonazione.

    Sid era il terzo della fila: toccava a lui. Aveva visto saltare in aria i suoi due amici. Avevano la sua stessa età… no, Bill era più giovane di un paio d’anni, forse. Non sapeva con esattezza quanti anni avesse. In realtà non avrebbe saputo dire con certezza neanche la sua stessa età, ma sapeva che Bill era più giovane di lui.

    -Vai! Piccolo bastardo! Vai!- lo incitavano i predatori.

    Lui non riusciva a muoversi. Qualcuno lo spinse da dietro e lui, come una bambola a molla, cominciò a correre attraverso il campo minato. Le gambe gli tremavano e il cuore stava per esplodergli nel petto, ma continuava a correre. Passò sopra i cadaveri maciullati dei suoi amici. Fu difficile, traumatico, ma corse sui resti dei suoi amici perché sapeva che in quei punti non sarebbe saltato in aria. Quasi scivolò su quello che restava di Bill; ma non si fermò, continuò a correre. Gli avevano detto che se fosse arrivato fino alla fine del campo minato sarebbe stato libero. Sapeva che non era vero, ma almeno quella era la cosa che più assomigliava ad una speranza: poteva tentare di fuggire. In fondo al campo c’era uno di quei predatori che lo stava aspettando a braccia aperte. Aveva un fucile. Non sarebbe stato facile scappare, ma forse ne valeva la pena: meglio morire in quel modo che essere mangiati lentamente, un pezzo per volta, come aveva visto fare con alcuni dei suoi compagni di viaggio. Le immagini orribili dei suoi amici esplosi e dei suoi compagni mangiati poco per volta, quasi lo fecero svenire; ma doveva continuare a correre, era la sua unica speranza.

    Stava per raggiungere la fine del campo minato quando vide una cosa che non si aspettava; non era neanche sicuro che stesse accadendo veramente: vide un uomo, vestito di scuro; i pantaloni erano militari, forse… di quelli con le macchie; la maglietta era militare anche quella, ma con chiazze di varie sfumature di marrone. Lo vide chiaramente, anche se non gli sembrava possibile. Sbucò da dietro un ammasso di rottami, quello che restava di un’automobile del vecchio mondo. Lo vedeva; non capiva cosa stava succedendo ma lo vedeva: l’uomo afferrò la testa del predatore tra le sue mani, da dietro; con un movimento secco e deciso gli spezzò il collo; prese al volo il fucile del predatore mentre il corpo esanime cadeva a terra. Lo vide girarselo fra le mani e puntarlo verso di lui. Lo avrebbe ucciso? Perché spezzare il collo a quel predatore se poi voleva uccidere lui? Non capiva cosa stesse succedendo, ma quello che vedeva era abbastanza chiaro: quel tizio gli puntava il fucile contro… oppure no? Quando fece fuoco vide la fiammata e sentì l’esplosione, ma non venne colpito. Mentre proseguiva la sua folle corsa della morte verso quello strano uomo, incapace di fermarsi, pensò che non era possibile che da quella distanza lo avesse mancato. Forse… ma era un pensiero senza logica dovuto alla tensione e alla confusione del momento, forse non stava sparando a lui. L’uomo sparò altre due volte senza colpirlo; ma in quel momento non aveva molta importanza: pensava solo a correre e scappare di lì. Se quell’uomo stava sparando a lui avrebbe comunque cercato di scappare, se stava sparando a qualcun altro tanto meglio: sarebbe scappato e basta.

    Quando gli fu a portata di mano l’uomo lo afferrò, fece da perno e lo lanciò dietro all’ammasso di rottami. Cadde malamente a terra, ai piedi di un altro uomo: -resta qui, ragazzo! E tieni giù la testa!-

    Ancora con il cuore in gola e stordito dagli eventi cercò di rialzarsi, ma non ci riuscì. Si guardò attorno freneticamente fra il rumore degli spari. Ebbe però la lucidità di fare un pensiero: quell’uomo sconosciuto, inginocchiato accanto a lui, gli aveva detto di restare lì e tenere giù la testa; non lo stava picchiando, non lo stava insultando e non sembrava volerlo far saltare in aria. Sarebbe stato lì e avrebbe tenuto giù la testa… almeno per un po’.

    Brian era in piedi davanti al campo minato e stava sparando ai Ravens dall’altra parte della distesa di sabbia e terra; un colpo alla volta, con pazienza e precisione.

    Si erano avvicinati facilmente seguendo le sterpaglie e gli avvallamenti naturali che costeggiavano la strada sterrata che portava a quel luogo, mentre i predatori erano distratti dal loro passatempo. Quando i Ravens si accorsero di quello che stava succedendo, cinque di loro erano già a terra; uno quasi completamente decapitato: sia Brian che Mike avevano un’ottima mira.

    I predatori cominciarono ad agitarsi: erano in una posizione che non forniva molti nascondigli; erano però bene armati e si misero a sparare con armi automatiche. Brian si chinò, con un ginocchio a terra e un piede ben saldo sul terreno. Mike, nel frattempo, li teneva occupati da dietro i rottami con il fucile di precisione. Era una tecnica di Brian: il fucile di precisione era meglio usarlo il meno possibile e tenerlo il più nascosto possibile, a causa della scarsità di munizioni e della difficoltà nel riparare eventuali danni.

    Il ragazzo era ancora sconvolto da quello che gli era appena successo e non riusciva a capire cosa stesse ancora succedendo. Sentiva colpi di arma da fuoco ovunque; sentiva proiettili fischiare e sbattere contro le lamiere contorte che lo stavano proteggendo. Cercò di capire almeno chi fossero quei due tizi che, apparentemente, lo stavano salvando. Erano buoni o cattivi? Si girò verso l’uomo vicino a lui: indossava un paio di pantaloni militari e una giacca di jeans; nessun segno di appartenenza a qualche banda. Sparava con uno strano fucile. Doveva essere potente perché muoveva tutta la parte superiore del corpo quando partiva il colpo, e faceva un suono che non aveva mai sentito. Dalla sua posizione non riusciva a vederlo in faccia; intravedeva solo una leggera barba incolta. Cercò di girarsi verso l’altro tizio, quello che lo aveva lanciato dietro i rottami. Nel farlo sporse la testa oltre la protezione; gli venne spontaneo guardare cosa stava succedendo: vide, con suo grande stupore, che tutti i predatori venivano abbattuti, uno dopo l’altro. Riuscì ad intravedere i suoi compagni, radunati e rannicchiati in un punto apparentemente al di fuori della linea di fuoco. Sembravano illesi, ma non ebbe il tempo di guardarli bene; dovette ritirare la testa in fretta per evitare di essere colpito. Si girò quindi verso l’uomo che lo aveva salvato. Non riusciva a vederlo in faccia ma sembrava serio e concentrato; le sue mani erano ferme. Aveva il controllo totale della situazione: gli stavano sparando addosso ma non sembrava preoccuparsene. Restava lì, in ginocchio, allo scoperto, senza paura. Lo vedeva sparare un colpo, ricaricare, spostare leggermente la mira e spararne un altro. Era incredibile. Non aveva mai visto una cosa del genere.

    Brian era ardito, perlomeno più ardito di Mike e di molta altra gente, ma non era uno stupido: sapeva che con quei fucili automatici era molto più difficile per loro colpire lui che per lui colpire loro con quel fucile da caccia a caricamento manuale; soprattutto se loro erano ancora disorientati. Ma quando vide che tutti i Ravens rimasti, che non erano molti a quel punto, gli sparavano addosso, si nascose dietro ad un tronco caduto, non molto lontano dai resti dell’auto, sbucando solo per qualche secondo alla volta; il tempo necessario per prendere la mira e stendere qualcuno. I Ravens erano molti, ma fecero presto ad esaurirsi. L’effetto sorpresa aveva indubbiamente influenzato l’esito di quella battaglia: in circostanze diverse probabilmente sarebbe finita in un altro modo, o comunque non sarebbe stato così semplice.

    Finita la sparatoria Brian si diresse verso la zona dei cadaveri, aggirando il campo minato, con ancora il fucile spianato: poteva esserci qualcuno nascosto o qualcuno che fingeva di essere morto. Mike si girò verso il ragazzo, sempre mantenendo il fucile nella direzione del campo di battaglia: -stai bene?-

    Il ragazzo non rispose. Sembrava come in stato di trance.

    -Ragazzo! Mi senti?!- a Mike non piaceva lasciare che Brian andasse da solo allo scoperto, dato che non erano ancora certi che fosse finita, ma non se la sentiva neanche di lasciare lì quel ragazzo, dopo quello che aveva passato. Allo stesso tempo non pensava che fosse il caso di prenderselo dietro. Dopo qualche attimo di incertezza, decise di restare nella sua posizione e controllare quello che succedeva dall’ottica del fucile di precisione. Se fosse stato necessario avrebbe potuto coprire il suo compagno da lì; anche se lui non ne sarebbe stato contento: lo avrebbe considerato uno spreco di preziose munizioni. Ma, date le circostanze, Mike pensava che fosse la soluzione migliore.

    -Ragazzo! Stai bene!?- continuò a chiedergli.

    -Sì…- rispose Sid ancora con il fiatone: -credo… di sì.-

    -Come ti chiami?- Mike interagiva con il ragazzo mentre teneva d’occhio l’avanzamento di Brian per stemperare un po’ la tensione, sia per lui che per se stesso.

    -Sid, mi chiamo Sid.-

    -Bene Sid. Non ti muovere, ok?-

    -Ok.-

    Nel frattempo Brian, guardandosi cautamente attorno, raggiunse il primo cadavere dei Ravens. Buttò un occhio veloce al gruppetto di schiavi, poco più avanti sulla destra, che lo guardavano con paura: non si fidavano di lui, come era giusto; probabilmente non si fidavano di nessuno. Lui li ignorò e tornò al cadavere. Gli diede un calcio per vedere se reagiva in qualche modo: non si mosse. Sempre con il fucile spianato si girò verso Mike, il quale si alzò in piedi e gli fece ok con il pollice; che significava fai quello che devi fare, io ti copro. Brian lasciò cadere a terra il fucile ed estrasse il coltello, un SOG Seal Pup Elite, dalla sua fondina lungo la coscia destra. Si chinò rapidamente e pugnalò il Raven al cuore. Ripeté l’azione con tutti i Ravens a terra che potevano non essere morti, mentre Mike gli copriva le spalle. Assicuratosi del decesso di tutti i predatori diede il via libera al suo compagno di viaggio. Mike si mise il fucile in spalla, afferrò gli zaini che avevano lasciato a terra dietro l’auto e si diresse verso Brian, facendo cenno al ragazzo di seguirlo. Brian lo aspettò fermo davanti al cadavere di uno di quei Ravens. Conosceva molto bene quella fazione; fissò la fascia rossa che tutti loro portavano sul braccio sinistro, poi si chinò su di lui e cominciò a frugargli le tasche. Recuperò un accendino e qualche munizione. Mike accompagnò il ragazzo fino al suo gruppo e poi cominciò a frugare anche lui le tasche dei Ravens.

    Brian, finito il saccheggio, prese uno dei fucili mitragliatori dei predatori e se lo mise a tracolla. Era pesante ed ingombrante, ma poteva tornare utile, sia come arma che come merce di scambio. Poi si diresse verso la strada. Mike lo seguì con il suo nuovo cappello da cowboy a falda larga appena recuperato.

    Brian passò davanti al gruppo di ex schiavi ignorandoli. Loro lo guardarono: -grazie.- disse qualcuno. Brian si fermò. Si girò verso di loro.

    -Ci avete salvato la vita.-

    Lui guardò l’uomo di mezz’età con la barba folta che aveva parlato. Lo guardò con sguardo duro e impassibile allo stesso tempo; poi riprese il suo cammino. Sid, accanto ad una donna che gli teneva una mano appoggiata sulla spalla, guardò il passaggio dell’uomo che aveva salvato la vita a lui e a tutti i suoi compagni. Era turbato: quello che era successo nelle ultime settimane lo aveva segnato; e non era nemmeno certo che sopravvivere a quella esperienza fosse una cosa buona, ma quell’uomo gli piaceva.

    Anche Mike passò davanti a loro, ma lui si fermò. Forse non avrebbe dovuto, ma era imbarazzato per l’atteggiamento di Brian nei loro confronti: -non fateci caso; è un po’ scorbutico, ma non è cattivo.-

    L’uomo con la barba fece solo un leggero gesto con la testa.

    -È vostro quel carro?- chiese loro Mike, indicando il carro pieno di sacchi e casse di legno parcheggiato vicino all’inizio della strada sterrata.

    -No… cioè era… di quelli,- disse l’uomo con la barba facendo un cenno verso uno dei cadaveri: -ci costringevano a spingerlo.-

    -Beh, ora è vostro. C’è un insediamento poco lontano, a Sud; dovreste riuscire a raggiungerlo senza troppe difficoltà. Buona fortuna.- Mike fece per andarsene ma l’uomo lo fermò: -è da lì che veniamo. Non c’è più niente lì.-

    A quelle parole Brian, che era ancora abbastanza vicino da sentire, si fermò e si girò verso di loro.

    -Ma abbiamo visto il fumo.- disse perplesso Mike.

    -Hanno ucciso tutti, preso tutto quello che gli serviva e dato fuoco a quello che rimaneva. Non c’è più niente laggiù.- l’uomo abbassò lo sguardo pronunciando le ultime parole; sembrava dispiaciuto di dare a loro brutte notizie.

    Mike guardò Brian, il quale aveva lo sguardo più scocciato che preoccupato. Lui invece era preoccupato: erano a corto di viveri e non sapevano, a quel punto, dove recuperare quello che serviva loro. L’uomo sembrò capire il problema: -prendete quello che vi serve dal carro: c’è cibo, munizioni, vestiti. Prendete quello che volete.-

    -Grazie.-

    -Ci avete salvato la vita, è il minimo.-

    Mike gli fece solo un cenno affermativo, che l’uomo ricambiò.

    -A Nord, a cinque o sei giorni di cammino, sulla I-17, c’è un insediamento, dalle parti di Flagstaff,- disse loro Mike prima di seguire Brian che si stava già dirigendo verso il carro: -sono ben organizzati e ospitali.-

    L’uomo fece ancora un cenno affermativo. Mike si girò un’ultima volta verso di loro: -prima di andarvene, se ci riuscite, magari mettete dei cartelli per indicare il campo minato. Cerchiamo di evitare altre vittime innocenti.- Non aggiunse altro e si affrettò a raggiungere Brian.

    Brian voleva andarsene da lì, e in fretta. Aveva salvato quelle persone e lo sapeva, ma non voleva che loro pensassero che fosse una persona speciale, che fosse una specie di eroe. Non lo era e non voleva esserlo. Era uno stronzo come tutti gli altri sopravvissuti; viveva di stenti e razzie come tutti gli altri sopravvissuti; aveva rubato e ucciso come tutti gli altri sopravvissuti. Voleva solo essere lasciato in pace. In quel nuovo mondo non c’erano regole o leggi: quello che riuscivi a prendere era tuo e per tenertelo dovevi impedire agli altri di prendertelo; era un mondo duro e implacabile, sopravviveva solo il più forte. Lui lo sapeva e lo sapevano anche loro. Li aveva salvati, ma non sarebbero sopravvissuti a lungo se non fossero stati in grado di organizzarsi e reagire. Si chiese perché l’avesse fatto, anche se la risposta la sapeva molto bene. Ad ogni modo, quelle persone avrebbero dovuto cavarsela da sole e non voleva restare ancora a lungo vicino a loro.

    Stava già controllando i sacchi e le casse sul carro quando Mike lo raggiunse. Lo guardò per un attimo.

    -Che c’è?- gli chiese Mike, anche se probabilmente lo sapeva: -dovevo dire qualcosa… insomma, sono sconvolti e stanchi e noi… insomma…-

    Poi Brian distolse lo sguardo dai suoi occhi e lo puntò più in alto, verso il suo nuovo cappello.

    -Che c’è? È per il sole.- Mike era leggermente imbarazzato, dato che sia lui che Brian sapevano che il motivo non era proprio quello. Gli piaceva; e allora? Aveva davvero importanza in quel momento? Brian era stato maleducato, come sempre, con quella gente e poi si preoccupava di uno stupido cappello? A volte non lo capiva davvero.

    Assieme controllarono quello che c’era sul carro e presero cibo e munizioni: tutto ciò che occorreva in quel mondo maledetto; poi Brian inforcò il suo berretto militare con visiera, buttando un occhio al cappello a falda larga di Mike, e imboccò la strada sterrata senza voltarsi indietro.

    -È per il sole!- gli urlò dietro mentre raccoglieva le ultime cose e si apprestava a seguirlo.

    -Brian!- Mike cercava disperatamente di raggiungerlo: si era attardato nel tentativo di recuperare cose utili dal carro ed era un po’ appesantito da quello che aveva preso; forse aveva un po’ esagerato, ma non sapendo dove erano diretti e per quanto tempo sarebbero rimasti senza contatti con nessuno aveva pensato di prendere più cibo possibile. Per un attimo si era sentito in colpa a sottrarre risorse a quegli uomini, ma sul carro c’era davvero tanta roba e se la sarebbero cavata bene.

    -Brian! Aspetta!-

    Brian non rallentò il passo. Mike affrettò il suo e lo raggiunse: -che cavolo! Dove corri!?- aveva il fiatone.

    Brian continuò ad ignorarlo.

    -Sei stato un po’ scontroso con quella gente, non trovi?-

    Il suo compagno di viaggio non rispose.

    -Senti, lo so che…-

    Brian si fermò bruscamente e si girò verso Mike: -no, tu non sai.-

    Si guardarono per qualche istante. Lo sguardo gelido si Brian, lo sguardo stanco e ingenuamente speranzoso di Mike.

    Poi Brian continuò la sua marcia verso la I-17, e Mike dietro di lui. Avrebbe voluto continuare a parlare ma a volte capiva quando era il caso di stare zitto… a volte.

    Resistette fino a quando arrivarono sulla strada principale: -e adesso dove andiamo?-

    -Andiamo a Ovest: c’è un lago a una quindicina di chilometri.-

    -Pensi che ci sia qualcuno?-

    -Se l’acqua è buona c’è sicuramente qualcuno.-

    -E se non è buona?-

    Brian sospirò; non aveva una risposta a quella domanda, ma non poteva non rispondere: -mi inventerò qualcosa.-

    -Ok. Non è un granché come piano, ma suppongo che dovrò accontentarmi.-

    -Dovrai.-

    Brian attraversò la I-17, che non li avrebbe più portati da nessuna parte, e cominciò a camminare fra le sterpaglie del deserto.

    -Brian?-

    -Che c’è ancora?-

    -Posso farti notare una cosa?-

    -No.- cominciava a stancarsi dell’insistente voce di Mike.

    -Aspetta un attimo!-

    Aveva accelerato il passo nella speranza che il suo compagno di viaggio capisse… ma non capiva.

    Lo raggiunse: -Brian!-

    Lui non lo badò. Mike sapeva che forse sarebbe dovuto stare zitto, ma quello che aveva da dire era importante: -Brian, ti sei accorto che il ragazzo ci sta seguendo, vero?-

    -Si stancherà.-

    -Ne sei certo?-

    -Non è un problema mio.-

    -Non è il caso di aspettarlo?-

    Brian non rispose e non diede cenno di rallentare.

    -Ok, domanda stupida, ma…-

    Brian si girò leggermente verso Mike, senza rallentare. Il suo sguardo era chiaro.

    -Ok, come non detto. Non ti arrabbiare con me.-

    -E con chi altro dovrei arrabbiarmi?-

    -Acuta osservazione, ma…-

    Brian si girò nuovamente verso Mike, con rabbia. Sempre lo stesso sguardo gelido, ma con quella punta di dacci un taglio o mi incazzo davvero che Mike ormai conosceva e che sapeva bene che era meglio assecondare: -ok, sto zitto.-

    Sid li seguiva tenendosi a debita distanza e nascondendosi il più possibile; non era facile ma i cespugli rinsecchiti sparsi un po’ ovunque aiutavano. Aveva deciso di seguirli appena si erano allontanati dal carro. Non poteva restare con quella gente: erano stati gentili ad ospitarlo quando aveva perso i genitori e in un certo senso erano suoi amici, ma non erano la sua famiglia, e di certo non erano all’altezza della situazione. Neanche quei due erano la sua famiglia, ma erano assolutamente all’altezza della situazione: sapevano difendersi, sapevano come cavarsela e sarebbero stati in grado di proteggerlo.

    Li aveva visti battibeccare, ma era troppo lontano per sentire quello che dicevano e non sospettava minimamente che stessero parlando di lui. Doveva andare con loro, in un modo o in un altro, ma non sapeva se lo avrebbero accettato; era un grosso rischio, ma la vita gli aveva già tristemente insegnato che se non fai niente non ottieni niente. La sua idea era di avvicinarsi a loro quando sarebbe stato troppo tardi per tornare indietro dal suo vecchio gruppo: a quel punto non avrebbero più potuto abbandonarlo a se stesso e avrebbero dovuto portarlo con loro… almeno sperava. Forse aveva preso quella decisione troppo in fretta e senza riflettere a fondo sulla situazione, ma non aveva nessuna intenzione di tornare indietro. Alle sue spalle non c’era più nulla: la sua famiglia non c’era, i suoi amici erano quasi tutti morti, le persone che conosceva non potevano prendersi cura di lui. Ci doveva provare.

    Passò poco più di mezz’ora quando incrociarono la New River Road, la strada che portava al lago. Presero a seguirla. Fu in quel momento che Sid decise di uscire allo scoperto. Sapeva che lo avevano visto: uno dei due, quello biondo che durante lo scontro aveva sparato con quello strano fucile lungo, ogni tanto si voltava e si guardava attorno. Lo faceva da quando erano partiti. Inizialmente pensò che lo facesse solo per controllare in giro, per cercare potenziali minacce o cose utili, ma sarebbe stato stupido da parte sua pensare che fosse casuale quando guardava nella sua direzione, anche se era nascosto. E poi era stanco di nascondersi: era troppo caldo ed era troppo difficile stargli

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