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Una madre
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E-book366 pagine5 ore

Una madre

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Ernesta è una ragazza semplice, ambisce a crescere una famiglia nell'amore e nell'armonia. La vita invece la porterà ad affrontare degli ostacoli in cui saprà dimostrare la sua forza e la sua umanità. Un romanzo sul valore della famiglia, dell'amicizia e della fede, sulla determinazione a sfidare i pregiudizi di una società gretta. Le vicende si svolgono tra la fine della Prima guerra mondiale e gli anni Settanta, tra la zona bassa della Piave e la laguna nord di Venezia.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita23 apr 2018
ISBN9788833661117
Una madre

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    Una madre - Alberto Camata

    Alberto Camata

    Una madre

    Ho combattuto la buona battaglia,

    ho terminato la corsa,

    ho conservato la fede.

    (2TM 4,7)

    Capitolo 1

    Il tempo nuovo

    Mai più, questo pensavano tutti: mai più. Lo affermavano come un deciso proposito, ma era solo una timida speranza. Le piogge novembrine venivano accolte come una pulizia, era l'acqua benedetta che doveva lavare e portarsi via tutto l'orrore che avevano visto e vissuto in quegli anni.

    Dopo che i loro cuori euforici avevano condiviso nei primi giorni di novembre una sensazione di liberazione e di ritorno alla vita, ora dominava l'incredulità sia in casa e sia per strada. In ogni istante provavano una leggera inquietudine, la sensazione del pericolo, ma dovevano convincersi che appartenesse al passato, il male se ne era andato, ora dovevano impegnarsi nell’intento comune di non riviverlo mai più. Erano vivi, erano riusciti a sopravvivere al disastro, al dolore, al terrore, al sangue, alla distruzione che la guerra aveva seminato dentro di loro e intorno a loro, nei campi, lungo la Piave, che era stata un ipotetico confine dove ragazzi contadini con la divisa italiana sparavano e infilzavano con la baionetta ragazzi contadini austriaci o ungheresi, che a loro volta sparavano e infilzavano gli italiani. Gente opulenta aveva deciso che quella gioventù doveva massacrarsi per permettere alle loro obesità di ingigantirsi. Ma adesso era tutto finito, al popolino era stato dato in pasto il Bollettino della Vittoria di Armando Diaz, calcando il passo che diceva: I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. Orgogliosi, questo dovevano essere, ma nelle terre dove sono avvenuti i fatti che raccontiamo, nella parte bassa della Piave, troppe ne avevano viste, interminabili ore di terrore trascorse sotto le bombe, tra i fischi delle pallottole, con le case sequestrate dall'esercito, con ragazzini impauriti legati mani e piedi lasciati in un angolo, senza mangiare e senza bere, rei di avere una divisa diversa, con la colpa di obbedire a coloro che ordinavano di sparare a chi stava dall'altra parte e di ucciderlo con qualsiasi strumento, anche con le sole mani.

    I campi erano stati arati dai colpi di cannone, i bombardamenti avevano lasciato delle enormi buche e, tutto sommato, era un sollievo vederle dopo che i fischi degli ordigni avevano coperto le loro orazioni o le loro bestemmie contro quella porca guerra, la quale faceva piovere sulle loro teste una grandine di bombe che, non di rado, colpiva delle case portando la morte.

    La guerra era stata vinta per l'eroismo dei soldati, così racconta la Storia, ma le loro gesta erano solo desiderio di sopravvivenza, di farla finita quanto prima, sacrificando la propria vita come gesto estremo se proprio non riuscivano ad annientare quella di coloro che avevano imparato a chiamare nemico, sotto la minaccia delle pallottole che i loro stessi ufficiali erano pronti a sparare su di loro se fossero retrocessi. Inoltre avevano avuto una fortuna, quella di appartenere a un paese povero che poteva offrire solo ranci a base di verdure, tanti minestroni, questa era la sbobba; gli austro-ungarici no, a loro Cecco Beppe passava la carne, non molta, ma c'era, così l'epidemia di influenza spagnola che aveva invaso l'Europa aveva avuto vita facile con chi mangiava carne, mentre chi si nutriva di verdure poteva contare su maggiori difese e anche questo aveva contribuito a fare la differenza sulle sorti della guerra.

    Queste cose Ernesta non le sapeva, lei aveva poco più di vent'anni, una corporatura robusta ben distribuita grazie alla sua altezza, aveva un viso dai lineamenti regolari, gli occhi che esprimevano bontà, i capelli scuri per comodità li teneva in una crocchia, un portamento elegante, naturale, pronta al sorriso e ai modi gentili, non sembrava una contadina, con vesti sontuose l'avrebbero scambiata per una nobildonna. Aveva un fidanzato al fronte, Lorenzo, un ragazzo di cui era perdutamente innamorata; era la maggiore di diciotto figli che la madre aveva meccanicamente partorito, ma non accudito, anzi, era una donna poco incline ai gesti d'amore, era dura, autoritaria, forse odiava la sua condizione, quella vita, chi lo sa; la sola cosa che sapeva Ernesta era che ai fratelli e alle sorelle doveva pensarci lei. Aveva dalla sua l'affetto e il sostegno del padre, il quale aveva capito che in lei batteva il cuore di una madre con un amore smisurato per i bambini. Ernesta lavorava sodo, doveva dividersi tra la cura dei campi, i lavori domestici, ma ciò che le dava gioia era accudire i fratelli, compito quest'ultimo che assolveva con una dedizione infinita soprattutto verso i più piccoli. Ah i piccoli, dolci creature che con una carezza o una parolina sapevano aprire un mondo di emozioni; quanta tenerezza, quanta gioia nel vestirli, sfamarli, pulirli, raccontare loro delle storie alla sera, spidocchiarli, farli giocare. Mentre come una madre cresceva i fratelli, attendeva con ansia il ritorno dell'amato, certa che avrebbe mantenuto la promessa di matrimonio che le aveva fatto quando era partito per il fronte, così da concedergli quel momento di intimità che le aveva chiesto prima di partire, ma che lei gli aveva negato; non aveva voluto che partisse per il fronte con un tale peccato, forse Dio non l'avrebbe perdonato e per ripicca non lo avrebbe preservato dalle pallottole. No, ci teneva troppo a lui, al suo ritorno, perché sapeva che sarebbe ritornato e sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe indossato l'abito da sposa, avrebbe detto sì davanti al parroco e quella stessa notte sarebbe stata sua, per quella notte e per sempre.

    A lei dell'ultimo bollettino scritto da Diaz non interessavano le retoriche parole, voleva sapere quando il suo uomo avrebbe fatto ritorno e in quelle frasi ben costruite non c'era risposta.

    Il lavoro non mancava, non c'erano solo i campi che attendevano delle braccia robuste, c'era da rimettere in piedi tutto un lavoro di bonifica che prima della guerra aveva impegnato economicamente i latifondisti della zona e la schiena di povera gente, che per un niente passava tutta la giornata a scavare fossi, a riempire carriole per poi scaricarle lontano, con passo lesto e forza infinita, pena la perdita del lavoro. Tutta quell'impresa era stata interrotta dalla guerra e resa vana, le terre liberate erano state riconquistate dall'acqua, perché nessuno aveva voluto investire il proprio denaro in un'opera che le bombe avrebbero potuto distruggere; inoltre andavano aggiunte le strategie dei generali che per impedire il passo al nemico avevano di buon grado riallagato la zona maciullandola a colpi di cannone, così le paludi si erano riappropriate del territorio e con loro era ritornata la malaria.

    Ad arare i campi, ora che Trento e Trieste erano italiane, ci dovevano mettere maggiore attenzione, il desiderio di seminare si scontrava contro la generosa distribuzione di ordigni inesplosi che nessuno aveva raccolto: la guerra seminava morte anche in tempo di pace.

    Ernesta dove si trovavano Trento e Trieste non lo sapeva, sicuramente molto lontano da lei, ma abbastanza vicine per vedere case distrutte dalle bombe, sangue e morte, bestiame e cibo confiscato, fame e profughi. Se le avessero detto che Trento era ben al di là delle montagne che si potevano ammirare nelle giornate serene dalle sue terre che lambivano il mare, non ci avrebbe creduto: una città così lontana non poteva scatenare una guerra attorno a casa sua. Se le avessero detto che Trieste si trovava dalla parte opposta del mare, più in là della linea azzurra che si vedeva lontano confondersi con il cielo, si sarebbe offesa: una città così lontana non poteva rubargli il fidanzato.

    Ma i lutti, le imprecazioni che aveva udito in lingue diverse, le spiegavano il contrario, che il mondo non era così esteso come immaginava e le domande che non ottenevano risposta restituivano il senso profondo della tragedia che molta gente aveva vissuto, anche i nemici. Il terrore, il vuoto, le angosce nessuno le avrebbe potute cancellare, ma il senso di attaccamento alla vita, questo mistero che assorbe ogni energia per ritornarla decuplicata e ti fa sopportare piaghe indicibili senza perdere mai la speranza, aveva permesso a Ernesta e agli altri sopravvissuti di guardare con fiducia, anche durante quelle piogge novembrine, al nuovo tempo che li aspettava e lei fiduciosa aspettava il ritorno del suo uomo e si immaginava una nuova vita con lui. Anche per questo stava insegnando ai fratelli e alle sorelle più grandi a essere indipendenti e responsabili verso i fratelli minori, lei presto, molto presto, ne era sicura, si sarebbe sposata e non avrebbe più potuto badare a loro, lei avrebbe avuto i suoi figli, sarebbe stata madre, altre responsabilità l'attendevano.

    Non passava giorno che non si sentisse la notizia di qualche militare che aveva fatto ritorno dal fronte, che aveva riabbracciato la famiglia e aveva ripreso la vita contadina. Erano tornati anche dei ragazzi della sua zona; pure Passarella di Sopra, dove lei viveva, aveva contribuito con i suoi giovani a far vincere la guerra. Ernesta quei ritorni li viveva con ansia e rabbia: perché tardava? Come avrebbe voluto andare alla stazione di San Donà di Piave e bivaccarvi fino al suo ritorno, nell'attesa di quel treno che le avrebbe riportato il suo amore; ma non era un comportamento consono a una ragazza, lei doveva restarsene a casa, seguire le sue faccende, al momento propizio qualcuno l'avrebbe avvertita del suo arrivo e, col padre o con la madre al fianco, avrebbe fatto visita al fidanzato.

    Intanto anche Natale era arrivato e la messa di mezzanotte era stata una celebrazione veramente festosa, con canti di gioia, di ritrovata gioia, che esperienze come quelle vissute nessuno le voleva ripetere. Mai più, tuonava il parroco, mai più guerra e sarebbe arrivato finalmente il benessere benedetto da Dio; il Re lo aveva promesso, con la guerra vinta sarebbe arrivata la prosperità per tutti. I bambini avevano ricevuto i doni del Bambin Gesù: delle arance, delle mutande, dei calzini di lana. Ma lui no, lui non si era ancora visto: dov'era? Era così lontano il Friuli? In quella messa Ernesta si era confessata e comunicata, aveva supplicato il Bambino di riportarle il suo amore, che era ancora puro, intonso; lo voleva vicino, voleva anche lei una nuova famiglia, bambini da battezzare, da educare, da amare, far rispettare loro le feste comandate, insegnare le orazioni.

    Tuttavia il Natale era passato senza che il Bambin Gesù le avesse fatto il dono desiderato e neppure la pagana Befana l'aveva ascoltata; erano passate le Ceneri, erano entrati in Quaresima e in uno di quei giorni arrivò un ragazzino a informarli che il fidanzato aveva fatto ritorno.

    Ernesta non stava più nella pelle, dava fretta al padre, che sembrava divertito da tanto trepidare, dopo essersi cambiato si incamminò con la figlia verso la casa di Lorenzo. Avevano qualche chilometro da percorrere, verso Chiesanuova, ma Ernesta, sebbene robusta, sembrava leggera come una foglia e veloce come una lepre, tanto che il padre, dal passo costante e normale, doveva ordinarle di aspettarlo. Lei gli chiedeva spesso se era presentabile, una ragazza nubile non poteva dipingersi il volto come le signore ricche, sarebbe stata giudicata male, ma non poteva neppure dimostrarsi trasandata e lei voleva ben impressionare il suo amato. Chissà quanti patimenti aveva sopportato! Ripensava ai soldati sporchi, stanchi e sfiniti che avevano sostato dalle sue parti, ripensava ai volti scavati dalla fame e dalla paura dei prigionieri, ripensava ai feriti... Che cosa tremenda la guerra, che folle cattiveria, che inutile angoscia da sopportare!

    Il padre di lui li accolse in cortile, strinse calorosamente la mano al padre di Ernesta, guardò la ragazza, sembrava volesse dirle qualcosa, ma non disse niente, li invitò a seguirlo in casa. Lui se ne stava in fondo alla stanza, seduto vicino alla stufa, come li vide si propose con un volto allegro. Dio mio, com'era smagrito! Il volto stanco, provato, sofferente, malgrado il sorriso; quando si alzò Ernesta e il padre sobbalzarono; a Ernesta quasi erano mancate le forze, ma si riprese subito, trovò l'energia e lo spirito per accusare il colpo e reagire: lui per alzarsi aveva preso una stampella, se l'era posta sotto l'ascella destra ed era andato loro incontro, al posto della gamba destra aveva un moncone che terminava al ginocchio. Due giorni dopo la fine della guerra la camionetta dove viaggiava aveva urtato la spoletta di una bomba inesplosa, erano morti in tre, gli altri erano rimasti feriti, lui aveva avuto la parte inferiore della gamba squarciata. I medici dell'ospedale da campo, privi di mezzi e medicinali, lo avevano soccorso con l'unico sistema disponibile e gliel'avevano segata. Erano stati giorni di dolori, di delirio, di febbre, di infezione che veniva curata alla bene e meglio, ma i suoi giovani anni avevano avuto ragione sul male e ora stava davanti a loro, vivo, ma inutile; questo lui lo sapeva e lo sapeva pure Ernesta, come lo sapevano tutti coloro che lo avevano o lo avrebbero visto. I due genitori si allontanarono per fumare, in realtà volevano lasciarli soli, il fidanzato tornò a sedersi ed Ernesta si accomodò sulla sedia vicina.

    Lorenzo seguì con lo sguardo ogni tratto del suo viso. «Sei più bella di come ti ricordavo!» Lei non riusciva a parlare, ancora sconvolta per la disgrazia che tentava di celare in un forzato sorriso, si aspettava una carezza, un bacio, ma non arrivava. Lui si guardò il moncone.

    «Lo vedi? Che brutto scherzo, vero? E pensare che ho passato tutti i giorni nella speranza di non dover combattere, non mi è mai importato di sparare, desideravo solo tornare da te.»

    E allora perché non lo dimostrava con un gesto affettuoso?

    «Anche quando dovevo correre incontro alle pallottole pregavo Dio di tenermele lontane, che se tornavo a casa vivo gli avrei dato venti figli, venti nuove creature da amare e li avrei fatti con te.»

    Se era vero, perché non la baciava? «Ho pregato ogni giorno Dio di salvarmi, gli ho sempre chiesto di avere un occhio di riguardo per me, fino alla fine della guerra, che poi a me stesso ci avrei pensato da solo. Dio è stato di parola, ma il destino mi ha fatto un brutto scherzo, a guerra finita si è preso un pezzo di gamba» tacque, quasi stesse soppesando tutta l'amara fatalità che gli era stata riservata, lei voleva accarezzarlo, ma qualcosa di impercettibile la frenava; riprendendosi, Lorenzo la guardò negli occhi e le disse: «Sono felice di averti rivista per l'ultima volta, ti auguro una vita felice, troverai sicuramente un bravo ragazzo che ti vorrà in sposa, sei ancora giusta, io stesso lo confermerò.»

    Ernesta strabuzzò gli occhi incredula, aveva vissuto con trepidazione quel momento per consumarlo in un abbraccio e invece lui stava mettendo la parola fine al loro futuro, sentiva il pianto spingere, ma non voleva dargli soddisfazione; respirò profondamente e trovò l'energia per rispondergli, con la voce tremula:«Ti ho atteso con la stessa inquietudine, pure io ho passato i giorni e le notti a pregare Dio perché ti salvasse e ti facesse ritornare. Ci ha ascoltati, sei qui, questo conta. Ciò che ci serve ora è che la nostra passione e il nostro amore vivano. I miei sentimenti non sono mutilati: i tuoi lo sono? No, lo sento e lo vedo dal tuo sorriso e dai tuoi occhi.» Lorenzo abbassò lo sguardo, quasi a nasconderlo, lei si impietosì: «Puoi muoverti, hai una stampella, puoi muoverti; con calma, senza fretta, arriverai all'altare e lì mi attenderai. Un pezzo di gamba in meno non toglie a una persona la forza di amare, di formarsi una famiglia, di sentirsi chiamare papà. Io mi sposerò di certo con uno del paese e quello sarai tu!»

    «Non capisci la situazione,» obiettò triste Lorenzo, «di che cosa vivremo?»

    «Di quel poco che la terra ci concede, semplice.»

    «E chi la lavorerà?»

    «E chi l'ha lavorata mentre eri al fronte? Io! Sono una ragazza forte, non ho paura della fatica, la forza non mi è mai mancata, mi è mancato il bel ragazzo che mi aveva fatto una promessa e che ora, per una disgrazia che gli è capitata, vuole girarmi le spalle, negarmi e negarsi il diritto alla felicità.»

    «Sei cocciuta e testarda, non lo capisci che non ti posso offrire niente? Sono inutile, non posso lavorare in queste condizioni...»

    «Ma se avessi la gamba intera mi sposeresti?» lo interruppe lei.

    «Certo che sì.»

    «E perché?»

    «Ma che domande...» Lorenzo non voleva pronunciare quelle parole, ma il cuore glielo imponeva «perché ti amo, perché voglio vivere con te per il resto dei miei giorni, ma...»

    «Quindi se tu fossi ritornato sulle tue gambe mi sposeresti.»

    Lorenzo annuiva. «Bene, allora facciamo finta che hai le tue gambe e mi hai sposata,» Lorenzo faceva sì con la testa, «accade qualcosa e ti amputano una gamba, a quel punto sarei libera di andare con chiunque? Anzi, mi incoraggeresti a farlo?»

    «No.»

    «Perché?»

    «Perché saremmo marito e moglie, ma ora non siamo sposati.»

    «Per me sì, per me non esiste altro uomo, l'ho promesso a Dio, a te e a me stessa, lo desidero ardentemente, anche ora, voglio essere la tua donna, la madre dei tuoi figli: hai promesso a Dio di averne venti? E venti saranno, sta bene pure a me.»

    Nei giorni successivi i genitori di Ernesta e il padre del fidanzato vissero con rassegnazione l'epilogo della promessa di matrimonio tra i due ragazzi, era lampante che non si potevano sposare, il ragazzo era condannato a una vita di solitudine. Non che per Ernesta la situazione fosse migliore, era promessa, non sarebbe stato facile trovare qualcuno disposto a sposarsela, avrebbe dovuto sopportare le malelingue. In successivi incontri il fidanzato le aveva spiegato con calma, senza litigare, ma con determinazione, l'impossibilità a continuare la loro relazione, ma Ernesta era ferma, a lei non importava niente della mancanza della gamba, non si era innamorata di lui dal ginocchio in giù. Poi la discussione finiva sempre allo stesso modo, con lui che ripeteva: «Cocciuta, non lo vedi che il nostro rapporto è alla rovescia? Dovrei essere io a venire a casa tua alla sera per incontrarti e invece sono impedito da queste due spanne di gamba che mi mancano, non posso muovermi più di tanto; sei tu che devi venire a trovare me ed è sconveniente per una ragazza, la gente mormora, spettegola.»

    «Se la gente ha tempo di sogghignare o spettegolare non mi riguarda, non vivo per la gente, non ho atteso il tuo ritorno per non essere giudicata dalla gente, ti ho atteso per amore, lo capisci questo? Non dobbiamo avere paura; che diamine, uno come te che ha corso tra il filo spinato e le pallottole, tra i cadaveri e sotto le bombe, deve ben sapere che cos'è la paura; hai vissuto con la morte al fianco. Che cosa ha da spartire il nostro amore con la morte? Niente. Non dobbiamo avere paura, io non ne ho. Vedo la scintilla della vita nei tuoi occhi, non sai spegnerla, la vedo, è lì,» e gli indicava gli occhi, «quando entro qui si ravvivava, non puoi negarlo, se lo fai è una bugia.»

    «No, non lo nego, ma sono realista, mentre tu il senso della realtà lo hai perso.»

    Ernesta andava su tutte le furie quando l'amato arrivava a questa conclusione: perché consegnarsi all'infelicità per un pezzo di gamba mancante?

    Era tenace Ernesta, Lorenzo da solo non riusciva a schiodarla dalle sue convinzioni, non riusciva ad ancorarla alla concretezza, aveva bisogno di aiuto. I potenziali suoceri erano concordi con lui. Il padre, anche se addolorato nel dover spegnere le speranze alla figlia, provava a imporsi e proibirle di recarsi alla sera da Lorenzo, trincerandosi nel: «Che cosa dirà la gente se ti vede?» Ernesta non si preoccupava di quel divieto, sapeva che quelle parole il padre non le pensava, erano imposte dalla loro comunità, non dal suo cuore, infatti quando lei, dopo aver discusso, gli girava le spalle per incamminarsi verso la casa del fidanzato non la fermava, ma si raccomandava che stesse attenta e che non ritornasse tardi. La madre invece era diretta, gli urlava le peggiori sventure: già era povera, con Lorenzo sarebbe diventata miserabile, sarebbero finiti sotto il ponte, avrebbero vissuto chiedendo la carità, lei la stava avvisando, che non si pensasse un giorno di tornarsene a testa bassa a chiedere di vivere con loro, portandosi appresso la nullità che nel frattempo si era sposata. Nullità, questo era il nome con cui aveva battezzato il futuro, sperava di no, genero. Anche il resto del parentado (Ernesta viveva in una casa colonica di settanta persone), soprattutto zie e cugine in età da marito, la invitavano a guardare altrove e le presentavano un elenco di buoni partiti disponibili a iniziare una relazione con lei. Anche gli zii, seppur con meno insistenza, la consigliavano di dimenticarlo, non c'era futuro con un menomato. Doveva rassegnarsi, purtroppo la guerra aveva stravolto molte vite, non solo la sua, doveva reagire, trovare altre strade.

    Tutti erano contro di lei, tutti sapevano elargirle consigli per una vita migliore, per il suo bene; ma che ne sapevano qual era il suo bene? Solo lei lo sapeva, si chiamava Lorenzo, eppure anche lui aveva deciso che il suo bene lo doveva cercare altrove: doveva rassegnarsi.

    Le lacrime che non aveva mai speso nella sua attesa volevano imporsi ora, lacrime di rabbia e di infelicità; ma lei non piangeva, odiava quel maledetto imperativo che usciva dalla bocca di tutti: «Rassegnati!»

    Si sentiva accerchiata, ma non si dava per vinta, sebbene le energie le stessero venendo meno.

    Alla fine, Ernesta si era così rassegnata che in un tiepido sabato di ottobre, seduta sopra un carro tirato dai buoi, col padre al fianco e la parentela al seguito, vestita di bianco, come stava dettando la moda, si dirigeva verso la chiesa dove all'altare l'attendeva lo sposo promesso, ben vestito, impomatato, dritto in piedi, sostenuto da una stampella.

    Capitolo 2

    Di verdure, di morte e di ribellioni.

    In quell'appendice di terra a nord-est della laguna di Venezia, delimitata tra la Piave Vecchia, come la chiamavano nella zona, ovvero il fiume Sile, e dal mare Adriatico, mani affrante stavano stringendo quella di Priamo Munaretto; aveva appena seppellito la seconda moglie, morta nel dare alla luce due gemelli, un maschio e una femmina. In casa c'erano già altre bocche da sfamare e l'assenza di una madre si sarebbe sentita subito.

    «Mah, il tempo rimedierà, mai perdere la speranza!» questo era il pensiero principale di Priamo, un uomo che non amava piangersi addosso, anzi aveva così tanta considerazione di se stesso da sentirsi al di sopra di tutti. Era un padrone, aveva delle terre che faceva lavorare dai braccianti e dai figli a verdure, verdure ottime, che facevano concorrenza a quelle di Sant'Erasmo, molto ricercate a Venezia. Vivevano nelle terre che i veneziani chiamavano, con una sorta di malcelato disprezzo, come quelle dove si andava a sunar, ovvero a raccolta, insomma i campi da cui servirsi per i loro banchetti cittadini. Il disprezzo era rivolto anche al loro dialetto che, sebbene mantenesse la tipica dolcezza, aveva delle leggere inflessioni che cambiavano rispetto a quello della città, un ascoltatore forestiero non le avrebbe percepite, ma i veneziani ne coglievano una durezza; la durezza della vita di coloro che andavano a sunar. Il lavoro su quella landa sabbiosa era costante, faticoso, bisognava stare chini tutto il giorno sulla terra e annaffiarla col proprio sudore, avendo cura di crescere verdure diverse in base alla stagione, liberarle dalle erbacce e dai parassiti, con un lavoro continuo, spossante, appagante solo per il proprietario delle terre. Non servivano molti campi per vivere da benestante, la rotazione delle coltivazioni garantiva ottimi raccolti durante tutto l'anno e i frutteti permettevano ottimi guadagni. I braccianti venivano pagati poco, i pasti che venivano passati a mezzogiorno detratti dalla paga finale, così pure le verdure bruttine che non avrebbero mai trovato un posto sul banco del mercato e che avevano il permesso di portarsi a casa. Priamo Munaretto, originario del Montello, arrivato in laguna non si sa come, era un benestante riverito; non si faceva scrupoli a servirsi della gente, altrimenti non sarebbe riuscito ad accumulare tanta ricchezza, aveva dalla sua prepotenza e potere, tanto da entrare indisturbato nei letti degli altri per godere del piacere delle loro mogli, ma non gli bastava, amava andare a divertirsi con qualche ricco al suo pari nei casini di Trieste o anche di Vienna. Non doveva giustificarsi con nessuno e non si sentiva in dovere verso nessuno, ma era certo che tutti fossero in dovere verso di lui.

    Priamo aveva l'urgenza di trovare qualcuno che accudisse i due gemelli appena nati, per la femmina aveva trovato alloggio presso una famiglia di Punta Sabbioni che aveva un neonato; per il maschio aveva dovuto rassegnarsi e chiedere le cure alla levatrice del paese, anche lei madre da poco, produceva latte in abbondanza e abitava lì vicino. Era stato uno dei pochi casi in cui aveva dovuto dimostrare umiltà e chiedere aiuto, ma dover chiederlo proprio a quella lì, non gli era andata giù, tuttavia non poteva perdersi in tante ricerche, i figli avevano bisogno di latte; dover affidare il figlio a colei che considerava la puttana della Piave proprio non lo sopportava, però dovette far buon viso e chiederle aiuto. Era una donna con dei tremendi difetti: non mostrava vergogna a girare scollata, non nascondeva le sue relazioni, era istruita e, cosa non trascurabile per quegli anni, era socialista. Osservando in modo superficiale i suoi comportamenti saremmo tutti d'accordo con Priamo, tradire un marito molto più vecchio di lei, un buon uomo, mite che non le aveva mai dato modo di pensare a chissà che vizi o intrighi, avere pubblicamente un'altra relazione, mettere in bella mostra le enormi tette agghindate con collane e vaneggiare spropositi socialisti era scandaloso; affidare a una così il proprio figlio maschio era da incoscienti, ma Priamo in quel momento non aveva trovato alternative.

    Eppure quella donna discutibile nascondeva delle sofferenze che muovevano alla pietà. Non le aveva raccontate, perché non era nel suo stile piangersi addosso, aveva dovuto imparare ad affrontare il mondo con i denti, aveva dovuto prendere decisioni drammatiche, vincere le convenzioni dell'epoca per appropriarsi della sua vita. Zaira Zuin, così si chiamava, era figlia di contadini della zona, gente con una visione limitata del mondo, quella di chi era cresciuto nell'ignoranza, nel timore di Dio, una vita scandita dalle regole e dai precetti dei preti, in cui l'analfabetismo e la fatica fisica erano la condizione naturale, che poteva essere alleggerita con il vino dai maschi e con ulteriore lavoro dalle femmine. Non era una sorte riservata solo ai suoi genitori, era la condizione naturale di coloro che andavano a sunar e di coloro che dovevano adattarsi ai lavori più umili perché appartenevano a un rango ancora più basso; questa era la normalità che la ragazza aveva visto attorno a sé. Zaira era esuberante, avida di vita, voleva coglierne il piacere, aveva un seno che catturava le attenzioni dei maschietti, si sentiva attratta da loro, voleva scoprire le pagine del libro vietatole dall'ignoranza della sua gente e dal potere, che Zaira identificava in chi indossava l'abito talare e i pochi che gozzovigliavano sul lavoro faticoso e malamente pagato di molti. Sfidando le convenzioni aveva sperimentato l'incredibile piacere misto a paura, il dolore e il godimento che non ti fanno capire dove finisce l'uno e comincia l'altro, dove non sai se domini o se sei dominato, se stai donando o se stai ricevendo; aveva provato un accenno di paradiso abbandonandosi tra le braccia di un ragazzo poco più grande di lei. Dopo quell'esperienza se ne aggiunsero altre, medesime e differenti, coinvolgenti e fredde, passionali e fugaci.

    Rincorrendo i suoi sogni aveva conosciuto la bellezza, drammatica se non è condivisa, di far nascere dall'amore una nuova vita. Lei era felice di sentirsi trasformata, di sentire che qualcuno si stava facendo spazio, incurante di lei, tra le sue viscere, ma non era durata molto quella gioia, chi aveva contributo a quella trasformazione si era dato alla macchia lasciandole in eredità, oltre la creatura, le ingiurie della gente. Solo allora aveva scoperto che l'essere umano vive tre condizioni: una sensuale, che comanda il più delle volte, perché ha dalla sua la vista, gli odori, il tatto; una raziocinante che ti fa valutare i pro e i contro di una situazione e, sperando di aver analizzato tutte le variabili, ti fa decidere; una terza, sentimentale, che ti fa dimenticare chi sei, che ti stacca dalla terra, ti fa volare, ti inebria e ti dona un breve barlume di felicità. Quest'ultima condizione l'aveva pagata a sue spese e ora stava davanti al padre e alla madre a raccontare il suo peccato, perché altro non poteva essere il ventre che lievitava per chi viveva nell'arretratezza culturale e materiale.

    Nello schiaffo violento del padre e nello sguardo duro della madre, aveva capito che quello che lei chiamava gioia, passione, vita, desiderio, era onta, disprezzo, mortificazione, schifo. Non condivideva quel pensiero, non si era vergognata a mostrarsi nuda, a lasciarsi accarezzare e accarezzare a sua volta, non aveva provato disagio a lasciarsi toccare nel profondo della sua femminilità, anzi lo trovava un dono impagabile, come non si era sentita sporca a ricambiare la delicatezza ed era stato esaltante sentire l'altro corpo appiccicato al suo, sudato, ansimante, che spingeva dentro di lei alla ricerca del sommo piacere. Ecco perché c'era tanta miseria attorno a lei, perché nessuno gioiva, perché nessuno godeva del proprio corpo e di quello dell'altro, del piacere ricevuto e del piacere dato. Lo schiaffo del padre era stato lo spartiacque, aveva capito da che parte voleva stare, non tra i miserabili del pensiero, tra i castigatori della vita; lei in quel preciso momento aveva scelto la vita, la voleva a piene mani ed era disposta a sopportare qualsiasi sofferenza,

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