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Costantino III. Rex Britannorum
Costantino III. Rex Britannorum
Costantino III. Rex Britannorum
E-book371 pagine4 ore

Costantino III. Rex Britannorum

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Info su questo ebook

407 d.C. - la Britannia è ormai nel caos, abbandonata da un Impero d'Occidente
instabile e assediato da orde di barbari che ne minacciano i confini.
Esasperato, il popolo reclama a gran voce una guida dopo la morte di
Magno Massimo, l'ultimo grande a ergersi contro la dinastia Teodosiana.
Le truppe elevano diversi soldati alla porpora, facendoli cadere poco dopo.
Solo uno di loro, Costantino III, riuscirà a unire tutti i Britanni sotto
di sè, coinvolgendoli nel suo progetto di riforma totale di un impero
ormai morente e destinato a scomparire.
Dai nebbiosi e oscuri mari del Nord, Costantino approderà oltre la Manica,
sconvolgendo l'impero nel tentativo di fare della Britannia l'epicentro
di un mondo nuovo, fondato sulle ceneri di Roma.
LinguaItaliano
Data di uscita23 feb 2019
ISBN9780244162412
Costantino III. Rex Britannorum

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    Anteprima del libro

    Costantino III. Rex Britannorum - Patrizio Corda

    RINGRAZIAMENTI

    Costantino III

    REX BRITANNORUM

    Patrizio Corda

    A mia sorella

    I

    Figli di Roma

    Eboracum, Marzo 374 d.C.

    La nebbia coprì del tutto l’orizzonte, posandosi come un monolite irremovibile sul prato ancora coperto di brina.

    Lentamente, delle sagome scure emersero lentamente dai banchi di foschia, annunciate dal loro passo cadenzato e uniforme prima ancora che dai propri contorni. La legione si mostrò così, come una teoria di fantasmi sorti dalle acque profonde e inesplorate che circondavano l’isola, agli abitanti di Eboracum.

    Volti ricoperti di cicatrici, barbe incolte, rughe profonde come i solchi nei campi preparati per il raccolto di pochi mesi benevoli.

    Il tintinnio delle armi che pendevano ai fianchi dei soldati come un’eco, una reiterazione del loro arrivo sentenziato da quell’incedere. Silenziosi, granitici.

    Gli abitanti della città e fortezza Romana risposero a loro volta con un accorato, rispettoso e grato silenzio. Non un grido, non un’acclamazione o un dono. Solo un tacere colmo di significato. Nel mezzo di quel fiume umano, come un’appendice purulenta a rovinare l’armonia e l’ordine di quella marcia stava un gruppo enorme di ostaggi di guerra. Capigliature irsute, barbe lunghissime, occhi truci e fisici giganteschi ricoperti di poche pelli e stracci.

    Pitti.

    Il peggiore dei popoli che popolava le lande oscure e desolate del Nord della Britannia, aldilà del Vallo di Antonino. Quei barbari non avevano fatto altro che seminare morte e distruzione con ogni loro discesa, al punto da richiedere necessario l’intervento delle truppe stanziate ovunque in tutta l’isola. E quello era stato il risultato.

    Le armate Romane avevano massacrato tutte le tribù che si erano trovate davanti, e ora ritornavano nella Britannia Romana, la parte civilizzata dell’isola, con appresso un bottino ingente di vite umane che avrebbero fruttato all’impero un consistente introito con la loro rivendita ai mercati degli schiavi.

    Con la sua toga senatoriale e il mantello cinto fino a coprirsi il naso, Flavio Claudio Ambrosio tenne lo sguardo fisso sui militari che tagliavano in due la città con il loro passaggio, reprimendo a stento i brividi per il gelo reso ancora più insopportabile dall’umidità del mattino.

    Per fortuna, ancora rimanevano le legioni. Altrimenti la Britannia intera sarebbe finita alla mercé di quelle genti del tutto avulse alla civiltà, avvezze unicamente agli eccidi e agli stupri.

    Per la verità, nelle riunioni cui aveva sempre partecipato in seno al palazzo di città si era sempre domandato, estendendo i suoi dubbi anche agli altri spettabili membri di quel consesso, se i monumentali valli costruiti dagli imperatori Adriano e Antonino nei secoli precedenti sarebbero stati ancora sufficienti a contenere le offensive di quei popoli. Nondimeno, oltre ai Pitti anche i Sassoni avevano iniziato a premere insistentemente, spesso sbarcando sulle coste dell’isola.

    Sembrava che quelle grandiose opere del passato, quei muri immensi costellati di fortilizi non potessero più reggere, come destinati a essere soverchiati dalle maree umane che si narrava albergassero oltre i loro confini, rintanate tra monti e foreste.

    Tutti avevano sempre negato la prospettiva catastrofica di un’invasione, ma le notizie che giungevano dalle altre regioni imperiali non facevano ben sperare. L’impero che un tempo aveva avuto confini sicuri, tanto ampi da poter vedere il sole nascere e morire entro di essi, doveva ora difendersi dalle orde barbariche che erano emerse dalle terre più remote.

    E non si trattava solamente di Germani.

    Aveva voluto presenziare al passaggio della legione, degli invincibili soldati di Roma, l’Urbe di cui lui si sentiva pienamente parte, per capire. Voleva vedere con i suoi occhi le forze cui era affidata la salvaguardia dell’impero, del mondo in cui viveva.

    Eppure, pur nella vittoria del momento, scorse volti stanchi, provati dalle continue privazioni. Spesso incrociava gli sguardi dei veterani, scorgendo in essi il desiderio di arrivare quanto prima al congedo per fuggire da quella vita fatta più di stenti che di onori e riconoscimenti. Non gli parve affatto un bello spettacolo.

    Gli pareva di vedere un padrone stanco e insofferente mentre cercava di domare una bestia instancabile e furiosa, un cavallo selvatico impossibile da sellare e ammansire in alcuna maniera.

    I Pitti tacevano per pochi istanti, poi tornavano a dimenarsi, a lanciare versi incomprensibili cercando di liberarsi dai nodi, fino a che qualche soldato non li colpiva riportandoli alla calma.

    Non poteva esserci spazio nell’impero per bestie simili.

    Aveva visto abbastanza.

    Il gelo gli stava facendo perdere la sensibilità alle dita delle mani, penetrandogli nelle tempie con fitte lancinanti mentre gli occhi a malapena aperti gli si rinsecchivano sempre più.

    Aveva sperato di assistere a un trionfo, e invece aveva visto una mesta processione di militari assai poco motivati e di uomini – se uomini li si poteva definire – destinati ad essere poco più che oggetti, carne da macello.

    Si domandò fino a che punto quelle posizioni sarebbero rimaste tali e se mai si sarebbero invertite. La prospettiva gli procurò un altro brivido, ben più profondo, che gli fece capire di essere giunto al limite della sopportazione.

    Si voltò allora dirigendosi spedito verso la sua abitazione. Aveva sottratto fin troppo tempo a ciò che sarebbe dovuta essere la sua vera priorità. Sua moglie era giunta ormai al momento topico della gravidanza, e probabilmente avrebbe dato vita al suo primogenito quello stesso giorno.

    E lui non si sarebbe perso quella scena per nulla al mondo.

    II

    Il rogo

    Adrianopoli, 9 Agosto 378 d.C.

    A Valente parve che la fine dei tempi fosse giunta.

    Egoisticamente si compiacque di essere in punto di morte, così da poter evitare di vedere tutto quanto finire, disfarsi, ridursi dalla magnificenza più fulgente a un cumulo di cenere.

    Cercò di muovere la mano destra per provare a tastarsi la ferita al fianco che ancora sentiva sanguinare copiosamente, ma riuscì a malapena a muovere le dita. Vi rinunciò mestamente.

    Non avrebbe mai pensato che sarebbe finita così.

    La battaglia decisiva per difendere i confini dell’impero era stata persa miseramente. E le colpe erano unicamente sue.

    Era stato lui a pensare di poter soggiogare i Visigoti, aprendo loro le porte dell’impero per farne poi schiavi e braccianti.

    Era stato lui ad affidare la gestione dei profughi e le operazioni militari a Lupicino, accettando che poi questi cercasse di uccidere a tradimento il capo barbaro Fritigerno. Il fallimento di quella congiura aveva scatenato la furia dei Visigoti, che allora si erano sollevati in armi contro Roma.

    E sempre lui era stato d’accordo con il muovere le truppe contro il nemico senza aspettare che l’imperatore d’Occidente, Graziano, venisse in suo soccorso così da poter combattere il nemico in notevole superiorità numerica.

    Annaspò faticosamente, con respiro roco, mentre sentiva il sapore forte e nauseante del sangue riempirgli la bocca.

    E così le sue forze, le forze dell’impero, erano state sbaragliate da quella orda di Visigoti che era parsa invincibile. Anche quando vi era stata la possibilità di ritirarsi e salvare migliaia di vite in attesa dell’arrivo di Graziano, aveva deciso di insistere, di ingaggiare battaglia nella speranza di trionfare. Lui, e basta.

    Il suo ego smodato l’aveva perduto. Questo era.

    Quando era rimasto ferito era stato immediatamente portato nella sua tenda. Ma poi i Visigoti, dopo aver sterminato quasi la totalità dei suoi uomini erano giunti pure lì. L’aveva capito, seppure in parte incosciente, quando aveva visto medici e servi fuggire senza dirgli nulla, mentre aveva avvertito un calore crescente tutt’attorno.

    I barbari, senza neppure sapere chi vi fosse dentro, avevano appiccato il fuoco attorno alla tenda. Che stolti!

    Quanto bottino avevano appena perso! Per non parlare dell’onore nel poter issare la testa dell’augusto su una picca!

    E lui, Valente, il signore di metà del mondo, aveva perso contro simili ingenui. Aveva lasciato che decine di migliaia di valorosi soldati Romani venissero uccisi, fatti a pezzi e poi vilipesi da quell’orda di bestie che non avevano nulla di umano.

    Che strana sensazione era, in quel frenetico sovrapporsi di immagini presenti e passate, provare i sudori freddi che facevano da anticamera al trapasso mentre tutto quanto attorno ardeva inesorabilmente.

    Valente rise. Eppure piangeva.

    In pochi istanti si rese conto di non sentire più le gambe.

    Il suo corpo ormai lo abbandonava, e si chiese se una volta morto il Signore non l’avrebbe abbandonato a sua volta, non potendolo perdonare per la sua follia.

    Aveva bramato di essere il fautore di una delle più grandi vittorie militari della storia, e invece sarebbe stato rimembrato dai posteri come il responsabile di uno sterminio vergognoso e insensato.

    Forse, addirittura della fine del più grande impero di sempre.

    E per giunta, il suo odiato collega Graziano ne sarebbe uscito come un eroe incompreso, senza colpe davanti a quella catastrofe.

    Ora i Visigoti, e con loro tutte le altre popolazioni barbare, avrebbero capito che Roma non era invincibile. Non più.

    Se declino e fine di tutto sarebbe stato, la colpa sarebbe stata per sempre sua. E di nessun altro.

    Urla incomprensibili gli giunsero da fuori. Grugniti animaleschi, grida di gioia gutturali, quasi più simili a ululati che a parole.

    Il mondo sarebbe forse stato di questa gente, da quel giorno in poi?

    Quale disgrazia!

    Valente vide tutto avvolto dalla nebbia. Pensò prima che fosse il fumo, poi le lacrime che non riusciva più a trattenere per la vergogna, ma poi capì che semplicemente stava morendo dissanguato, e che non aveva più forze.

    La sua ora era quasi giunta.

    Avrebbe voluto togliersi la vita da sé, compiendo un ultimo gesto che gli ricordasse che era un Romano, il primo dei Romani, e in quanto tale una certa dignità e morale gli erano imposte.

    Ma non poteva più. Era già paralizzato. Ridotto a una larva.

    Una fine all’insegna dell’estrema ignominia era stata decisa per lui, come punizione per la pazzia che aveva generato le sue azioni.

    E se lo meritava, in fondo.

    Chissà se tutte quelle persone che aveva scelto di elevare ai più alti incarichi nella preparazione di quella battaglia si erano salvate.

    Avrebbe voluto provare rancore verso di loro, ma troppo aveva fatto in prima persona per poter scaricare anche una sola colpa su qualcuno che non fosse lui.

    Solo lui.

    La tenda prese a bruciare. Le fiamme stavano divorando tutto.

    Non aveva più forze. A quel punto, chiuse gli occhi.

    Che lo divorassero, quelle fiamme.

    E che purificassero la sua anima dai peccati che aveva compiuto.

    Il crepitio, assieme alle urla esterne, sovrastarono tutto.

    Prima di rimettere la sua anima a Dio, pregò che Roma e l’impero tutto non patissero il suo stesso destino.

    III

    Sogni

    Eboracum, Giugno 380 d.C.

    «Allora vuoi diventare un legionario, ragazzino?»

    Costantino sgranò gli occhi di un celeste cristallino e annuì vigorosamente scuotendo i riccioli corvini. Tese senza alcun imbarazzo la mano. Il soldato si risollevò e rise.

    «Vuoi questa?» fece indicando la spada che teneva al fianco. Costantino annuì ancora, elettrizzato.

    «E va bene» fece questi, che si chiamava Graziano, porgendogliela.

    Scoppiò a ridere mentre osservava il bambino faticare anche solo a tenerla tra le mani, con la punta che strisciava sul terriccio.

    «Ma è pesantissima!» si lamentò.

    «È ancora un po' presto perché riusciate già ad impugnare un’arma, però la buona volontà è sempre un ottimo punto di partenza» s’intromise l’altro legionario, il cui nome era Marco.

    I due avevano fattezze del tutto opposte: alto, robusto e dalle spalle larghe Graziano, con i capelli radi e il naso forte, mentre Marco risultava più minuto, non meno muscoloso ma con tratti somatici eleganti resi appena più ruvidi dai folti ricci bruni e da una barba fitta e ispida che gli ricopriva buona parte del volto rubizzo.

    Avevano preso in simpatia quei due ragazzini che ogni tanto svicolavano dall’attenta vigilanza dei precettori per intrufolarsi nel loro campo, immerso in un bosco di querce secolari.

    L’atmosfera magica di quel fortilizio incastonato nella natura selvaggia doveva indubbiamente avere un ascendente su dei ragazzini così giovani. E se Costantino era già noto ai più, essendo figlio di un membro del Senato e rampollo di una nobile famiglia, proprio non riuscivano a capire chi fosse l’altro bambino, magro e dalla pelle lattea, con sottili occhi grigiastri da felino e i capelli lunghi del colore della neve.

    Se ne dicevano tante, sugli albini. Che fossero figli di unioni proibite tra vergini e spiriti delle foreste, o che fossero posseduti dal demonio e capaci di stregonerie pericolose e oscure.

    Inoltre, quel suo atteggiamento serioso e il suo silenzio lo rendevano molto meno affabile di Costantino.

    Marco s’inginocchiò davanti a lui. Il bambino lo fissò senza dar cenno di emozione.

    «E tu? Anche tu vuoi essere un legionario come il tuo amico?»

    «Sì».

    Nient’altro. Marco corrugò la fronte.

    Era proprio un bambino strano.

    «Eppure non sembri un pari rango del tuo compagno. Qual è il tuo nome?» intervenne Graziano.

    «Vortigern. Mi chiamo Vortigern».

    Dall’espressione dura che questi gli rivolse, i due capirono che il piccolo doveva essere figlio di gente umile, e non solo per la foggia dei suoi vestiti, ben più misera delle raffinate vesti di Costantino, che intanto lo guardava con compatimento.

    Era senz’altro figlio di Britanni e non di Romani. E decisamente non aveva apprezzato il loro cenno al suo lignaggio.

    «Dai, prendila anche tu!» lo incoraggiò Costantino.

    Vortigern gli rivolse un sorriso appena accennato, e a differenza dell’amico riuscì a tenere ben salda la spada, abbozzando addirittura dei fendenti tirati per aria, seppur goffamente.

    «Non male!» si congratulò Marco, cercando di rimediare all’affermazione infelice che aveva fatto prima il compagno.

    Il ragazzino non gli rispose. Sembrò perso nei suoi pensieri, mentre fissava la sua mano che teneva in pugno la spada. Poi, come se nulla fosse, fissò il legionario e gliela riporse.

    «Ci potete portare a fare un giro?» domandò Costantino.

    Quel luogo gli sembrava fantastico. Le armi, i cavalli, i soldati in marcia, la fortificazione stessa con i suoi blocchi di pietra e le palizzate…era un sogno!

    Quanto gli sarebbe piaciuto un giorno essere anche lui un membro delle gloriose e invincibili legioni di Roma!

    «Claudio Flavio Costantino!»

    Ambrosio irruppe come una furia, coprendo la distanza che lo separava dal figlio a grandi passi. Lo afferrò con rabbia per il polso e lo strattonò tirandolo a sé mentre questi si lamentava.

    Marco e Graziano s’irrigidirono all’istante. Non volevano problemi.

    «Senatore…»

    Ambrosio sembrò accorgersi di loro solo in quel momento.

    «Vi chiedo di perdonarmi, soldati. Purtroppo questo ragazzino mi fa penare ogni giorno di più» fece lanciando un’occhiata di fuoco a Costantino, che abbassò lo sguardo imbarazzato.

    «Ma no, i ragazzi non avevano intenzione di disturbarci…ci stavano facendo giusto qualche domanda».

    «Domande che dovrebbero fare quando sono a lezione, sempre ammesso che non le stiano saltando di proposito!»

    «Padre, io…»

    «Silenzio! Ne parleremo una volta a casa. Vi chiedo ancora di perdonare la loro irruenza. Potete pure tornare alle vostre esercitazioni».

    I soldati annuirono, accennando un inchino.

    «Andiamo, Vortigern. Vieni anche tu con noi, forza».

    Il ragazzo dai capelli da vecchio rivolse un ultimo, freddo sguardo ai due uomini, per poi perdersi a scrutare i bastioni del fortilizio.

    Parve attratto dal volo solitario di un’aquila che attraversava in quel momento il cielo nuvoloso sopra di loro.

    Poi, senza dir nulla, prese la mano di Costantino e si voltò.

    IV

    I gemelli

    Caledonia, Dicembre 385 d.C.

    Nella fittissima foresta di betulle, in cui la nebbia serpeggiava tra tronchi e rami nella notte, apparve un impercettibile bagliore.

    Al riparo da qualsiasi occhio, in una minuscola radura era un altare di pietra, costituito da un blocco monolitico enorme di un grigio metallico. Tutt’attorno, in cerchio, alte pietre gigantesche, come pilastri senza più un tetto da sorreggere.

    Sull’altare crepitava un fuoco, che andava facendosi sempre più grande. Poche figure incappucciate presenziavano davanti a questo. Un uomo dall’età indefinita, dalla barba bianca e lunghissima, continuava a gettarvi sopra rami secchi e foglie, ravvivando le fiamme.

    Mormorava formule tanto arcaiche da sfuggire alla comprensione di quasi tutti i presenti, mentre con brevi gesti fulminei raccoglieva le ceneri dal fuoco e le spargeva tutt’attorno.

    I suoi occhi erano chiusi, il suo corpo dondolava come se un vento solo a lui conosciuto lo reggesse e lo facesse levitare secondo le sue volontà.

    Aprì le braccia e due inservienti, anche loro incappucciati gli porsero ciò che aveva richiesto. Il cuore, ancora caldo, di un cervo.

    Si voltò poi verso le due figure più distanti, che scoprirono i loro volti. Un uomo e una donna, ancora giovani, si fecero avanti, ciascuno di loro con un bambino in braccio.

    Neppure il gelo e il continuo formulare del vecchio druido sembravano poterli svegliare, anzi. Quell’atmosfera spettrale sembrava aver conciliato loro il sonno, infondendo in essi una calma imperturbabile.

    I piccoli furono posati, mentre le fasce venivano loro tolte lasciando i corpicini del tutto nudi, sull’altare di pietra, poco distanti dal fuoco che emanava fugaci bagliori bianchi e bluastri.

    Il druido posò su ciascuno di loro le mani scheletriche.

    «Breanainn…» sussurrò roco.

    I due giovani genitori rimasero in silenzio.

    «…Maewyn».

    Al pronunciare i loro nomi, i bambini iniziarono simultaneamente a piangere, di un pianto dirotto e incontrollabile, come se qualcosa, oltre ad averli svegliati bruscamente dal loro sonno, li stesse turbando nel profondo.

    Il druido allora prese il cuore del cervo e lo strizzò con la pressione delle mani, fino a che il sangue scuro e caldo che ne uscì non inondò completamente i corpi dei due infanti.

    La madre dei piccoli si coprì la bocca con la mano per la paura, mentre il marito la stringeva a sé cercando di rassicurarla.

    Era un rito pericoloso, un rito oscuro, ma era ciò che era sempre stato fatto tra la loro gente, per secoli. Anche quando i popoli del Sud erano giunti nelle loro terre, e li avevano quasi del tutto sterminati. Ancora in quei giorni si raccontava della furia di Roma, la terra natia dei conquistatori che quasi avevano cancellato dalla terra e dalla memoria di tutti gli antichi e sacri riti druidici cui tutti loro erano stati introdotti a pochi giorni dalla nascita.

    Era quello il saluto alla vita per quei bambini, nel nome dei loro avi.

    Il druido alzò progressivamente la voce fino ad urlare a pieni polmoni, e un refolo di vento attraversò sibilando le rocce tutt’attorno, insinuandosi ovunque per la foresta.

    Raccolse da una sacca un piccolo fagotto di pelle, e lo aprì spargendone poi il contenuto polveroso sulle fiamme.

    Queste si ingigantirono a dismisura arrivando a ruggire mentre si sollevavano nel cielo stellato superando in altezza anche le pietre più alte. I riverberi rossastri delle lingue di fuoco danzarono ovunque, presenze spiritiche arrivate tra gli uomini dal loro mondo occulto. Non era per nessuno di loro la prima volta che assistevano a un rito simile.

    Ma ogni volta la magia prendeva il sopravvento, prostrando gli animi e facendo sì che tutti si abbandonassero, recitando preghiere sommesse e cantilenanti, alla sacralità del momento.

    Le fiamme avvolsero tutto, fino a nascondere alla vista i piccoli che intanto avevano smesso di piangere e il vecchio druido, che levò le braccia al cielo e con voce straziata continuò a urlare alle stelle le sue formule, fino a che un bagliore accecante non piombò sull’altare, togliendo a tutti la vista per alcuni istanti mentre il rombo del suo impatto si espandeva, scemando in breve tempo.

    Qualche attimo dopo, una fitta caligine dall’odore pungente si posò sul suolo umido e fresco, rivelando a poco a poco delle sagome.

    «Eogan vi è riuscito?» mormorò la donna, trepidante.

    «Sì» la rassicurò il marito stringendola ancora un poco. «Vi è riuscito». Un lampo d’orgoglio gli balenò negli occhi verdi mentre le nubi si diradavano definitivamente.

    «Ora anche i nostri due amati figli saranno dei druidi. Proprio come noi, e i nostri padri prima di noi».

    Il vecchio era a terra, stremato, rannicchiato su se stesso come a umiliarsi davanti alla maestosità di ciò che si era appena compiuto. Sull’altare il fuoco si era magicamente spento, lasciando di sé solo le braci a malapena fumanti.

    Non vi era traccia di sangue sulla pietra.

    Infine, per ultimi riapparvero i due bambini, entrambi distesi e nuovamente assopiti, con le espressioni dolci e serafiche sui volti perfettamente identici.

    L’uomo e la donna si recarono all’altare, mentre le figure incappucciate soccorrevano il druido Eogan e lo sollevavano cercando di aiutarlo a riaversi dopo quello sforzo sovrumano.

    Sotto le stelle della Britannia più remota e selvaggia, i due bambini furono rivestiti dai genitori, e poi issati al cielo e così consacrati agli spiriti immortali che erano ovunque attorno a loro, e che avrebbero servito fino alla fine delle loro vite.

    V

    Predestinato

    Costantinopoli, Gennaio 386 d.C.

    «Ho grandi piani per lui».

    Stilicone osservò in tralice Teodosio, l’imperatore d’Oriente, mentre assieme vegliavano sul piccolo Onorio, il figlio dell’augusto che dormiva serenamente, l’ovale paffuto del viso appena lambito da un raggio di sole pomeridiano.

    A neppure due anni, il bambino era già stato nominato console.

    Quella carica nobile e secolare, che richiedeva una vita di sacrifici e strategie ai più per giungervi, gli era stata data in dono, senza tante riflessioni, dal padre. Indubbiamente un gesto politico volto a rafforzare quella che doveva, nei piani di Teodosio, diventare una dinastia indissolubilmente unita al potere assoluto.

    Il piccolo sarebbe cresciuto a corte, nel cuore dell’impero d’Oriente, e avrebbe imparato da subito come muoversi e come interpretare gesti e intenzioni di chiunque gli stesse intorno.

    Ma Stilicone era un barbaro. Il più potente barbaro dell’impero, ma pur sempre un gradino sotto a qualsiasi Romano che avesse del sangue puro. E neppure i suoi già immensi meriti militari e la sua lealtà a Roma avrebbero mai potuto elevarlo a simili posizioni.

    Era come se, pur essendo una figura importante - anzi vitale date le turbolenze ai confini – di quel mondo non gli fosse consentito di esserne del tutto parte, sempre estromesso dai giri che veramente contavano e cui lui ambiva a causa delle sue origini.

    Bastava menzionare queste perché il suo valore, la sua arguzia militare, il suo spirito puro e la sua onestà passassero in secondo piano, lasciando a qualcun altro gli onori della ribalta.

    Come nel caso di quel bambino grassoccio, dai capelli neri lunghi e un po' disordinati, che riposava beatamente su un fianco mentre lui e Teodosio lo rimiravano.

    Indubbiamente Onorio aveva preso dal padre, sia nel colore dei capelli che nella pelle chiara e nel viso dai lineamenti morbidi e gentili. Su Teodosio poco c’era da dire: la sua carriera militare parlava da sola, e anche sul trono si era immediatamente saputo imporre con la sua intelligenza politica.

    Lui aveva meritato la porpora. Quel bambino, invece?

    Stilicone proprio non riusciva a spiegarsi perché un bambino ancora incapace di parlare fosse stato appena fatto console a scapito di decine, centinaia di uomini insigni e meritevoli.

    Uomini come lui.

    Ma a questo punto lui doveva curarsi unicamente delle manovre militari dato che politicamente, doveva rendersene conto, valeva meno di zero. Teodosio, scaltro com’era, aveva capito quanto fosse delicata la situazione nell’impero. I Visigoti che avevano distrutto anni prima l’esercito di Valente erano stati fatti stanziare lungo il Danubio, non senza aver temuto a ragione che ripetessero ciò che avevano fatto nella battaglia di Adrianopoli.

    In Britannia, poi, le legioni avevano eletto un usurpatore, quel Magno Massimo che si era spinto fino in Gallia e a causa del quale, durante uno degli scontri avvenuti in seguito, era perito l’augusto d’Occidente, il giovane Graziano.

    Quando l’impero era stato diviso in due parti, questa era parsa la scelta più saggia per riportare l’ordine in un panorama politico ed economico che stava attraversando grossi cambiamenti.

    Eppure, per quanto grandi fossero stati gli sforzi compiuti, nuove minacce continuavano ad emergere dai confini, e non solo dall’esterno, come testimoniava appunto l’ascesa di Magno Massimo, eletto proprio dalle legioni Britanniche.

    «Vedrai, Stilicone. Il bambino, crescendo da subito in una posizione di potere, diventerà naturalmente un sovrano intelligente e perfettamente a suo agio nel prendere anche le decisioni più ardue, in qualsiasi materia esse siano».

    Gli occhi di Teodosio brillavano mentre contemplava il figlio.

    Non c’era dubbio che con Onorio e il suo figlio maggiore, Arcadio, questi progettasse un impero retto in tutto e per tutto dalla dinastia che aveva appena avviato.

    «Non ne dubito,

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