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Il segreto del Codex
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E-book242 pagine3 ore

Il segreto del Codex

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Info su questo ebook

Il professor Tommaso Perri e la sua amata Angélique Dubois sono alle prese con un nuovo mistero, legato ancora al libro prestato dall’antiquario Avraham ben David nel primo capitolo della saga. Un monaco dell’VIII secolo fugge dall’Oriente devastato dalle invasioni arabe e dall’ iconoclastia per salvare un libro e portarlo in Italia. Cavalieri templari si uniscono a una crociata inusuale che invece di combattere gli infedeli provoca il saccheggio di Costantinopoli. Il loro scopo segreto è recuperare le reliquie più sacre per la cristianità nascoste nella capitale dell’impero Bizantino. Il segreto del Codex si snoda su quattro linee temporali: l’VIII secolo, il periodo delle crociate, gli anni Venti e il presente, in una serie di indizi, indagini e pericoli che scavano nella storia e che sconvolgono ancora una volta la vita dei protagonisti.
LinguaItaliano
EditoreDialoghi
Data di uscita30 nov 2023
ISBN9788892794016
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    Anteprima del libro

    Il segreto del Codex - Misiti Nicodemo

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    © Utterson s.r.l., Viterbo, 2023

    Marchio Editoriale: Dialoghi

    Collana: Intrecci

    I edizione digitale: novembre 2023

    ISBN: 978-88-9279-401-6

    Progetto di copertina: Luca Verduchi

    Progetto grafico: Stefano Frateiacci

    Copertina: Pagina di San Luca con Sophia, per gentile concessione del Museo Diocesano e del Codex Arcidiocesi di Rossano-Cariati, fotografia di Nicodemo Misiti

    Immagini interne: Nicodemo Misiti

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari è del tutto casuale.

    www.edizionidialoghi.it

    Capitolo 1

    La morte è sempre in agguato

    Antalya (Turchia), marzo 1919

    Viaggiavano a piedi ormai da parecchi giorni, erano stanchi e affamati, al limite delle loro forze. Sopravvivevano con quel poco che riuscivano a trovare nelle campagne perché la fuga era stata così precipitosa che non aveva lasciato loro il tempo di procurarsi delle scorte di cibo.

    Erano partiti dal distretto di Konya e dopo aver superato le antiche rovine di Kilistra avevano dovuto percorrere pianure desolate con la paura di essere scoperti dai soldati nemici. Successivamente avevano attraversato le alte montagne del Tauro Occidentale senza attrezzature e abiti adatti, percorrendo gli impervi sentieri alla cieca con la speranza che Dio li avrebbe protetti e che alla fine sarebbero arrivati al porto di Antalya.

    La loro idea era di salire sull’ultima nave dei profughi, l’ultima possibilità per poter fuggire da quelle terre insanguinate e rifarsi altrove una nuova vita.

    Si muovevano evitando le strade principali, era troppo pericoloso avvicinarsi alle aree abitate in quella zona, ormai tutto il territorio era stato occupato dal nemico.

    Si trovavano molto lontani dal loro villaggio di Eryza o per lo meno da quello che ne restava. Ancora increduli di quello che era successo, sapevano però che nulla sarebbe più ritornato come prima che scoppiasse quella sporca guerra.

    Loro due erano probabilmente gli unici sopravvissuti solo perché, ritornando dai campi, il cavallo che tirava il loro carretto aveva perso un ferro e si erano attardati per sostituirlo.

    Si era fatta notte quando, da lontano, avevano cominciato a sentire le urla di disperazione e i colpi di arma da fuoco provenienti dal villaggio.

    Spaventati, avevano preferito rimanere nascosti in un boschetto e solo l’indomani mattina, dopo aver sentito allontanarsi una colonna di autocarri, avevano osato avvicinarsi all’abitato.

    Quello che videro li riempì di orrore. Nessuno era riuscito a sfuggire alla furia omicida dei soldati nemici, tutti erano stati uccisi, anche i vecchi, le donne e i bambini, e le case date alle fiamme.

    Si misero a cercare i loro familiari tra i cadaveri piangendo come disperati. Vagarono per ore in mezzo a quei corpi senza vita cercando di trovare i volti delle persone care ma molti erano quasi irriconoscibili, colpiti in volto a distanza ravvicinata.

    Non passò molto tempo che dovettero allontanarsi dal villaggio perché cominciò a udirsi il rombo di molti motori. Il nemico stava ritornando.

    Non restava che raggiungere il porto più vicino per cercare di imbarcarsi e andare lontano, magari in America, lì conoscevano delle persone che tempo prima erano emigrate e sicuramente li avrebbero aiutati. Ormai non avevano più nessun motivo per restare in quella terra maledetta.

    Fino a poco tempo prima, nel loro piccolo villaggio, la vita era proseguita placida, senza grandi novità, con le giornate di duro lavoro alle quali seguivano le feste consacrate da passare con la famiglia e gli amici.

    Anche se la gente di passaggio raccontava che nella capitale e in molte località erano cominciati dei tumulti che erano sfociati in vere e proprie battaglie, agli abitanti di Eryza queste notizie sembravano come se arrivassero da un altro mondo, non era certamente una cosa che poteva succedere dalle loro parti.

    Loro, infatti, si ritenevano al sicuro e solo in pochi erano fuggiti all’inizio del conflitto per paura delle rappresaglie, la maggior parte delle persone invece non credeva che la guerra sarebbe arrivata fino a lì.

    Col tempo tutti si resero conto che quella che era stata considerata solo come una serie di scaramucce tra pochi facinorosi si era trasformata in una vera guerra con soldati armati da ambo le parti.

    Da quando era iniziata, innumerevoli erano stati i massacri della popolazione civile su entrambi i fronti. Ma la gente riteneva che questo da loro non poteva succedere perché, anche se nei secoli l’abitato di Eryza era stato distrutto varie volte, dagli arabi prima e dopo dai turchi, da molto tempo vivevano in pace con i villaggi vicini.

    Col passare dei giorni però erano cominciate a transitare, lungo la strada che costeggiava il villaggio, lunghe colonne di profughi che fuggivano dalla linea del fronte con i pochi averi trasportati su vecchi carretti malandati e su animali da soma malnutriti che a stento riuscivano a camminare.

    Le donne e i bambini avevano negli occhi il terrore per le atrocità che avevano visto, tutti dicevano che ormai la guerra era persa e l’unica speranza era fuggire via e imbarcarsi per andare in Grecia o nelle Americhe.

    Nonostante i due popoli abitassero nella regione insieme ormai da molti secoli, solo per il fatto di appartenere al gruppo etnico sbagliato, si rischiava di essere arrestati senza motivo, torturati per rivelare dove erano nascoste le cose preziose e infine passati per le armi.

    Le uccisioni avvenivano quando uno dei due eserciti conquistava uno dei villaggi lungo la linea del fronte. Erano gli stessi vicini di casa che andavano a denunciare gli appartenenti all’altra etnia e aiutavano i soldati a scovarli nei loro nascondigli.

    Coloro che prima si scambiavano i doni per le rispettive festività e si aiutavano reciprocamente nel lavoro dei campi di colpo si trasformavano in carnefici ed erano i primi, assieme ai soldati, a entrare nelle case delle vittime per depredarle.

    Una furia cieca ormai pervadeva il paese e ogni eccidio commesso diveniva il motivo valido per fare altrettanto nei villaggi nemici.

    Dopo le stragi gli uomini armati si spostavano verso altre posizioni lasciandosi dietro i corpi dei morti nelle strade e l’orrore negli occhi dei sopravvissuti. Tutti si rinchiudevano nelle loro case e, passata la brutale euforia, si rendevano conto degli orrori commessi, ben sapendo che prima o poi la punizione sarebbe caduta su di loro.

    A volte accadeva infatti che il villaggio venisse riconquistato dall’esercito avversario ed ecco che la vendetta si scatenava ancora più feroce verso coloro che avevano aiutato il nemico.

    Non passò molto tempo che il terrore per l’inumana violenza si diffuse anche tra gli abitanti di Eryza, ma loro in fin dei conti erano solo dei poveri contadini, dove potevano fuggire?

    Alla fine, la maggior parte degli abitanti decise di rimanere, sperando che il loro piccolo mondo venisse risparmiato dalla follia della guerra e si continuasse a vivere come era stato per secoli nella regione, ma così non era avvenuto.

    I due proseguirono il loro cammino fino al tramonto poi si diressero in un canalone di un antico fiume ormai secco per cercare un rifugio per la notte.

    Erano stremati per il lungo viaggio, per il peso delle armi che avevano preso a dei soldati morti trovati lungo la strada e degli zaini che contenevano le poche cose che erano riusciti a salvare nel loro villaggio.

    «Guarda dietro quelle sterpaglie» disse Gheorghios «sembrerebbe l’ingresso di una grotta. È troppo tardi per proseguire, meglio fermarsi e riposare, raggiungeremo la costa domani all’alba».

    «Accendi la lampada» rispose Demetrios «vediamo se il posto è adatto».

    I due si addentrarono nella grotta e videro che alcune pareti erano dipinte con figure di santi dai colori blu, rosso e oro… un tempo sicuramente era stata una chiesa rupestre. I volti erano tutti orrendamente sfigurati come se una mano crudele si fosse abbattuta su quegli affreschi per cancellarne il ricordo.

    Gheorghios si chiese chi fosse stato nel passato a odiare così tanto quelle immagini da volerne cancellare i volti con tanta ferocia.

    Forse gli arabi o i turchi quando avevano conquistato la regione pensò l’uomo.

    I cunicoli continuavano verso l’interno della collina formando un dedalo di gallerie che in alcuni punti scendevano addirittura in profondità.

    Solo una era ostruita, delle grosse pietre sembravano essere state messe lì per occultare qualche passaggio ma quello non era il momento di indagare, dovevano pensare alla loro sopravvivenza.

    Erano da poco entrati nella grotta quando Gheorghios sentì delle voci vicino all’entrata, si girò verso l’amico e bisbigliò: «I turchi ci hanno seguiti fino qui, speriamo che se ne vadano via senza controllare dentro, spegni la lampada prima che si accorgano di noi».

    Ma i nemici entrarono nella grotta e videro le luci dei due fuggitivi.

    «Li abbiamo trovati» disse uno dei soldati turchi ai suoi compagni rimasti indietro davanti all’ingresso della grotta «sono intrappolati là in fondo e non ci sono altre vie di uscita».

    I due greci, vistisi scoperti, si misero a sparare e lo colpirono uccidendolo ma quelli che lo seguivano cominciarono a rispondere con i loro fucili.

    I colpi delle armi da fuoco rimbombavano negli angusti spazi della caverna e dopo un poco il rumore si fece così forte che non si poteva comprendere quanto uno cercava di dire all’altro.

    I turchi provarono a lanciare anche alcune granate che esplosero troppo lontano da dove erano i greci, provocando però la caduta di calcinacci e pezzi di roccia dal soffitto.

    I due fuggitivi, ben nascosti dietro alle rocce, erano comunque protetti e con i loro fucili impedivano ai turchi di avanzare.

    «Prendi della dinamite e posizionala all’imboccatura» disse il comandante della pattuglia turca a uno dei soldati «e voi uscite fuori, visto che non si vogliono arrendere faranno la fine dei topi. Abbiamo già perso tempo e uomini per due schifosi greci e voglio farla finita immediatamente».

    «Credo che vogliano fare saltare l’entrata della caverna e chiuderci in trappola» disse Demetrios «non possiamo restare qui dentro, hai visto cosa è successo quando sono esplose le granate? Se quelli fanno saltare l’ingresso della grotta con la dinamite qui crollerà tutto e finiremo schiacciati. Meglio tentare una sortita adesso che ancora non sono pronti, tu coprimi che cerco di arrivare all’esplosivo prima che lo facciano esplodere».

    Dette queste parole uscì allo scoperto e si mise a correre sparando contro i soldati che si trovavano all’imboccatura della grotta. Ma, mentre alcuni continuavano a posizionare gli esplosivi, gli altri risposero al fuoco e lo colpirono mortalmente.

    Gheorghios, a questo punto, non aveva più nulla da perdere, si lanciò avanti sparando un colpo dietro l’altro uccidendo due dei soldati ma gli altri fecero fuoco e riuscirono a ferirlo.

    Trascinando la gamba, dalla quale usciva copiosamente sangue, si spostò verso le rocce che si trovavano più all’interno e cercò di annodare un fazzoletto per fermare l’emorragia.

    I turchi si ritirarono tutti fuori dalla caverna e poco dopo aver piazzato le cariche un boato spezzò il silenzio della notte.

    La forza dell’esplosione fece crollare grossi massi che riempirono la grotta e Gheorghios venne ferito gravemente in diverse parti del corpo.

    Stava ormai quasi per svenire quando notò che dietro di sé era caduta la parete di pietre nella caverna e alla luce fioca della sua lampada vide che era piena di anfore.

    Una delle quali, danneggiata dal tempo o dalla forte esplosione, si era rotta e si vedevano dentro degli oggetti d’oro.

    Che ironia della sorte disse tra sé proprio adesso che sto per morire ho scoperto un tesoro che avrebbe potuto cambiare la mia vita.

    La vista cominciò ad appannarsi, si rannicchiò, prese tra le mani la croce che aveva appesa al collo e cominciò a pregare perché sapeva che ormai gli restavano pochi minuti da vivere.

    «Ricordati, Signore, che sto lasciando questa vita: accogli l’anima del tuo umile servo nella Tua misericordia. Ricordati, Signore, delle nostre madri, dei nostri padri, fratelli, sorelle, bimbi, di tutti coloro che abbiamo amato e che sono morti in questa folle guerra e perdona i loro peccati. Abbi pietà di me giacché tu sei Iddio buono e misericordioso».

    All’esterno della grotta, l’aria intorno alla zona dell’esplosione era ancora piena di polvere quando dalla strada arrivarono le camionette dei soldati italiani della vicina base militare.

    «Capitano Morelli, l’esplosione proveniva da quel canalone in fondo alla collina» disse il soldato rientrato dal sopralluogo.

    «I turchi cosa hanno detto? Perché hanno fatto tutto questo casino a quest’ora della notte?» chiese il capitano con aria annoiata, gli si leggeva in faccia quanto in quel momento desiderasse essere altrove.

    Automaticamente si mise a cercare il portasigarette nel taschino ma si ricordò di averlo lasciato in Italia. Da quando il medico gli aveva proibito di fumare, il desiderio ritornava ogni volta che qualcosa andava storto e, naturalmente, essere svegliato in piena notte per una esplosione nel territorio sotto il suo controllo era proprio uno di quei casi.

    «Si trattava di due greci che stavano scappando e poiché non riuscivano a stanarli hanno pensato bene di fare saltare l’entrata della grotta per intrappolarli, ma hanno usato una quantità tale di esplosivo che è venuto giù tutto il costone» rispose il soldato.

    «Questo non ci voleva proprio, la zona del canalone era una delle aree più interessanti che dovevamo esplorare ma ora sarà piena di detriti. Vuol dire che ci dovremo pensare in un secondo tempo. Ma adesso dai ordine agli altri di ritornare alla nostra base, per stanotte il danno è stato fatto e non possiamo fare altro» concluse il capitano.

    «Sissignore» disse il soldato sull’attenti prima di andare via verso gli altri militari che lo stavano aspettando impazienti a bordo della camionetta.

    * * *

    Istanbul, settembre 2018

    «Mi hai proprio deluso, Selim, eppure ti consideravo un tipo in gamba, il migliore dei miei uomini e invece hai miseramente fallito».

    La voce dell’uomo era ancora malferma ma gli occhi fissavano gelidi ed esprimevano una forza enorme. «Ogni volta sei riuscito a fartelo scappare mentre lui era in giro per tutto il Mediterraneo, era così difficile recuperare il libro?».

    «Signore» disse l’uomo legato alla sedia, il volto tumefatto per le percosse e il labbro inferiore sanguinante «i servizi segreti francesi e quelli israeliani lo hanno aiutato, non era possibile avvicinarsi a lui senza essere scoperti. Mi dia almeno un’altra possibilità per rimediare, sono sicuro che questa volta non fallirò».

    «Selim, sei sempre stato il mio pupillo, il più bravo dei miei agenti ma tu lo capisci che se ti perdonassi e reintegrassi dopo che hai fallito mi considererebbero un debole e tu sai che l’organizzazione non ama i deboli, persino io devo dare conto a qualcuno».

    Come finì questa frase fece un cenno all’uomo che si trovava alle spalle del prigioniero e questi con un rapido movimento gli torse il collo uccidendolo.

    «Ricominciamo da dove il nostro lavoro è stato interrotto. Trovatemi quell’uomo, il libro e qualsiasi cosa sia riuscito a scoprire» disse il vecchio guardando negli occhi il gruppo di persone che gli si era posto intorno.

    Anche se quegli uomini erano dei duri, gente che proveniva dai reparti speciali dell’esercito, mercenari di tutte le guerre in Medio Oriente, il potere del loro capo era tale da incutere in loro timore e rispetto. Non si trattava solo dell’uomo più ricco e potente della città ma anche di quello più pericoloso.

    * * *

    Roma, settembre 2018

    «Ci è giunta voce che un professore di Napoli sia alla ricerca di qualcosa che non possiamo permettere venga scoperta» disse l’uomo anziano rivolto al più giovane.

    «Signore ho messo in allerta alcuni nostri amici ma a oggi sappiamo che non ha nulla in mano e, se mi consente, credo che difficilmente il luogo in questione verrà mai trovato» rispose questi.

    «Se lo fosse, il potere di quell’oggetto causerebbe molti problemi e non solo a noi. Mi raccomando, metta sotto sorveglianza le persone che possono costituire un pericolo e mi tenga informato di ogni sviluppo. Si ricordi sempre che nel caso di situazioni estreme dovremo ricorrere a rimedi estremi, non so se sono stato chiaro» concluse l’uomo.

    «Certamente signore, come ordina così sarà fatto» disse il giovane prendendo congedo.

    Uscito dall’ufficio del suo superiore si diresse verso la stanza che gli era stata assegnata. Chiusa a chiave la porta, aprì una piccola cassaforte a muro celata dietro un quadro, prese la pistola col silenziatore che era all’interno e la mise nella sua borsa porta documenti.

    Non era la prima volta che riceveva l’ordine di controllare chi poteva diventare un pericolo per l’organizzazione e qualche volta era arrivato anche a uccidere per evitare che ciò avvenisse.

    C’erano cose che dovevano essere protette perché se usate in maniera impropria avrebbero potuto minare alla base il loro stesso potere.

    Era comunque stato addestrato per ogni evenienza e non si era mai chiesto il motivo per il quale gli veniva dato un ordine. Del resto, sapeva che il gruppo di cui faceva parte non si poneva alcun limite nelle operazioni attuate.

    Da quando lo aveva trovato in un orfanotrofio e lo aveva fatto entrare nell’Istituto, il suo superiore era stato per lui come il padre che non aveva mai avuto e l’organizzazione era diventata la sua famiglia. Doveva tutto a lui, le cariche, il potere, la bella casa nel centro di Roma, in cambio gli aveva chiesto la sua fedeltà senza mai commentare gli ordini, solo obbedire.

    Prese dalla tasca un solidus d’oro con il volto dell’Imperatore Costantino, che gli era stato donato dal suo mentore, e cominciò a passarselo tra le dita.

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