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Lubana: Quando è il cuore a decidere
Lubana: Quando è il cuore a decidere
Lubana: Quando è il cuore a decidere
E-book456 pagine6 ore

Lubana: Quando è il cuore a decidere

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Info su questo ebook

Lubana, affascinante ragazza ucraina, forte, sicura di sé. La sua famiglia: la madre Olga e il figlio Patrick, bimbo di 4 anni avuto dopo una notte d'amore con un dottore. E poi Giancarlo, nonno italiano chiamato alle armi nel '42 e rimasto in Ucraina tutta la vita, incantato da quella terra e dalla sua gente. Ma chi è veramente Lubana? Tra avventure, lotte, amori, prigionia, sfruttamenti sessuali, sogni realizzati e altri infranti, prenderà forma, tassello dopo tassello, il profilo di Lubana, una donna come tante, una donna unica tra le tante.
LinguaItaliano
Data di uscita7 ago 2013
ISBN9788867930425
Lubana: Quando è il cuore a decidere

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    Anteprima del libro

    Lubana - Pasquale Mangone

    http://creoebook.blogspot.com

    Pasquale Mangone

    LUBANA

    Quando è il cuore a decidere

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

    Dedicato a mia moglie Ketty, musa ispiratrice e a mio figlio Daniel: grazie per essermi stati vicino e sopportato pazientemente in questa mia avventura.

    J. M. Meteora fugace nel cielo dell’esistenza.

    Pensiero

    L’Amore è l’essenza della creazione; unisce tutti i sensi in un breve ma intenso atto di piacere, dove gli opposti si fondono e la vita fiorisce.

    P. M.

    Ringrazio: Fausto Vichi, che mi ha dato la forza per continuare e avere fiducia nella stesura, Giuseppe Negretti le cui critiche costruttive mi sono state di grande aiuto, Renato Altellini critico di grande valore. Per ultimo, ma non per ordine d’importanza, un grazie all’amica e mentore Loredana Michelon che ha dato il via a questa mia avventura.

    PROLOGO

    1914/1942

    Europa centrale

    La bramosia di conquista e smania di grandezza accecano le menti di dittatori e generali che, vantandosi del loro potenziale bellico, mostrano i muscoli cercando di impaurire la preda. Costoro però non fanno i conti col fatto che ogni essere umano ha una sua dignità, un suo orgoglio e non si lascia facilmente sopraffare dall’invasore. E così, quello che sembrava un pacifico stato vicino, diventa il tuo peggior nemico. In queste situazioni l’uomo perde il senso della ragione, uccidendo persone che non conosce. Lo fa solo perché così gli è stato ordinato. Lo stesso vale per chi è dell’altra parte della barricata. Ma la cosa più preoccupante è che a ogni vittoria segue un orgoglio e una soddisfazione per il fatto di aver inflitto delle perdite al nemico; sia in vite umane che materiali. Questo ci avvicina alle bestie che dopo aver divorato la loro preda si sdraiano soddisfatte a digerire. Qui però stiamo parlando di vite umane, un’evoluzione costata milioni di anni che viene cancellata in un attimo. Non capirò mai il senso della vittoria in una guerra fratricida; perché è questo che siamo, una razza avente una stessa origine.

    Per diventare bravi in queste cose, hanno inventato scuole di indottrinamento e di strategie militari. Gli ingegneri progettano armi sempre più micidiali, un paroliere inventa discorsi capaci di aizzare il popolo a impugnare le armi. Questi non avevano capito che il difficile su questa terra è il vivere e non il morire. Dare felicità e far sì che la vita sia gioia e armonia, questo è difficile. Non dare morte e disperazione a chi rimane in vita.

    A questo proposito vano fu il richiamo degli uomini di fede alla pace e alla saggezza cristiana.

    Così il tremendo clima della guerra iniziò a diffondersi e non ci furono altri pensieri nella mente dell’uomo oltre che quelli di attacco e difesa. Uomini che prima facevano una vita serena, felice e tranquilla con i loro parenti, amici e compaesani, ora si trovavano sui campi di battaglia. Nessuna meraviglia se hanno dato un macabro spettacolo, essendo ben forniti di quegli orribili mezzi che il progresso dell’industria bellica aveva messo nelle loro mani.

    Non c’era nessun limite alle stragi, alle rovine, e giorno dopo giorno la terra sentì addosso gli spruzzi di sangue di quegli uomini a cui aveva dato la vita e si coprì di morti e di feriti. Con la saggezza di una madre addolorata accolse nel suo ventre i figli che aveva alimentato indistintamente, riportandoli in quel nulla da dove erano arrivati.

    Quando l’11 novembre del 1918 fu firmato l’armistizio di Compiègne, come in un grande carnevale, tutti ne presero parte, vincitori e vinti, se così si vogliono classificare. Dovunque mogli, madri, grandi e piccoli, si sentirono improvvisamente liberati da quell’incubo che il conflitto bellico aveva portato con sé. Nessuno si poteva sentire orgoglioso di alcun che. Chi si sentiva vincitore aveva dovuto, per arrivare a ciò, uccidere migliaia di persone nemiche, mentre chi aveva perso si leccava le ferite.

    Dopo il 1918 le armi tacquero e iniziarono anni di pace e prosperità. L’economia si riprese e lo sviluppo industriale fu straordinario. Ma ben presto all’orizzonte nuvole nere incominciarono a oscurare il cielo, e quella che sembrava un’esistenza pacifica, altro non era che una mascherata in preparazione ad altre barbarie umane. Dire che mai più ci sarebbero state guerre era soltanto un’illusione degli uomini di buona volontà che radunati nelle piazze per ascoltare il buon pastore, ben presto si trovarono in un recinto pronti per essere portati al macello.

    Nessuno vuole la guerra ma è la guerra che vuole te. Essa ti travolge come un treno impazzito, corre senza respiro come una mandria di cavalli furiosi e senza una meta precisa. Al suo passaggio non rimane che morte e desolazione, rabbia e dolore e tante domande senza risposta.

    Ma non appena la rabbia umana si placa, ecco spuntare l’alba di un nuovo giorno, e con essa la vita e la fratellanza tra gli uomini. Là dove prima c’erano macerie e rovine, ecco sorgere case e palazzi, là dove non cresceva neanche l’erba, ora c’è un campo di grano, là dove l’aria era piena di cenere e odorava di morte ora profuma di fiori d’arancio.

    Capitolo 1

    Come ogni mattina alzai lo sguardo in alto, verso il cielo. Era sereno, azzurro e senza vento. Qualche solitaria nube bianca come la candida neve, pigramente lo solcava. Ecco all’improvviso brillare come d’incanto il sole, spuntando dietro la roccia scura, inondando con il suo splendore tutta la vallata.

    Siamo a Isolato, come si chiamava allora il comune di Madesimo, ai piedi del monte Spluga, in Val Chiavenna, provincia di Sondrio, dove la neve cade abbondante e con essa arriva il silenzio, quel silenzio che ti avvolge nel mistero e ti fa sentire la voce dell’anima. Scendendo più a valle il fischio delle marmotte e il gorgoglio impetuoso dei ruscelli, fanno da colonna sonora al belvedere.

    Qui, dove ogni cosa comincia e finisce, in passato c’era il passaggio obbligato dei soldati dell’Impero Romano ed era la via per il traffico commerciale. L’uomo durante i secoli, incantato da tanta bellezza, qui si fermò, dando origine a una comunità montana basata sullo spirito di sacrificio, umiltà e rispetto.

    Gli avvenimenti di vita sociale, dal semplice saluto alla festa patronale, erano dilatati nel tempo e vissuti in ogni dettaglio.

    Ogni domenica mattina, con la leggera voce argentina della campana della chiesa, la comunità si svegliava lentamente, aprendo le finestre al nuovo giorno.

    Tutti eravamo soddisfatti della settimana appena conclusa, dopo aver svolto il semplice e nobile lavoro nei campi e nelle botteghe. Con fierezza guardavamo le cime dei monti come se volessimo elevare il nostro animo al creatore e inebriati da tanta bellezza, lassù depositavamo le certezze, i dubbi e le nostre speranze.

    In quel paesino, nei giorni di festa, la chiesa era la protagonista di ogni evento mondano. Essa, con la mole del suo campanile di pietra grigia che sembrava bucare il cielo, faceva da sentinella, custodendo ogni cosa.

    Alcuni anziani seduti con la faccia rivolta al sole, immobili come lucertole esposte al calore, oziavano davanti a quella piazzetta, che pian piano si riempiva di gente. Dato che a quei tempi, e parliamo dell’autunno del 1942, da quelle parti non c’era la radio, né tanto meno circolavano i giornali, questo era il momento in cui si diffondevano le notizie, specialmente gli ultimi avvenimenti politici e bellici, che qualche paesano, avendo la fortuna di viaggiare, raccontava al suo ritorno. Ciò comportava la formazione di gruppetti di persone intente a discutere e commentare i fatti raccontati. In quel periodo, come si sa, i soldati italiani erano impegnati in tanti fronti perché il capo supremo non voleva essere secondo a nessuno.

    Quando il sacrestano, appendendosi alle lunghe corde, faceva oscillare le campane, queste emettevano un suono squillante che si diffondeva nella valle e ti riempiva di gioia. Lo sento ancora adesso e mi ricorda il mio bel passato di gioventù. A quel richiamo ogni cristiano di buona volontà varcava il portone della chiesa per assistere alla Santa Messa, immerso nella sua fede e nella speranza di un futuro migliore, se non qui, almeno in paradiso.

    Intanto io, Giancarlo, con altri giovanotti, me ne stavo al margine della piazzetta, intento a guardare le ragazze passare: la domenica sfoggiavano il loro aspetto migliore.

    Inoltre avevano più tempo per stare coi noi maschietti, lontano dalle faccende e dallo sguardo protettivo dei genitori.

    Anche noi, chi più chi meno, cercavamo di sistemarci al meglio. Io per esempio, mi mettevo dell’olio di oliva nei capelli rigorosamente pettinati all’indietro e coperti da un cappello, che puntualmente mi toglievo per lisciarmi qualche capello fuori posto, appena passava qualche ragazza che mi interessava. La camicia bianca appena stirata, un pantalone nero con delle righe grigie, insieme alle scarpe in vernice nera e la cintura dello stesso tipo, mi davano un non so che di signorile. E poi con quei baffetti appena cresciuti facevo impazzire le ragazze, o almeno così mi sembrava.

    Ero particolarmente attratto da Elvira, un amore non ricambiato e già intensamente desiderato fin dai tempi delle elementari. I suoi capelli castani erano lunghi fino alle spalle e un’onda molto pronunciata sulla fronte incorniciava il dolce viso; al contrario di me, lei usava la brillantina per farli apparire lucidi.

    La sua simpatia e generosità d’animo si manifestavano in ogni situazione, per questo era amata e rispettata da tutti.

    Lei sapeva cogliere il lato migliore in ognuno di noi. A quei tempi avevo quasi vent’anni e lei diciassette compiuti da poco, e le nostre età, scrivendole in numeri, facevano uno strano effetto, proprio in piena gioventù. Anche se il nostro amore non era ancora sbocciato, la guardavo con occhi desiderosi, cercando di mettere allo scoperto i miei sentimenti. Ma con quel suo modo di fare allegro e gioioso, mi spiazzava sempre; non capivo a chi fosse interessata. Lei faceva parte di una compagnia di tre ragazze, tutte molto giovani. Si confidavano i segreti che noi maschietti tanto desideravamo sapere. La loro non era una bellezza assoluta, ma quando le vedevi sorridere con quegli occhi accesi e le guance arrossate, capivi che ti desideravano, urca se ti desideravano. A quell’età la natura dà il meglio di sé in fatto di attrazione, ma il buon senso e la ragione hanno le loro regole, se non si vuole finire nel ridicolo oppure nella pazzia. A volte, con quel suo sguardo dolce e il perenne sorriso stampato sulle labbra, mi sembrava che anche Elvira avesse un certo interesse nei miei confronti, ma temendo di fare brutte figure non osavo mai affrontare la questione; mi accontentavo di starle vicino da semplice amico, per sentire il suo profumo, la sua voce e incrociare il suo sguardo.

    Adoravo i suoi capelli castani, leggermente mossi che cadevano lunghi sulla camicia di color panna a righe marroni. La camicia, infilata all’interno della gonna, esaltava il suo dolce vitino, e anche il decolté era generoso. Ho in mente sempre quel terzo bottone, che a stento riusciva a restare nell’occhiello, forse perché la povera camicia non riusciva a contenere tutta quella grazia di Dio. La sua gonna era stretta in vita e al disopra del ginocchio, perché bisognava economizzare sulla stoffa, dati i tempi difficili. Essa con tutte quelle pieghe metteva in risalto i generosi fianchi tondeggianti. Un dettaglio degno di nota era che le ragazze entravano in chiesa con le labbra acqua e sapone e con tanto di fazzoletto in testa. Poi all’uscita si rifugiavano in qualche angolo per mettersi il rossetto, che in genere era sempre di tinte sgargianti e nelle diverse sfumature del rosso; facevano così perché altrimenti il parroco non le faceva entrare in chiesa.

    Fino ad allora la mia vita era, come quella di tanti altri giovani, una cosa meravigliosa, specialmente se godi di ottima salute e sei circondato dall’affetto dei tuoi cari, e ancor di più se condividi con dei bravi amici le gioie e le ansie di quell’età.

    Era quello che stava succedendo a me, uno dei tanti giovanotti di quel paesino ai confini di ogni cosa.

    Erano quasi le dieci e trenta di una domenica di fine settembre, la messa era appena finita, e me ne stavo con degli amici nella piazza, quando vidi in lontananza, nella via Innocenti de Giacomi, una stradina polverosa in salita che conduceva in paese, un uomo in bicicletta vestito di nero. Più si avvicinava e più mi faceva pensare che si trattasse di un carabiniere. Notai che a fatica si conquistava metro per metro la poca distanza che lo separava da noi. Quando la sua distanza diminuì, vedemmo che era proprio un carabiniere. Tutti lo guardammo con sospetto, dato che nessuno di noi era uno stinco di santo. Si fermò davanti al primo gruppetto di anziani che incontrò, e notammo che costui scambiò qualche parola con loro. Poi uno di loro, che mi sembrò il nonno di Elvira, indicò con il suo bastone verso la nostra direzione.

    Caspita! Qui si mette male! dissi ai miei amici, quando lo vidi puntare dritto verso di noi. Il carabiniere si avvicinò con le poche forze che gli restavano, lentamente scese dalla bicicletta, la appoggiò al muretto e si tolse quel paio di guanti che sembravano non voler abbandonare le sue mani.

    Con garbata maestria si scosse di dosso un po’ di polvere, diffondendone qualche nuvoletta sui nostri vestiti della festa appena indossati.

    Stia attento, sa quanto ci vuole a stirarli questi pantaloni? gli dissi, rivolgendomi con rispetto a quell’uomo in divisa. Ma lui non si scompose minimamente, mantenendo il modo di fare garbato.

    Estrasse dalla tasca uno straccio, che dopo vari stiramenti prese la forma quadrata di un fazzoletto. Se lo passò ripetutamente sulla fronte e sulla faccia, facendole cambiar colore. Quando fu soddisfatto della sua toilette fece un sorriso mentre rimetteva in tasca quello straccio che ormai non sembrava più un fazzoletto, perché da bianco era diventato marrone.

    Dalla sacca legata alla bicicletta, che aveva visto tempi migliori, estrasse una busta e dirigendosi verso di noi ci chiese: Chi di voi è Giancarlo Zambellini?.

    Io! mi affrettai a dire, avvicinandomi di un passo verso di lui.

    Si avvicinò improvvisando un saluto militare e mi consegnò quella busta che teneva in mano dicendomi: Firma qui, signorino.

    Estrasse dal taschino una penna che però non funzionò e dopo svariati tentativi sul retro della busta, finalmente si decise a lasciare traccia del suo passaggio.

    Che cos’è? chiesi incuriosito.

    Leggi e lo capirai da solo mi rispose con un certo distacco.

    Poi estrasse altre buste e come fanno i professori in classe, lesse i nomi di altri ragazzi.

    Paolo Ceravolo. Guardò in faccia qualcuno di noi poi disse: Non c’è. Antonio Mastrolombardo.

    Io rispose Antonio, alzando la mano.

    Lesse ancora quattro di nomi, ma erano tutti ragazzi che vivevano nelle frazioni vicine, quindi gli sforzi di quel carabiniere non erano ancora finiti.

    Salutò, poi si rimise il cappello, montò sulla sua bicicletta e, con pedalata sostenuta, si addentrò in un’altra viuzza del paese per consegnare le buste che portava con sé ad altri malcapitati.

    Aprii in gran fretta quella busta sotto lo sguardo incuriosito dei miei amici, dentro c’era una cartolina. La lessi con attenzione e mi ci volle poco per capire: era la chiamata alle armi.

    Porcaccia la miseria! esclamai, dopo aver letto parzialmente il suo contenuto.

    Cosa c’è scritto? si precipitò a chiedermi il mio amico Antonello Pagnotta.

    Alzai la testa e guardandoli in volto dissi: Ragazzi, siamo fregati!.

    Che significa fregati? Spiegati meglio! mi domandò Vincenzo Larocca, mentre si affrettava ad aprire anche la sua busta.

    In quel momento caddi nell’angoscia più totale. Di colpo mi sentii sconvolto e un brivido di paura mi risalì dalla schiena fino a raggiungere la base del collo, poiché sapevo che eravamo in guerra, chissà con quanti paesi. Non si trattava quindi di fare esercitazione in qualche caserma per poi andare in libera uscita con i commilitoni a fare baldoria. Questo significava andare al fronte: al caldo in Africa, al freddo in Russia, al tiepido in Grecia, c’era solo da scegliere, caso mai si potesse fare; la propaganda ci dava l’illusione di andare a conquistare altre terre, altre ricchezze, mettendoci di mezzo sempre ideali patriottici. Qualche fortunato reduce che tornava dal fronte, dopo aver riportato delle ferite, ci raccontava che le cose non erano come sembravano. E poi avrei dovuto lasciare famiglia, parenti, amici e amiche.

    Sapevamo che c’era la guerra ma noi, quassù al confine, ci sentivamo protetti dalle nostre montagne. La sentivamo come una cosa lontana, che non ci toccava personalmente, ma non era più così.

    Superati quegli attimi di smarrimento e una volta metabolizzato l’idea di partire, mi sentii come se fossi cresciuto e maturato di colpo. Le mie paure e le mie preoccupazioni si trasformarono in forze, pronte a reagire come un istinto di sopravvivenza. Non avevo altra scelta che la fuga, ma dove potevo andare e a fare cosa?

    Fare il vigliacco non era nel mio carattere. Sarei dovuto andare contro la logica del mondo, ma questo mi avrebbe fatto soffrire nell’immediato. Di contro, rassegnandomi al mio destino, la sofferenza sarebbe arrivata comunque, solo più tardi. La mia preoccupazione era solo un’indignazione filosofica, ma nella realtà le nostre vite non sempre ci appartengono.

    L’unica magra consolazione era l’idea di prendere parte a qualche battaglia, magari vincere, e passare alla cronaca come uno di quei soldati che avevano partecipato a quell’evento. Come nei libri di storia dove non si fa altro che studiare battaglie e guerre.

    Mi restava soltanto il sapore dell’avventura. Avrei conosciuto altra gente, visto posti lontani, capito come stavano realmente le cose, senza avere il filtro censorio dei governanti e della propaganda del regime.

    Ero certo di non vivere questa mia esperienza come turista o da semplice viaggiatore, ma da soldato che affronta il nemico per ucciderlo e per non essere ucciso.

    Qualcosa di terribile, pensai.

    Era una cosa da affrontare con coraggio e determinazione, altrimenti avrei rischiato di impazzire. Per fortuna nei miei vent’anni mi sentivo forte e coraggioso e la morte non era neanche presa in considerazione, pensavo solamente che sarei tornato più maturo, con più esperienza; più uomo insomma. Avrei potuto raccontare le mie avventure al mio ritorno, sarei stato al centro dell’attenzione di chissà quante persone.

    Non ero l’unico in quella situazione: altri coetanei quel giorno avevano ricevuto la stessa notizia. Avevamo solo un giorno a disposizione, così formammo un gruppetto tra amici e amiche, fidanzati e fidanzate. Mentre parlavamo della nostra situazione, dissi a loro: Bisogna organizzare una festicciola.

    Mi sembra giusto radunarci, ma chiamarla festicciola mi sembra esagerato; non andiamo mica in vacanza! Là, appena ti distrai ti sparano! insorse rabbiosamente Francesco, un altro destinatario della missiva.

    Ma ci pensò Giacomo a tranquillizzare tutti aggiungendo: Noi siamo delle reclute inesperte, al fronte ci mandano veri uomini con esperienza; noi il nemico neanche lo vedremo!.

    Sì, sono d’accordo per la festa, e poi chissà quando ci rivedremo! disse intromettendosi Elvira, che fino a quel momento si era tenuta in disparte.

    E poi dobbiamo tenere lontano dai nostri confini il nemico! disse Vittorio, esaltato in quel suo spirito patriottico.

    Ma guarda che i nostri li mandano oltre confine, in territori altrui, quelli non sono nemici, caso mai il contrario! aggiunse Renato, pacifista convinto ritornato da poco dal fronte, dopo che una pallottola gli aveva danneggiato il femore. Si portava ancora dietro una stampella per spostarsi.

    Giunse mezzogiorno e ognuno prese la via di casa, dove ciascuno ne parlò con i propri parenti.

    Il pomeriggio era già abbastanza inoltrato quando la compagnia si ritrovò ancora una volta riunita; se volevamo organizzare qualcosa per il giorno dopo bisognava far presto. La voce della nostra partenza si era sparsa in gran fretta e con la generosità di tanti, disponevamo già di un bel po’ di roba, sia da mangiare che da bere.

    Quindi era questione di trovarci tutti insiemi e fare un po’ di baldoria. Per l’evento ci venne incontro il padre di Osvaldo, che ci mise a disposizione la sua baita nell’alto pascolo, su nell’altopiano degli Andossi, che di solito usava come rifugio estivo.

    Fu un continuo mangiare, bere e cantare fino a tarda sera, accompagnati dalle vibranti note della chitarra di Daniele. Il buio ormai aveva preso il sopravvento quando la compagnia incominciò a disgregarsi, formando dei gruppetti a seconda delle simpatie più o meno dichiarate. Chi di qua chi di là, passammo il tempo a giocare a carte, a raccontare speranze e progetti futuri. Qualcuno più fortunato, con la complicità dell’oscurità, amoreggiava insieme alla sua bella. Io invece, me ne stavo seduto fuori dalla baita, davanti a un fuoco scintillante, lontano dalla confusione. Raccolto a meditare sui miei dubbi e sul mio futuro incerto, scrutavo il cielo stellato in cerca di non so cosa; era semplicemente bello perdersi in quella notte siderale, così limpida che potevo anche vedere la Via Lattea. Ero assorto nei miei pensieri quando sentii dei passi dietro di me, poi una mano si appoggiò sulla mia spalla e udii la voce di Elvira.

    C’è posto per un’altra anima solitaria?.

    Sorpreso mi voltai.

    Sei tu Elvira! Ti pensavo insieme agli altri.

    Tenendola per le mani l’aiutai a sedersi.

    Mi sembri preoccupato mi disse. Sai, ti ho visto qui tutto solo e ho pensato che un po’ di compagnia ti avrebbe fatto piacere. Domani dovrete partire e di questi tempi non si dà niente per scontato.

    Senti, non preoccuparti Elvira, alle armi si va e si viene, fanno tutti così, no?.

    A cosa stavi pensando?.

    Semplicemente guardavo le stelle e mi chiedevo il perché di tante cose.

    In quel momento mi catturò col suo sguardo. Vedevo nei suoi occhi i riflessi delle fiamme del falò vicino a noi; la guardai come non avevo mai fatto. La desideravo, eccome se la desideravo.

    Smetti di parlare e chiudi gli occhi mi disse, con la sua dolce voce.

    Mi accarezzò i capelli, poi sentii qualcosa di tiepido e morbido sfiorarmi le labbra, mi lasciai andare e, con il cuore in gola, mi assaporavo quel momento magico.

    Le sue mani scivolarono dietro le mie spalle e le sue braccia mi avvolsero stringendomi a sé. Senza chiedere e senza indugi, incominciammo a esplorare i nostri corpi. Mi abbandonai in quell’ardore, felice di godere di quel corpo che possedeva tutto quello che più seduce gli uomini. Mi fece sentire, per la prima volta, quel brivido che si prova quando senti scorrere il sangue all’impazzata dentro di te, quando senti che cala una nebbia tutt’intorno, e ogni cosa svanisce; sei solo tu con la tua amata.

    Poi aprii gli occhi e me la vidi lì davanti in tutta la sua bellezza: quegli occhi che ti scrutano e che ti guardano dentro l’anima. Non potei far a meno di dirle: Quanto sei bella, pensavo che fossi inaccessibile per un sempliciotto come me, così riservato.

    Ma lei mi interruppe, dicendomi: No. Anzi, apprezzo molto il tuo modo riservato e poco spumeggiante, perché una volta passata l’età delle stupidaggini una donna in un uomo cerca sicurezza e stabilità. Tu mi piaci per questo.

    Mi teneva le mani intorno al collo mentre mi diceva queste dolci parole.

    Sotto di noi l’erba fresca, come fresco era il nostro amore appena sbocciato. Non esisteva più niente, solo noi, uniti da quella strana attrazione magnetica; questo è l’amore, pensai, così cedetti e mi lasciai andare.

    Stetti immobile a baciarla per qualche secondo, sentivo le sue labbra calde e carnose e il miele che si scioglieva nella mia bocca, il suo respiro, le sue braccia avvolgenti e i suoi capelli che mi scivolavano via dalle mani.

    Volevo ricordarmi ogni dettaglio di quel momento che la vita mi stava regalando. Poi staccò le sue labbra dalle mie, si alzò e come se volesse trascinarmi via, mi portò in un posto un po’ più tranquillo, mi tolse la giacca, la adagiò per terra e ci si sedette sopra, allungando le sue mani.

    Vieni accanto a me, voglio farti un regalo!.

    Un regalo! Ma che tipo di regalo?.

    Era incredibile, mi trovavo con Elvira, quella ragazza che avevo tanto desiderato e sognato. Adesso era lei a farmi provare tutte quelle sensazioni che io avevo soltanto immaginato. Dichiarandomi il suo sincero amore mi disse: Mi piaci tanto, oddio se mi piaci, anche se fino adesso mi son tenuta per me questo sentimento. Sei il mio primo amore e voglio regalarti la mia verginità, desidero che tu sia il primo, qualunque cosa accada in futuro. La prima volta è diversa da tutte le altre. In quella prima volta, voglio vedere sempre te. Quando sarai lontano e ti sentirai solo e triste, sappi che su questa terra c’è sempre qualcuno che ti ama, che ti pensa e che ti sta aspettando.

    Presi il suo viso tra le mani e, come se si trattasse di un piccolo tesoro, lo toccai e lo accarezzai, avvicinandolo alle mie labbra come se fosse un calice dal contenuto afrodisiaco. La guardai ancora e al mio sorriso seguì subito il suo con un leggero imbarazzo. Ma ormai entrambi eravamo travolti da un’irresistibile passione.

    E fu così che per la prima volta sentii quella passione che ti brucia dentro e ti fa dimenticare ogni cosa. Avevo ricevuto il dono più grande.

    L’immersione in quella fusione amorosa era così travolgente, che mi sembrò di precipitare in un abisso infinito.

    Fu Elvira a farmi provare la vera emozione del primo bacio, anche se prima ne avevo già baciate di ragazze. Ma è con lei che sentii quelle sensazioni strane e al contempo belle, quando vengono spazzate via tutte le angosce della vita e ogni cosa ti sorride, dandomi la forza di sognare e vedere il futuro con più ottimismo. Alla fine, entrambi inebriati dall’amore consumato, rimanemmo sdraiati l’una accanto all’altro, come se volessimo metabolizzare quell’evento. Sapevamo che tra di noi era successo qualcosa d’importante. Il sentimento che provavo era così grande che parlandone, l’avrei soltanto confinato in qualche banale frase di circostanza; non sarei riuscito a descriverlo, neanche se avessi avuto il dominio di tutte le parole del dizionario. Non parlammo dell’accaduto, semplicemente ci guardavamo e sorridevamo. Ma poi pensando alla mia partenza, sentii la necessità di dirle qualcosa.

    Devi farmi una promessa.

    Quale promessa?.

    Sai, ho sentito da qualche soldato tornato per la licenza, che hanno intenzione di mandare delle truppe oltre confine. E sai, quando si va nella casa degli altri senza essere stati invitati, non sempre si è accolti a braccia aperte, quindi in caso non dovessi tornare….

    Mi interruppe, mettendomi la mano davanti alla bocca e, impedendomi di parlare, mi baciò e mi abbracciò.

    Non dirlo nemmeno, io ti aspetterò, ci sposeremo, avremo dei figli e vivremo felici.

    Poi stette in silenzio, quel silenzio che vale mille parole. Nonostante le apparenze, si sentiva che era preoccupata per la mia partenza, altrimenti non si sarebbe spiegata tutta quella passione improvvisa. Con estrema leggerezza cercai di chiarire qualche situazione di ordine pratico e puramente sociale. Anch’io avevo bisogno di qualche certezza e soprattutto di serenità.

    Sì, anch’io desidero questo ma, nell’ipotesi estrema che non dovessi tornare, voglio che ti cerchi un altro uomo. Io ti voglio immaginare felice, anche senza di me. Voglio darti la mia benedizione e voglio che tu non abbia rimorsi. Poi il tempo, che è un grande alchimista, aggiusterà ogni cosa.

    Il giorno dopo, subito dopo pranzo, io e le altre reclute ci radunammo davanti alla chiesa.

    Prima di partire il parroco ci volle tutti dentro, ci fece un piccolo sermone dandoci la benedizione. Secondo lui eravamo nelle mani di Dio, ma io speravo di non doverci restare, anche se il mio ottimismo mi diceva di non pensarci. Tutte quelle facce tristi mi trasmettevano una sensazione di angoscia.

    Oltre ai parenti c’erano anche tanti amici. Elvira se ne stava in disparte, non voleva manifestare troppo la sua preoccupazione nei miei confronti. Prendendo coraggio si avvicinò e mi porse una foto, con noi due e altri ragazzi della compagnia, fatta in occasione della fine dell’anno scolastico. I nostri sguardi si incrociavano spesso e vedevo nei suoi occhi quella tristezza contenuta che ti prende quando vai verso l’ignoto. Alla partenza mi sentii come se avessi seppellito il mio cuore là dove era rimasta la mia adorata Elvira. E poi tutte quelle mani alzate a salutarci, me le ricordo ancora. Si agitavano come canne al vento e mi confondevano i pensieri.

    Ero depresso, mentre lasciavo alle spalle la mia casa e ogni cosa che fino a quel momento mi aveva dato sicurezza e felicità.

    Capitolo 2

    Dovetti dire addio a tante cose. Con lo zaino in spalla, contenente l’essenziale, insieme ad altre reclute, mi diressi giù nella valle fino alla caserma dei carabinieri di Campodolcino. Da lì saremmo partiti con un mezzo militare verso una vicina stazione ferroviaria, dove un treno ci avrebbe portato verso la nostra destinazione definitiva. Là poi avremmo fatto una vita militare di caserma, con tanto di addestramenti, manovre e simulazioni di combattimento. Sul treno ci informarono che la nostra destinazione era una caserma nelle vicinanze della città di Bari. Pensai subito al mare e alla pianura che per noi, nati sulle montagne, erano delle novità. Nei due giorni di viaggio, feci amicizia con altri due ragazzi di Sondrio, amicizia che durò fino al momento dell’assegnazione nei reparti.

    Pensavo a una vita di routine, addestramenti, alzabandiera, marce, gavetta, turni di guardia, zuffe, ubriacature e tutte quelle cose che raccontavano alcuni soldati veterani che ogni tanto tornavano in paese durante la licenza. E così fu per un po’: avanti march, riposo, presentat’arm, attenti, canti e quando eravamo stremati, un rompete le righe ci dava un po’ di sollievo. Tutto era improntato a una preparazione metodica col fine di indurci a una cieca obbedienza; il lavoro dell’annullamento della personalità era già cominciato. Tutti uguali, tutti insieme verso un obbiettivo comune. Tutto condito con dei discorsi interminabili sui valori, la patria, il rispetto e l’orgoglio. E poi ci propinavano quella storia che la popolazione italiana aumentava, quindi bisognava conquistare altre terre oltre confine. Ma io non conoscevo nessuno che chiedesse altra terra; su questo anche Renato era d’accordo con me.

    Così mi ritrovai, spedito come un pacco postale, in un paese che non conoscevo e di fronte a un nemico che non mi aveva fatto niente. Ero giovane, un soldato giovane e facevo parte di una macchina bellica. Ci chiamavano I guastatori, venivano attribuiti ai vari gruppi nomi terrificanti, come Valanga, Tormenta, Teste dure, eccetera. Una specie di mostro umano che doveva distruggere e annientare ogni cosa che trovasse sul suo cammino per spianare la strada al resto delle truppe. Qualcuno, dopo un periodo di inattività, sembrava quasi annoiato per non essere impiegato in un vero e proprio combattimento, si sentiva come un pugile addestrato duramente per un incontro e poi trattenuto in un angolo.

    Ma quella mattina del 14 gennaio del 1943, un ordine improvviso giunse al nostro battaglione della divisione Julia, radunato nella base di Arkzngelskoje. L’ordine era tassativo: spostarsi a Rossosch, per proteggere una postazione avanzata del nostro comando, minacciata dai russi. Senza saperlo, avevamo staccato un biglietto per l’inferno, di sola andata. Ignaro di cosa lo stesse aspettando, qualcuno era anche euforico. Armati con rudimentali bottiglie incendiarie e qualche mina di dubbia efficacia, fucili in spalla, eravamo pronti a prendere d’assalto i blindati russi.

    A quei tempi la mia volontà non contava, facevo parte di una gerarchia ed ero nella parte più bassa, tra quelli che dovevano semplicemente obbedire.

    Quel gennaio del ‘43, poteva essere un inverno come tanti altri, in cui il grano giace sotto uno strato sottile di neve che, come una soffice coperta, lo protegge dalle rigide temperature, dove i focolari con il loro amorevole calore radunano le famiglie intorno a sé, rafforzando quel legame fraterno che aiuta a superare ogni cosa nel bene e nel male.

    Invece il destino mi aveva riservato un’altra sorte, e quel pomeriggio del 14 gennaio 1943, io ero là, in quella cosa che chiamavano il fronte russo, nei pressi della cittadina di Rossosch vicino al grande fiume Don.

    Eravamo tutti al fronte, trascinati con motivazioni che non riuscivamo a capire.

    Tutti quegli interminabili discorsi nelle caserme prima di partire, con argomentazioni politiche strategiche e di dominio, s’erano rivelati dei banali lavaggi di cervello, capaci solo di annullare la nostra personalità e individualità. Man mano che andavano avanti gli addestramenti, ci sentivamo sempre più lontani da casa, i nostri ricordi della famiglia erano sempre più sbiaditi. Si creavano nuove amicizie, nuovi contatti e soprattutto si cercava di sopravvivere in quella caduta interminabile, verso un abisso sconosciuto. Eravamo giovani che amavano la vita, caspita se l’amavamo. Bastava vederci, appena arrivati in caserma come nuove reclute, con quale entusiasmo ed energia affrontavano le sfide quotidiane. Ma adesso eravamo trasformati in sopravvissuti pronti a lottare per qualche ora di vita in più.

    Qui al fronte si scopriva la cruda verità: o si uccideva o si veniva uccisi. Ognuno si poteva dipingere la situazione come voleva, ma questa era la realtà, che si faceva sempre più drammatica man mano che si procedeva avanti nel fronte.

    Ci dicevano che i russi battevano in ritirata, ma chissà se era vero. Comunque ormai ero così stanco e avvilito che accettavo tutto con umile rassegnazione. Avevo perso la mia identità, il mio controllo e l’autostima; mi sentivo uno strumento di conquista e di morte manovrato da una mano invisibile.

    Alla partenza per l’addestramento nelle caserme, noi giovani reclute pensavamo di essere esonerati dai combattimenti al fronte. Ma con progressive e strategiche tattiche, ci misero faccia a faccia col nemico. Pensavo a quelle poche parole dette alla mia cara Elvira: se non torno non mi piangere.

    Già pensavo a qualche burocrate che avrebbe dato la notizia alla mia famiglia. Diranno che sono morto in combattimento da vero patriota, combattendo e difendendo la patria. Anche se a me sembrava tutta un’altra cosa.

    Dopo molte ore di marcia, faticosa ed estenuante, arrivammo nelle vicinanze del nostro obbiettivo. Quella sera non tardò molto a imbrunire e le tenebre ci impedivano di vedere in lontananza.

    C’era un silenzio irreale a Rossosch, sembrava che nulla si muovesse e non si vedeva anima viva in giro; ogni abitante si era rintanato come una preda che fiuta il pericolo, sentendo il predatore

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