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Ai nostri paesi ce ne son delle più belle
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E-book217 pagine3 ore

Ai nostri paesi ce ne son delle più belle

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Info su questo ebook

I luoghi dove si cresce e si matura, villaggi o città che siano, prendono dimora nell'anima e vivono nella nostra memoria nutrendosi dei nostri sogni e generando storie che nessuno potrà mai smentire. Esse riempiranno i giorni vuoti e quelli tristi, ci faranno evadere dalla malinconia perché solo ai nostri paesi ce ne sono, davvero, delle più belle: qui troverete le mie.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2018
ISBN9788829576616
Ai nostri paesi ce ne son delle più belle

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    Anteprima del libro

    Ai nostri paesi ce ne son delle più belle - Claudio Montini

    I

    LO SPIRITO DI SAIRANO

    Avere un posto in cui tornare, oppure uno da cui partire senza la certezza di rivederlo e, in fondo, nemmeno il rimpianto vuol dire essere ancora vivi: così sosteneva Cesare Pavese in un passaggio de La luna e i falò . Rispetto al maestro piemontese e langhigiano (già professore di letteratura inglese presso l'università di Torino, relatore della tesi di laurea di Fernanda Pivano, redattore e collaboratore della casa editrice Einaudi), io non sono che un granello di sabbia in riva al mare; tuttavia ho conservato un buon ricordo delle persone e dei luoghi che hanno caratterizzato e, devo ammetterlo, in parte forgiato la mia infanzia, l'adolescenza e la gioventù: rispetto a lui, ho questo vantaggio e, probabilmente, esso mi salverà dal peso del senso di estraniamento e dalla sensazione di estraneità crescente che hanno condotto il professor Pavese a togliersi la vita. Per fortuna, io ho Sairano che non è un paese come gli altri, anzi, è smemorato come tutti gli altri; ma li batte e sta in vantaggio su di loro perchè insegna a condividere e ricordare la gioia delle piccole cose, delle abitudini, della gente che si guarda in faccia, che si rinfaccia le peggio cose ma che, quando c'è una lacrima da asciugare o un dispiacere da consolare o un morto da accompagnare e far vivere nel ricordo di tutti, non è secondo a nessuno. A chi mi chiede di descrivere i sairanesi, dico che loro sono come i giapponesi con la macchina fotografica al collo: lo dico perchè di tutti i pavesi, loro sono gli unici che cercano sempre di cavarsela meglio che possono e a testa alta in qualsiasi frangente, sanno annusare l'aria e cercano di andare d'accordo con tutti per cavarne il massimo profitto in questa vita, che è una sola ed è inutile perdere tempo ad avvelenarla al prossimo. Badano al sodo, ma non dimenticano gli amici e la buona tavola: per marcare le distanze da antipatici e arroganti, li apostrofano ricordando loro che non hanno mai mangiato il risotto insieme; rispettano l'impegno e la generosità, ma non amano gli eccessi. Sairano è un posto da cui si smania di partire per far fortuna e si spera di tornare vincitori, ma anche un posto dove si torna volentieri, foss'anche solo con la memoria, giusto per riassaporare le cose buone di una volta. Lo sapeva bene anche il conte Carena che ristrutturò il castello (fondato da un capitano di ventura della guerra dei Trent'anni, così ricompensato dalla corona di Spagna per i suoi servigi) nel XX secolo, elevandolo a casa di campagna dove coltivare l'otium inteso alla latina: infatti, all'ingresso degli appartamenti privati pose una scritta emblematica nella lingua di Cicerone Civiles curae procul hinc abite , andate lontano da qui preoccupazioni civili ovvero state alla larga da questo posto tribolazioni del lavoro e della vita pubblica. Del resto, il conte era un notaio che aveva partecipato alla Prima Guerra Mondiale, come i tanti che sono scritti sul monumento ai caduti (inaugurato nel 1929 proprio davanti all'ingresso carraio del maniero, sul quale tutti i coscritti hanno scattato una foto ricordo dell'avvenuta visita di leva); come tanti notabili che, in qualche modo, avevano partecipato all'ultima guerra risorgimentale o alla prima del secolo breve, anch'egli aveva caro il tenere distinta la vita professionale e pubblica da quella privata e rustica, legata al blasone conquistato o acquistato (sostengono le malelingue) e basato sul censo o sulla proprietà terriera. Lo spirito di Sairano, che si era già manifestato ai primi coloni eredi di Caio Giulio Cesare e a quelli Ottaviano Augusto, credo lo abbia ripagato e altrettanto abbia fatto con i suoi eredi concedendo a tutti dosi generose di buon senso pratico, sarcasmo e scetticismo uniti a istinto di sopravvivenza e curiosità che hanno fatto sì che echi e boati del mondo, tanto incalzanti e contraddittori quando non perniciosi per la salute, giungessero ben distinguibili sino a lì ma fossero anche interpretati (ma non copiati), distillati (ma non mutuati), metabolizzati (ma non approvati) o, infine, marginalizzati e dimenticati.

    Non ho mai sentito il bisogno di tornare a Sairano perchè il suo spirito, in fondo all'anima, mi ha sempre fatto compagnia come una coscienza implacabile, spietata, autonoma ma che ha saputo consigliarmi e consolarmi nei momenti difficili della vita e della scrittura, due mestieri faticosissimi e al tempo stesso due passioni cui non voglio rinunciare.

    Ai nostri paesi ce ne son delle più belle non è una antologia di racconti e non è un monumento alla memoria, o per meglio dire, non è soltanto queste cose: è un prodotto nuovo di quel coacervato di idee, sensazioni, sogni e riflessioni che per qualche misteriosa ragione prende domicilio nella mia testa, si tuffa nel cuore ed esce dalle dita componendosi sulla pagina. E' la maturazione di materiale già scritto e pubblicato, ma dotato di potenzialità inespresse che fremevano e urlavano tra le righe per essere liberate, messe in luce e armonizzate al flusso narrativo. E' la specialità dello spirito di Sairano e dei sairanesi: quella di trasformare cose vecchie in sogni nuovi da sognare, in ogni dannato posto del mondo essi dovessero trovarsi a viaggiare o vivere.

    IL DAZIO DELLA BENEVOLENZA

    Ai nostri paesi ce ne son delle più belle, cantava un tale che aveva attraversato a piedi mezza Europa per tornare a casa dalle gelide steppe russe durante la più infame guerra della fine del secondo millennio.

    Un po' che c'era andato malvolentieri a servire il re e quella gran crapa pelada che sbraitava dai balconi e dalle radio, un po' che il sano istinto di conservazione che tutti i contadini del mondo hanno impresso nel loro codice genetico ebbe il sopravvento sulle panzane ideologiche e soldatesche, quando intuì che la ritirata non finiva entro i confini del suolo patrio ma dietro il filo spinato di un campo di prigionia proprio dell’alleato del patto d’acciaio, gli ci volle meno di un amen per darsela a gambe puntando tenacemente a sud.

    Le sue cognizioni di geografia erano ristrette alla convinzione che appena avesse passato quelle cime che l'avevano così affascinato all'andata, allora, ai loro piedi avrebbe visto la sagoma della città distesa nella pianura e coronata di paesi e cascine dalle grandi stalle, tra cui quella da cui era partito soldato. Era un impresa disperata, ma non impossibile e, pertanto, mentre marciava ritmo serrato attraversando ora un prato ora un bosco, ragionava sugli strumenti che la divina provvidenza gli aveva messo a disposizione e come avrebbe potuto sfruttarli a proprio vantaggio; l'abitudine alla fatica e la destrezza nell'appropriarsi di ciò che abbisogna senza che il legittimo proprietario se ne accorga, l'avevano aiutato a disfarsi dei panni da soldato ridotti piuttosto male e lo avevano portato in vista delle prime asperità del terreno, che sperava fossero le avanguardie delle montagne che lo separavano da casa sua. La giornata si presentava limpida e pervasa di quella maligna quiete che era solita precedere gli assalti alle postazioni nemiche: perciò si fermò al limitare del bosco in attesa di veder comparire la fine della sua avventura, una pattuglia armata a caccia di disertori; invece, quel che vide muoversi da un casolare minuscolo sull'orizzonte, man mano che si avvicinava, lo commosse e scatenò in lui una tempesta di nostalgia: un gruppetto di mucche caracollanti per un sentiero che solamente loro sembravano intuire facevano strada a un vecchio che si appoggiava nel cammino a un lungo bastone.

    Avrebbe voluto unirsi a loro per tornare ad essere quello che lui sentiva d'essere sempre stato: non un assaltatore ma un mungitore, un amico gentile e servo solerte che apprezza e ricambia la generosità del bovino da latte accudendolo con passione, addirittura maggiore di quella riservata a un famigliare perché la vacca, detto senza disprezzo, ti da da bere e da mangiare e in cambio chiede che tu sia puntuale con le sue minime esigenze.

    L'emozione durò il tempo di un sospiro e la ragione lo spronò a rifugiarsi tra rovi e cespugli perchè la processione animale puntava dritta sul bosco: allora il vecchio portò una mano alla bocca e con un fischio modulato fece mutare rotta alla mandria la quale, precisa come un plotone da parata, eseguì senza sbandamenti dirigendosi verso la montagnola alle cui pendici il bosco si apriva in un folto prato.

    Superato lo stupore per ciò cui aveva assistito, gli restavano solo due cose da fare: visitare il casolare approfittando di quello che c'era oppure passare oltre lasciandosi alle spalle più strada possibile e che Dio gliela mandasse buona. Si lasciò guidare dall'istinto e dal cuore: ancora oggi è felice d'averlo fatto. Contando sul fatto che la combriccola bovina e il suo conduttore si sarebbero lungamente attardati sull'alto pascolo, lesto come un gatto si infilò nel casolare e lo ispezionò da cima a fondo, come se stesse affacciandosi in lui l'idea di rintanarsi lì fino a che la guerra non fosse finita e le acque del mondo si fossero calmate: magari a casa lo avevano dato per morto e lui si ritrovava con l'opportunità di cominciare una nuova vita, magari più ricca e più fortunata; un cigolio di cardini e un canto sommesso scompaginarono i suoi pensieri mandandolo a nascondersi nella paglia, accantonata alla rinfusa sul fienile che dominava la stalla e guardava l'alloggio del vecchio.

    Ma il tepore e il profumo dell'improvvisato nascondiglio e la stanchezza accumulata nei molti giorni di marcia resero le sue palpebre troppo pesanti da tenere aperte: così, senza rendersene conto, cadde in un sonno buio e profondo.

    Quando sentì una punta dura toccargli ripetutamente la spalla, si scosse dal torpore girandosi sulla schiena con le mani in alto in segno di resa e mise a fuoco la figura del vecchio mandriano col mento appoggiato alle mani che, accavallate all'estremità del manico, mantenevano obliqua al pavimento la forca tridente.

    «E allora, com'è?» chiese il vecchio.

    «E' andata buca, è finita per me...» rispose senza smettere di fissare il vecchio, che a sua volta, sorrise.

    «Almeno sai dove sei arrivato, giovanotto?»

    «Veramente, non saprei nemmeno dire da quanti giorni io sia in cammino.»

    «Devono essere molti visto che hai dormito per due giorni di seguito; comunque, sappi che dietro le montagne qui fuori passa il confine italiano. Insomma, anche se l'hai presa un poco più larga degli altri, ce l'hai quasi fatta.»

    Allora, con un punto interrogativo dipinto in faccia, abbassò le braccia e si grattò la testa come se volesse riordinare i pensieri.

    «Come sarebbe a dire... gli altri...e poi, lei che mi parla in italiano... sarà il delirio prima della morte...»

    Il vecchio si mise a ridere ed estrasse dal panciotto l'orologio: «Nein, è il delirio della fame: credo che la cena sia ormai pronta; la mamma ha sgobbato per noi tutto il giorno e non è giusto farla aspettare...e poi la zuppa fredda non mi piace».

    Posò la forca e l'aiutò ad alzarsi ed andarono a tavola; mamma Greta aveva appena posato in tavola la zuppiera fumante e, strofinandosi le mani nel grembiule, accolse Giuseppe abbracciandolo commossa come se fosse un figlio scampato alla morte.

    La casa odorava di buona e pulita semplicità che allargava il cuore perchè suscitava l'idea d'aver finalmente raggiunto un oasi di serenità, un rifugio sicuro dalla cattiveria della vita: come se uno, trovandosi nel mezzo di un temporale senza ombrello, riuscisse a trovare un portone o una tettoia o chissà cos’altro sotto cui aspettare, all’asciutto che il peggio sia passato e si possa riprendere il cammino.

    Cenarono quasi senza parlare, se non di ciò che riguardava la tavola; quando anche l’ultima posata fu asciugata e riposta, venne il momento delle domande e delle risposte.

    Fissando il fuoco del camino, Giuseppe si lascio sfuggire, in un grosso sospiro, un flebile «Grazie» che colse di sorpresa solo Hermann mentre a Greta la commozione saliva dal cuore inondandole gli occhi.

    «Ancora grazie di tutto quello che avete fatto per me.»

    «Non mi sembra che un piatto di minestra e due giorni di sonno in un pagliaio siano poi una così gran cosa. Abbiamo diviso con te quello che avevamo.»

    Ribatté Hermann con un largo sorriso confortato da Greta che sottolineava: «Eri in difficoltà ed era giusto darti una mano.» Tolse, poi, un fazzoletto da una tasca del grembiule e si asciugò gli occhi.

    «Vedete, io non sono tanto bravo a parlare perchè ho passato più tempo nella stalla con le mucche che sui banchi di scuola; può darsi che mi sbagli, ma sento che devo essere sincero con voi e dirvi almeno come sono capitato qui.»

    Lo interruppe Hermann: «Raccontaci quello che vuoi: per noi andrà benissimo.» Giuseppe annuì con gratitudine, prese fiato e cominciò a confessarsi, con la testa bassa come quando andava dal prete per Natale e Pasqua.

    «Mi hanno mandato a prendere freddo e fucilate in Russia e, alla fine della ritirata, mi hanno caricato su un treno che, invece di tornare a casa, avrebbe finito la sua corsa in un campo di prigionia. Capitarono dei piccoli incidenti lungo la ferrovia e, durante uno di questi, con altri compagni di sventura ci siamo dati a gambe levate; scappare per tornare a casa ci è sembrato meglio che morire prigionieri.»

    La tristezza si insinuò tra loro e riempì quell'attimo di silenzio in cui Giuseppe provò a domandarsi che fine avessero fatto gli altri; poi Greta si risolse a porre la domanda più delicata: «Adesso cosa farai ?»

    «Vorrei tornare a casa mia per vedere che cosa ha lasciato la guerra e se i miei stanno tutti bene; ma, dopo quello che mi è successo, ho paura che laggiù non se la passino molto bene: ho paura che sia accaduto qualche grosso pasticcio.»

    «Temo che tu possa aver ragione: da quello che siamo riusciti a sapere da alcuni nostri amici, se tu varcassi adesso la frontiera cadresti dalla padella nella brace.»

    «Come sarebbe a dire?» Giuseppe strinse gli occhi a fessura di salvadanaio e si mise con le braccia appoggiate sulle gambe, le mani giunte, le dita intrecciate e la schiena inarcata, come se quella fosse l’ultima mazzata del destino che era in grado di reggere.

    Greta sapeva, del resto era accaduto già altre volte, che Hermann amava prenderla alla larga nel dire una cosa mentre lei preferiva arrivare sempre dritta al cuore delle questioni: il suo istinto le suggeriva di intervenire e cambiare il copione, una volta tanto, perchè quel ragazzo era il ritratto sputato del figlio che avevano sempre desiderato.

    «Ascolta Giuseppe, ascoltami bene perchè non ripeterò una parola di ciò che dirò.»

    Hermann approvò la mossa della moglie prendendo la pipa sulla mensola del camino e ritornò a sedere, caricandola senza dire una parola; rinfrancata e stupita dall’energia che aveva messo nelle parole, Greta, scandendo le parole come se le stesse dettando, posò il suo sguardo in quello del ragazzo.

    «Noi siamo due vecchi contrabbandieri che sono diventati tali raggirando il prossimo in mezzo mondo e scappando dall'altra metà che ci inseguiva per ammanettarci; quando siamo arrivati quassù, ci siamo sentiti addosso tutti i nostri anni e abbiamo iniziato a pensare che, se eravamo scampati a un sacco di guai, in qualche modo dovevamo ringraziare Colui che lassù risiede: quando bussò alla nostra porta il primo disperato in fuga, capimmo quale fosse il dazio della benevolenza divina e ci siamo rimboccati le maniche per aiutare quanti più avessimo potuto. In questo modo, ci siamo procurati un grande numero di amici che ci informano sull’andamento delle cose nel mondo e, quindi, possiamo dirti con sicurezza che faresti meglio a fermarti qui da noi per qualche tempo.»

    «Scusate, signora, ma io continuo a non capire perchè...» Greta allora si spazientì.

    «Giuseppe, di là dalle montagne gli italiani si sparano addosso gli uni con gli altri perchè una parte vorrebbe tagliare i ponti col passato in nome di nuovi ideali, mentre un'altra si ostina a credere che quelli vecchi sono sempre validi e vanno difesi ad ogni costo, anche sparando addosso ai fratelli; senza dire nulla dei tedeschi che non si fidano più di nessuno: saresti per tutti un probabile traditore e finiresti al muro con una pallottola nella schiena senza il tempo di dire una parola.»

    Nuove lacrime rigarono il volto dell’anziana donna, il ragazzo cambiò posizione e si appoggiò allo schienale della sedia, le mani appoggiate alle cosce, la bocca chiusa e lo sguardo fisso nel vuoto: poi, si volse verso il vecchio con la pipa.

    Hermann e Giuseppe si fissarono a lungo negli occhi spiegandosi tutto quello che le parole non avrebbero potuto esprimere: poiché gli eroi sono tutti morti e lui non si sentiva dotato di stoffa sufficiente a diventarlo, scelse di restare lì offrendosi di accudire le signore del latte che riposavano nella stalla.

    Trascorsero i giorni e poi le stagioni una dopo l'altra e forse qualcosa in più ma, essendoci sempre una faccenda da sbrigare o una cosa nuova da imparare, Giuseppe non fu mai in grado stabilire quanto fosse durata la sua permanenza in quell'angolo di paradiso, lontano dalla cattiveria del mondo.

    Però, comprese immediatamente che era giunta l'ora di tornare a casa quando Hermann andò a chiamarlo per la cena intonando « Ai nostri paesi ce ne son delle più belle...».

    A tavola, gli spiegò come la situazione in Italia fosse ora meno confusa ma sufficientemente fluida da consentirgli di tornare al suo paese senza suscitare troppa curiosità: c'era una gran voglia di ricominciare a vivere scordandosi fame e paura e, quindi,

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