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Colazione sul Prato di Casa - Il Muro
Colazione sul Prato di Casa - Il Muro
Colazione sul Prato di Casa - Il Muro
E-book1.089 pagine17 ore

Colazione sul Prato di Casa - Il Muro

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Info su questo ebook

“Pur confermando la potenzialità letteraria del primo libro, abbiamo trovato questo secondo ancora più intenso e ancor più ricco di descrizioni e approfondimenti psicologici. La drammaticità degli eventi e le tensioni emotive che si instaurano sono in qualche modo alleggerite da un linguaggio essenziale, semplice e diretto ma soprattutto coinvolgente per il lettore che riesce a percepire l’abbraccio della speranza, della commozione e della sensibilità, valori di cui ritengo abbiamo ancora oggi molto bisogno.” (A. Elia)

Selma Dino Dino nasce a Tirana, Albania, nel 1954, figlia unica di una vecchia famiglia intellettuale non proprio ben vista dal regime comunista. I suoi non avevano appoggiato il sistema, in più, alcuni membri della parentela avevano espresso apertamente il loro dissenso.
Con l’aiuto della famiglia e il sostegno degli amici riesce a laurearsi in medicina a Tirana.
In seguito alla caduta del muro di Berlino accoglie con grande gioia l’invito dello zio e di sua moglie di raggiungerli a Milano. Qui, per lei e il marito, comincia un’altra vita, dapprima fatta di lavori saltuari e poi arricchita dalla laurea in medicina, che permette a entrambi di riprendere la tanto ambita attività di medici.
Negli ultimi dieci anni Selma Dino in parte si è dedicata alla scrittura di questa saga, di cui ora i lettori hanno in mano il secondo volume.

Provate a leggere questa storia. Vi coinvolgerà, ne sono certa. Non è la mia vita, non è la vita di nessuno, ma quello che avrei voluto accadesse in quell’epoca buia…
Volevo tante Ann pronte a ribellarsi, allora forse la vita del mio popolo avrebbe preso un’altra svolta.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2023
ISBN9791220136808
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    Colazione sul Prato di Casa - Il Muro - Selma Dino

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    Selma Dino

    Colazione sul Prato di Casa

    Il Muro

    © 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-3425-5

    I edizione dicembre 2022

    Finito di stampare nel mese di dicembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Colazione sul Prato di Casa

    Il Muro

    A Dori

    Vous êtes mon lion superbe et généreux

    (Victor Hugo Hernani)

    Il segreto della felicità è la libertà

    Il segreto della libertà è il coraggio

    Tucidide

    In alcuni momenti del romanzo sono state apportate modifiche alla cronologia degli eventi a scopo narrativo

    IL MURO

    Il 1946 nacque sul vecchio mondo, come l’alba di un grande giorno.

    Una nuova vita si scopriva all’orizzonte e la gente ebbra di gioia e invigorita di coraggio la vedeva vicino a sé, perché vicino era quell’orizzonte, concreto e raggiungibile. Sul presente ancora a pezzi si affacciava un futuro luminoso e sconfinato, che spalancava innumerevoli strade, e ce n’erano tante di quelle strade, ce n’erano per tutti che ognuno poteva scegliere la sua ed avverare i propri sogni.

    Oh, i sogni! Questi vibravano ovunque nell’aria, all’occidente come all’oriente, perché l’anima delle persone si era accesa in modo uguale e le speranze non avevano distinto confini. È stata sempre così la nostra cara Europa, una vecchia signora che non invecchia mai, che si rialza ad ogni caduta, da tutti i mali si riprende e ad ogni precipizio nel buio rispunta di nuovo alla luce, lei, ancora e sempre lei, ravvivata di splendore, fiera e colta, ricca di passato e assettata di avvenire.

    Perché un’altra pace era quella del 1945, molto diversa dalle precedenti, più solida e candida, più vasta e generosa, essa aveva esteso a tutti le sue braccia; in quelle prime ore della sua nascita la pace del 1945 non aveva distinto est e ovest, nord e sud, no, essa aveva fatto sfogare le speranze di tutti per una nuova epoca di solo luce e bellezza, fantasia e libertà. Così era apparsa nelle sue prime ore, con le sembianze di un’eterna conciliazione che prometteva di restituire all’Europa l’aspirante democrazia, di cui essa era stata la culla.

    Ma ahimè, l’alba della pace finì presto e nel mattino che seguì in quella sventurata parte del vecchio mondo che chiamano est calò una fitta nebbia incavalcabile sia per quelli a cui era toccato stare dentro, che per gli altri, i fortunati destinati al sereno dell’occidente. Eppure le speranze e gli ideali degli orientali continuarono ad andare avanti passando da un giorno all’altro, a un anno all’altro e poi in decenni e decenni, finché la prima generazione scomparve e la seconda invecchiò, ma i sogni restarono quelli di sempre, giovani e freschi per figli e nipoti.

    Questa è solo una piccola premessa per un piccolo racconto, che almeno per ora non ha a che fare con i nostri eroi; piuttosto la chiamerei una modesta sbottata di rancori e sentimenti di chi ha vissuto a lungo circondato da muri, contro cui ha visto schiantarsi migliaia di sogni e fantasie. Lì, dentro quel solido recinto, l’orizzonte del mondo non si vedeva, ma si poteva immaginare lo stesso da quelli che l’immaginazione l’avevano ancora.

    Era stato duro per Ann e Perlat quel loro inizio di vita insieme negli anni di guerra, poiché naturalmente, una vera vita insieme non se l’erano potuta permettere. Tuttavia, si erano ugualmente amati e tutte quante le virtù dell’amore c’erano state nella loro unione. In mezzo alla guerra era nato George, il loro primogenito. Era avvenuto il 5 novembre del 1941. Il bambino era venuto al mondo in una piccola camera improvvisata a sala parto, adiacente alla corsia dei feriti e i moribondi; questo perché Ann era rimasta a lavorare in ospedale fino all’ultimo; peraltro avrebbe continuato ancora dopo il parto, se Perlat non avesse insistito nel portarla a Bibury.

    L’estate del 1942 l’aveva trovata di nuovo impegnata nel difficile lavoro all’Ospedale. Del bambino rimasto a Bibury, si occupava Suzan, che nel frattempo si era ripresa completamente. Nell’agosto del 1945 era nata la bambina, ma ormai la guerra svoltava alla fine. La piccola Ellen, che portava il nome della madre di Ann, era venuta come un gran buon auspicio ed era stato anche per questo, che i suoi genitori l’avevano chiamata fiaccola della pace.¹

    Tutte le cose avevano preso ad andare per il verso giusto con la fine della guerra. Nella tranquillità della pace, sembrava che ognuno avesse trovato la soluzione finale delle sofferenze, o almeno, la propria via spalancata per arrivarci.

    Dal suo ritorno a Bibury nel 1941, Jeremy non mise più piede in una fabbrica di costruzione aeronautica. Si ritirò in campagna per dedicarsi alla fattoria. In sua assenza, Archibald l’aveva mandata avanti in modo assai impeccabile, così Jeremy, malgrado le difficili circostanze, l’aveva trovata in ottimo andamento. È vero che tante cose erano cambiante, e tanti di quelli che vi lavoravano erano andati via, ma Archibald aveva trovato un aiuto-fattore, una persona onesta, con una dolorosa storia familiare alle spalle, che possedeva una grande esperienza nel mestiere. Questo rimase a lungo il braccio destro per Jeremy, così il giovane potette occuparsi in gran parte delle sue passioni, giusto come si era promesso quando era a Coventry. Fu in quel periodo che riallacciò i vecchi legami con artisti e collezionisti d’arte ed entro i primi anni del suo ritorno riuscì ad acquistare a buon prezzo alcuni quadri di immenso valore da ereditieri insensibili e sbandati.

    La fattoria Harvey anche durante la guerra era stata una delle migliori della contea e i suoi ricavi aiutarono Jeremy ad accontentare al meglio le ricche esigenze della sua anima. Con questo non si poteva dire che fosse proprio felice, ma nella sua grande casa di Barnsley, tra libri e dipinti, come nelle lunghe passeggiate per i villaggi e le colline, di sicuro ritrovò quel po’ di serenità per portare avanti la propria vita. Tuttavia, il punto cardine nella sua realtà rimase sempre il legame con Bibury e con Downy Oak.

    Nonostante Ann gli aveva rifiutato il suo amore, lui mantenne i vecchi legami. Non poteva fare diversamente in quanto la sua esistenza si trovava in una sorta di impastamento con quella casa e con le sue persone. Per questo Jeremy, imprescindibilmente, continuò ad andarci e trascorrere molte serate in compagnia di Archibald e Suzan. Nonostante questo, le relazioni con Ann per un lungo periodo non furono più quelle di prima. All’inizio aveva persino cercato di evitarla e durante il tempo che lei era rimasta nella casa natale con il bambino appena nato, lui aveva diradato al massimo le visite a Downy Oak. La discrepanza tra i due andò avanti finché Ann una sera, trovandosi per caso sola con lui, andò a toccare l’argomento… beh, sarà intervenuta in una certa maniera Ann, sicuramente avrà trovato per lui parole speciali e modi attenti e delicati… tuttavia, come avvenne e cosa disse di preciso nessuno venne mai a sapere; fatto sta che da quella sera in poi Jeremy prese a evitarla sempre meno, finché un giorno si erano trovati tra loro con tutti i vecchi rapporti di amicizia e intesa.

    Mentre con Ann Jeremy divenne quasi come prima, per il marito di lei riservò sempre un sentimento di rancore. Sapeva di non essere nel giusto e spesso trovandosi da solo si rimproverava persino a voce, eppure quel sentimento di acrimonia verso il dottore fu come una specie di malattia che, pur volendo, non potette annientare.

    Verso la fine del 1945 Jeremy si recò negli Stati Uniti per un ultimo intervento di perfezionamento che mise fine al lungo travaglio delle operazioni e dei trattamenti. I chirurghi di là avevano elogiato parecchio l’operato dei colleghi d’Inghilterra, ma una volta tornato a casa, Jeremy questo non lo confidò a nessuno.

    E mentre le ferite della guerra in meno di due anni si rimarginarono del tutto, quella dell’amore per Ann non si chiuse mai fino in fondo. I tanti ragionamenti e le autosuggestioni a cui si diede a lungo per farsi una ragione non riuscirono a lenire mai quel dolore, che lo perseguì fino all’ultimo respiro.

    Tutt’altro era la vita per Ann e Perlat, che ora, nella pace restaurata, si trovarono a vivere il loro amore con una nuova passione più ricca e promettente, più concreta e profonda, quel trasporto calmo e tenero che unisce e che fa gioire e soffrire insieme. Erano innamorati come all’inizio e tra loro c’era molto più di un legame tra marito e moglie, qualcosa come una simbiosi indispensabile per entrambi. Avevano scelto di vivere in una bella casa; era bella e piena di luce la loro casa, una di quelle tipiche bellezze architettoniche di Londra, tutta bianca, con porte e finestre a semicerchio e recintata da una raffinata inferriata nera. Sebbene da fuori sembrava piccola come una casa di bambola, dentro c’erano camere su due piani e il cortile nel retro, un vero e proprio giardino di fiori e piante.

    Naturalmente costava vivere lì, ma Perlat non ne aveva voluto sapere di negare alla moglie una bella casa munita di un piccolo giardino. Aveva il suo lavoro lui, ricco di soddisfazioni, mentre Ann conduceva una piccola struttura che ospitava orfani di guerra, chiamata la Dimora del Bambino.

    Era stata lei che l’aveva fondata con il sostegno economico di una copia di anziani coniugi, rimasti soli dopo aver perso in guerra l’unico figlio. Oltre a far parte della dirigenza, Ann copriva pure il ruolo di infermiera. Nulla contava che in questa seconda professione fosse dilettante, poiché durante la guerra lo aveva appreso talmente bene, che non c’era alcuna differenza tra lei e le vere infermiere che per acquisire il mestiere avevano sudato un diploma.

    E il vecchio Archibald? Oh, nella pace generale lui aveva trovato la sua piccola pace di uomo e di padre sereno. Il fatto che la guerra fosse finita e Ann e Jeremy ne fossero usciti sani e salvi, gli era bastato per rendergli la serenità di cui alla sua età aveva bisogno. Perché Archibald non aveva mai abbandonato l’idolo filosofico che nella vita nulla conta veramente, eccetto la vita stessa e per questo aveva preso con pacatezza l’unione della figlia con il dottore straniero. Fu poi dopo la guerra, che si convinse che la nuova vita familiare di Ann non lasciava nulla da desiderare, e a quel punto alla sua tranquillità di prima si aggiunse anche quella mancata dose di soddisfazione dell’inizio. Questo servì a rinvigorirgli anima e corpo e Archibald, in forma più che mai, prese a seguire i lavori della sua fattoria con uno spirito nuovo, escludendo definitivamente l’eventualità che la figlia lo potesse mai aiutare e ancor più, che questa un giorno ne prendesse in mano le redini. Così Archibald si rimboccò le maniche con la stessa volontà e forza di un giovane agli esordi, facendo andare il suo podere talmente bene e con buoni risultati, da poter mantenere dignitosamente la grande casa di Bibury ed assicurare in modo più che sufficiente viveri per la famiglia della figlia e per Suzan e il suo bambino.

    Elizabeth, che tutti nel paese ormai chiamavano la signora Chapman, continuò a mandare avanti la fattoria della famiglia di Wilfred. Veramente questo lo faceva come un pegno di fiducia ricevuto dal vecchio Richard e da sua moglie, per il resto, in quella casa viveva un po’ come sulle spine.

    La giovane non riusciva a smettere di pensare ad un ipotetico giorno in avvenire, in cui avrebbe visto Wilfred gioioso con moglie e figli a fare ritorno nella casa paterna.

    Gli orfani, che aveva ospitato per tutti gli anni di guerra, se ne erano andati a Londra. Ann li aveva sistemati nella Dimora del Bambino, dove vivevano e frequentavano la scuola. Anche Suzan si era trasferita definitivamente a Londra. Durante il periodo della guerra, quando i bambini vivevano nella casa dei Chapman, lei andava a White Swan tutti i giorni ad accudirli e dare qualche lezione a Laura, la bambina più grande.

    Quando i piccoli furono portati a Londra, Suzan all’improvviso si era sentita inutile, così, dopo non tanto, si era trasferita anche lei a Londra in un piccolo modesto appartamento di periferia.

    La partenza dei bambini e dopo quella di Suzan lasciò un grande vuoto a Elizabeth, che rimase da sola con la sua figlioletta. Nel frattempo era mancata anche sua madre, la signora Davis, morta per una febbre acuta durante l’inverno prima. Tuttavia, la giovane Elizabeth sventure ne aveva passate tante per lasciarsi abbattere da un fatto del genere, che un giorno prima o poi sarebbe avvenuto, facendo esso parte della vita. Inoltre la giovane sapeva che non avrebbe tenuto per sempre a casa sua quei bambini, come anche che Suzan un giorno avrebbe smesso di frequentare White Swan come in quei tempi di guerra. D’altra parte aveva serbato un obiettivo nella sua vita Elizabeth, un desiderio che le era rimasto sempre vivo nel cuore, così oltre ai doveri quotidiani, a guerra finita si era puntata di trarre dai prodotti della fattoria abbastanza viveri per La Dimora dei Bambini, un po’ come aveva fatto durante la guerra per l’Ospedale dove Ann aveva prestato servizio.

    Si può dire che nell’ambito della pace generale scesa nel nostro vecchio mondo con la fine della guerra, apparentemente le singole vite avevano trovato la serenità e i buoni propositi. Apparentemente, poiché si sa, i problemi e le avversità nella vita di ognuno non mancano mai. Chi più e chi meno, tutti abbiamo quel che si dice la nostra croce da portare, e ognuno crede che la propria sia quella più difficile e pesante. Presa in questo modo viene da pensare che ci sia una legge dell’esistenza umana indispensabile per il suo equilibrio, o di ingiustizia nel destino di ognuno, oppure una condanna per i nostri errori…

    Beh, ma alla fine, chi può dare una risposta convincente a questo?

    L’ultima notizia che Perlat aveva ricevuto dai suoi, risaliva al gennaio del 1942. Era una lettera firmata da entrambi i genitori, in cui si congratulavano di cuore con lui e con Ann, per la nascita di George. Ed erano essi così felici ed esaltati di gioia, che si rammaricavano di non trovare le parole, quelle proprio piene, per esprimere i loro sentimenti come avrebbero voluto.

    Dopo era calato il silenzio. Perlat naturalmente aveva continuato a scrivere lettera su lettera, senza avere mai una risposta. All’inizio lo aveva preso come un disordine nella comunicazione causato dalla guerra, così la sua preoccupazione era rimasta compressa dentro di lui come una sofferenza silente, ma senza diventare una vera ansia. Questo fino all’inizio dell’inverno del 1945, quando nel mondo i contatti tra la gente in qualche modo si stabilirono. A quel punto non era stato più facile per lui, tanto meno convincente, aggrapparsi alla saggia espressione francese imparata ai tempi di scuola pas de nouvelle, bonnes nouvelles, come aveva fatto fino ad allora. Troppo tempo era passato e c’era stata la guerra, i genitori e la sorella potevano essere malati, oppure in condizioni da non poter scrivere… potevano essere morti…

    Ad aumentare la sua inquietudine, era stata una lettera di Luan, il suo più caro amico che aveva studiato a Parigi e che vi si era fermato per vivere.

    Il mondo è ancora in tumulto, amico mio, scriveva tra altre cose lui, "Tuttavia non ti sembra strano che bene o male, tra noi due c’è stata corrispondenza durante la guerra, mentre con l’Albania no? Hai fatto bene a sistemarti a Londra e a sposare una inglese. Anch’io non mi muoverò di qui. Ho sempre pensato che noi due abbiamo una marcia in più degli altri, perché siamo in grado di annusare i fatti prima che avvengano, non credi?

    Ubi bene, ibi patria non è affatto cinico, ma un’ambizione legittima. Dalla vita bisogna prendere il massimo."

    Perlat non approvava tutto di Luan. Trovava disgustosa la facilità con cui a volte l’altro riusciva a liberarsi dei sentimenti che potevano ferirlo, ma l’aveva sempre attratto una certa ingenuità da bambino che l’amico si portava addosso insieme alla sua sincerità nell’esprimere ogni pensiero senza nascondere nulla. Non aveva mai saputo mentire Luan, e anche quando ci provava, i suoi sforzi urtavano contro la purezza e l’innocenza dell’anima, portando così tutto a monte. Perlat gli voleva molto bene, anche se non lo prendeva mai sul serio, almeno non fino in fondo. Eppure quest’ultima lettera dell’amico lo aveva sconcertato non poco.

    La guerra è un terremoto ormai finito, scriveva ancora lui, "ma dall’altra parte dell’Europa, dove la nostra cara terra natale ha avuto la sfortuna di trovarsi, avvengono ancora quelle scosse di assestamento. Che poi che razza di assestamento si stabilirà, lo sa solo Dio. Dammi retta vecchio mio, hai fatto bene finora, continua così! Metti l’anima in pace e lascia al tempo di porre in chiaro il resto. Intanto tu guarda la tua nuova famiglia, perché è quella l’unica a contare veramente. Vivi la tua vita e non sparpagliarti in pensieri tormentosi, perché non fai in tempo a risolverli che tutto finisce e ti trovi al ‘bout de ton rouleau’² con un pugno di mosche…"

    Perlat non aveva parlato con Ann della lettera. Non voleva coinvolgerla nelle sue ansie, ma a quanto pare non era riuscito del tutto.

    Gli è che in virtù del compatto affiatamento creato tra loro, Ann arrivava a leggergli dentro l’anima anche ciò che lui cercava di tenerle nascosto.

    - Il problema starà nel mal funzionamento delle poste, – gli disse una sera lei, – ma ci sarà un altro modo per sapere almeno come stanno.

    - Non ci pensare mia cara. Lasciamo tutto al tempo e godiamoci la pace e questa nostra vita qui, – rispose lui con apparente calma, mentre richiamava le parole dell’amico cercando in esse conforto.

    - Sì che ci penso! – lo scosse lei, – io non sarei tranquilla se non avessi notizie di mio padre e penso lo stesso anche per te. Non ho sposato un uomo senza cuore, che non vuol sapere dei suoi.

    Poi Ann gli si avvicinò e sedette al bracciolo della poltrona.

    - So che ci pensi e che ti tormenti, per questo dobbiamo trovare un sistema per aver notizie. Un sistema ci deve pur essere!

    Perlat alzò lo sguardo su di lei e sorrise.

    - Oh Ann, l’unico modo resta continuare a scrivere e ancora scrivere e scrivere. Alla fine una risposta arriverà, prima o poi. Ma io non voglio coinvolgerti in questi problemi, – disse portando alle labbra la mano della donna che teneva stretta nella sua.

    - Sciocchezze! – replicò lei ritirando la mano e alzandosi di scatto in piedi.

    - Nei tuoi problemi io sono già coinvolta. Siamo o no marito e moglie? Le tue sofferenze sono anche mie, non lo capisci?

    Ann parlava gesticolando con le mani. Era infuocata e addolorata insieme, ma fu proprio quel senso di dolore che la portò poi subito alla sua consueta calma.

    - Possiamo considerare l’idea di andare a trovarli! – aggiunse esaltata mentre stava ancora in piedi davanti a lui.

    - No, non è una buona idea. – rispose Perlat pensando alla lettera dell’amico. Cercò di spiegarle a grandi linee l’eventuale insicurezza di quel viaggio e anche del suo paese; a grandi linee e non solo per sfuggire al suggerimento inquietante della moglie, ma anche perché non poteva farlo diversamente, dato che non possedeva particolari.

    Ann non si convinse per niente, eppure non andò oltre. Si era fatto tardi e quella di andare a letto fu l’unica idea che entrambi trovarono giusta per quella volta.

    Una gelida sera del gennaio del 1946, nella stazione della metropolitana mentre aspettava il treno che portava a casa, Perlat sentì alle sue spalle una voce chiamarlo per nome. Si girò e vide un uomo, con addosso un impermeabile grigio che sembrava inadeguato al clima freddo di quel mese. Perlat non l’aveva mai visto prima, invece l’uomo gli si avvicinò sorridendo con un’aria strettamente amichevole. Come aveva fatto a conoscerlo da dietro le spalle, Perlat ci pensò solo molto tempo dopo.

    - Ciao, – lo salutò lo sconosciuto, e gli diede un leggero colpo sul braccio. – Non mi riconosci?

    Era un ometto comune, persino volgare sia nell’apparenza che nei modi di fare, che ai ricordi di Perlat non disse nulla. La testa piatta all’indietro della stessa larghezza del collo gli dava un’aria sciocca e ripugnante, ma i suoi occhi piccoli nella loro bruttezza, erano sbircianti e tutt’altro che stupidi. Parlava l’albanese con una cadenza dialettale assai storta, che a malapena si poteva definire dell’Albania del nord, dato che non custodiva nulla di quella dolcezza e musicalità del parlare di quelle parti, e gli errori erano talmente grossolani che non lasciavano dubbi sul suo basso livello d’istruzione. Perlat pensò fosse estremamente raro come la bruttezza del fisico di quell’uomo, così schiacciato e tondo, si abbinasse perfettamente con il suo parlare rozzo.

    - No, – rispose freddamente. – Non ricordo di averti visto mai prima d’ora.

    Aveva scartato al momento l’idea di dare del lei a un tipo simile. Sarebbe stato superfluo e, per giunta, rischiava di non farsi capire.

    - Strano, che non ti ricordi. E pensare che abbiamo giocato tante volte insieme da bambini. Ma tu hai ragione sai? – aggiunse subito dopo, puntando l’indice al tempio, – forse ho sbagliato, non abbiamo giocato proprio insieme tu ed io ed ecco perché non ti ricordi di me. Sono un po’ più giovane io, sai com’è? Quelli grandi non si ricordano mai dei più piccoli.

    I suoi occhi, come due buchi rotondi, ridevano di gioia per la soddisfazione di aver dato quell’idea geniale che spiegava tutto a meraviglia.

    - Vuoi dire che siamo cresciuti nello stesso quartiere? – chiese Perlat.

    - Ci sei arrivato, amico, – esclamò l’uomo e gli schiantò un altro pugno al braccio, ancor più forte del primo. - Ci hai messo un po’ eh, ma finalmente ce l’hai fatta. Aaa, voi dottori!

    - Come fai a sapere che sono un medico? – chiese Perlat con stupore.

    L’altro fece un verso incomprensibile, poi si schiarì la voce prima di parlare:

    - Ti ho visto uscire dall’Ospedale, amico. Per Bacco ho detto, quello lì è lui, Perlat! Così ti sono corso dietro.

    Parlava e rideva forte attirando l’attenzione di tutti i passanti. Ma lui di questo non ne voleva sapere e continuava imperturbato nel suo gioioso slancio.

    - Come hai detto? Ha ha ha. Come faccio a sapere che sei un dottore? Non ci vuole tanto a capirlo amico, uno come te, che spunta fuori da un Ospedale non può essere che un dottore. Sei stato sempre bravo a scuola, quindi… uno più uno fa due no? Ed ecco che ho azzeccato. Ha ha ha.

    - Non mi ricordo di te, né a scuola e neanche nel quartiere, – disse seccamente Perlat.

    - Certo che non ti ricordi. L’ho detto poco fa. L’ho detto o no? Eri più grande di me, ecco perché non ricordi. Eravamo alle elementari insieme, cioè tu in quarta forse, io in seconda, qualcosa del genere. Abitavamo nella stessa via.

    - Veramente non sembri uno di Tirana, voglio dire… come parli… cioè dal tuo dialetto.

    L’altro non si lascio intimidire. Alle osservazioni sul suo modo di parlare si era ormai abituato, talché non si offendeva più, anzi, aveva iniziato a prenderlo come un pregio.

    - Per forza amico, – rispose con massima disinvoltura, – è tanto che vivo all’estero, per lavoro, sai com’è? Lavoro manuale, facchino, muratore, imbianchino, tutto ho fatto nella vita, ma il mio pane l’ho guadagno con tanto sudore. Sudore e onestà fratello, sudore e onestà.

    In questo, dall’amico di prima, passò direttamente e con grande spigliatezza a chiamarlo fratello. E quando sentiva l’irresistibile bisogno di trasmettere la propria gioia in modo concreto, tirava le mani fuori dalle tasche e gli scagliava un colpo sul braccio.

    - È stato un piacere, ma ora mi devi scusare. – intervenne Perlat che ormai aveva quasi perso la pazienza, – veramente un piacere, signor…

    - Xhavit Katuni.

    - Veramente lieto Xhavit Katuni, ma ora devo andare.

    - Guarda, guarda! Devo andare, dice! Aspetta un po’ fratello, o sei sposato con qualcuna di qui?

    - Ora devo andare. Piacere e buonanotte, Xhavit Katuni. – tagliò corto Perlat e con un salto secco entrò nel vagone del treno che era appena arrivato.

    - Aspetta brav’uomo! – gridò l’altro da dietro le spalle. – Io non ho niente da fare sai com’è? Non ho moglie e bambini, ma troverò una ragazza sai? In Albania la devo pigliare, dove altro se no? Gran belle ragazze abbiamo laggiù, non credi? E poi, con esse puoi fare quello che vuoi e se ti gira di concederti qualche svago non devi render loro nessun conto, invece a una straniera… Con le straniere non c’è nulla da fare, queste ti mettono i piedi in una scarpa.

    Perlat non rispose. Era seduto nell’unico posto vuoto che gli era capitato e guardava dalla finestra. L’altro in piedi, gli si mise davanti.

    - Sono venuto ieri dall’Albania. Ci torno tutti gli anni per trovare moglie.

    Questa volta ho messo gli occhi su un paio, ma quelle di Tirana mi vedono un po’ con… come si dice, come se loro sono sopra, insomma, hai capito no, quello che voglio dire?

    E nell’aspettare la risposta di Perlat, tirò di nuovo la mano dalla tasca e ripeté quel suo gesto bizzarro di colpire il braccio dell’altro.

    - Dall’alto. – disse Perlat.

    - Proprio così, dall’alto. Eh eh eh, voi gente di cultura, voi sì che avete una marcia in più. Ti ricordi le ragazze della nostra via? Quelle come si dice, ecco sì, la crème. Vjollca per esempio, o quell’altra che si chiamava Lume e poi, quasi dimenticavo fratello, – si inclinò verso Perlat e riparando con mano la bocca, gli mormorò all’orecchio:

    - Mi è dispiaciuto molto per quella ragazza della nostra via che ha studiato all’estero, in Italia mi pare. Quella là, la figlia dell’avocato… ecco Hena, Hena si chiama.

    - Hena? – fece Perlat impietrito. – Cos’è successo a Hena?

    - Ti ricordi eh? Gran bella ragazza. Bel fisico! Non che io potevo arrivare a lei, no davvero, né a lei e neanche a Vjollca e a Lume. Hanno fatto un frego di scuola loro, di qua, di là per l’Europa, mentre io solo con le elementari sono rimasto. Ma era così, per dire, sai? Quella Hena poi, era una gran bella ragazza.

    - Era? – chiese Perlat, che preso dall’improvviso sconcerto si alzò di scatto.

    In piedi, i loro volti si erano ravvicinati tanto, che quasi si toccavano. Solo perché era sconvolto, l’alito pesante di grappa e aglio dell’altro non gli rivoltò lo stomaco.

    - Perché hai detto era? Parla, cos’è successo a Hena! – lo scosse con forza Perlat, prendendolo per le spalle.

    - Ehi, cosa ti prende? Calma fratello, calma. Hai buona memoria per le ragazze belle, di quelle ti ricordi benissimo, di me invece no, ma è giusto fratello, ha ha ha, succede anche a me sai? – disse sorridendo divertito.

    - È mia sorella, gran figlio di puttana! – gridò Perlat mentre lo sbatacchiava dalle spalle.

    Il tizio smise di ridere, ma nel suo volto non apparse nessun tipo di emozione e l’aria seria che cercò di mostrare sembrava impostata a fatica.

    - Ma tu parla chiaro brav’uomo, chi avrebbe detto, bre³ che sei suo fratello! – disse, vibrando la voce per sembrare addolorato. – È stato un incidente, una macchina l’ha messa sotto, una maledetta macchina che andava veloce come impazzita.

    Davanti a lui, Perlat rimase immobile. Sentiva come se il sangue gli si fosse gelato nelle vene e il proprio corpo come un elemento a parte, estraneo e fuori da quello che era rimasto il suo onirico e indefinito essere.

    È così che ci si sente quando si muore gli sembrò di pensare, mentre vedeva la macchina veloce schiantarsi contro Hena.

    - Una macchina, Hena è morta. – disse, ma le parole gli si irrigidirono nell’aria e lui non era più sicuro di averle pronunciato.

    - Ehi amico, che razza di uomo sei, per lasciarti andare così? – sentì dire l’altro come se parlasse da molto lontano.

    - Non è morta, – aggiunse ancora questo. – È grave, molto grave. Fossi in te farei un telegramma.

    - Hai ragione, devo correre subito in posta. – parlò Perlat come un sonnambulo.

    - Diavolo, chi sapeva che era tua sorella. – disse ancora il tizio cercando di apparire dispiaciuto, senza pensare che il suo sforzo era del tutto inutile, perché Perlat non lo guardava neanche.

    - Vado ora, grazie per avermi avvisato. – si affrettò a congedarlo Perlat, quando sentì di aver recuperato di nuovo il controllo di sé.

    Gli stese la mano ma l’altro rimase stranamente impassibile. Senza farci caso, il dottore gli voltò le spalle e andò verso la porta aperta del treno. Un minuto dopo si trovava già sulla piattaforma, senza controllare che fosse proprio quella, la sua fermata. Nella testa gli passavano, una dopo l’altra, immagini di Hena, che si contorceva dai dolori in un letto d’ospedale.

    Chissà perché la sua mente la immaginava così, quando la logica da medico gli diceva che sicuramente la sorella non era in grado di muoversi e probabilmente non sentiva neanche i dolori. Perlat ogni tanto scuoteva la testa nella speranza di sbarazzarsi di quelle idee inutili e aberranti, che lo sfinivano soltanto, ma esse gli tornavano di nuovo a soffocargli la mente impedendogli di ragionare. In un momento gli sembrò di sentire ancora la voce dell’uomo di prima, ma non guardò dietro per controllare. Non ricordava più nemmeno come si chiamasse.

    Si fermò per un attimo sul marciapiede super trafficato di quell’ora della sera, per capire dove era piombato. Quella sosta gli fu utile per recuperare l’orientamento e subito si ricordò dell’esistenza di un ufficio postale nelle prossimità di un mezzo miglio. Riprese a camminare in fretta in quella direzione, ma non aveva fatto che dieci passi quando la voce dell’uomo lo chiamò per nome, questa volta chiara e forte da non lasciargli incertezze.

    - Perdonami amico, – iniziò a parlare forte ancora a distanza – ma parlando apertamente, tu proprio mi fai pena. Fermati un attimo a sentirmi, invece! Fossi in te lascerei perdere il telegramma. Non arriverà di sicuro.

    Credi che laggiù la posta funzioni come qui? Non perdere tempo prezioso, ma fai il biglietto e parti prima che puoi. La ragazza sta male, ma il tuo intervento come medico può cambiare le cose. Sei un dottore e tra dottori, sai com’è…

    - Senti, so bene cosa fare e ora ti prego di lasciarmi tranquillo. Sono abbastanza sconvolto, posso perdere la pazienza e dire cose che non vorrei. – gridò Perlat afferrandolo dal collo dell’impermeabile.

    Quell’uomo gli aveva dato sui nervi. C’era un qualcosa di ambiguo nel suo sguardo aguzzato da una restrizione forzata dei piccoli occhi e le parole inviscidite della schiuma bianca delle labbra, sembravano incollare un che di scherno venuto da dentro.

    - Come vuoi, – disse l’uomo fingendosi calmo. – Io parlo per il tuo bene.

    - Buonanotte. – lo congedò Perlat, mentre con una spinta staccava la mano dal suo soprabito.

    Era più tardi del solito, quando entrò in casa. Ann si trovava nella camera di George e lo stava aiutando per la notte. Nel sentirlo arrivare, il bambino scappò dalle mani della madre e gli corse incontro. Perlat buttò il cappotto sulla poltrona dell’atrio, lo prese in braccio e andò direttamente in biblioteca che funzionava anche come sala da pranzo. Era per forza d’abitudine che entrò lì, poiché quella sera non aveva voglia di mangiare.

    La tavola era pronta come sempre, apparecchiata per due. Iniziava così la loro serata, prima la cena in biblioteca e poi una lunga sosta in salotto in compagnia della radio, o di una buona musica al grammofono. A volte si andava avanti a parlare fino a notte tarda. Avendo due bambini piccoli, gli svaghi del momento si limitavano a queste semplici cose, che per entrambi erano i momenti più felici della giornata. I bambini erano abituati a dormire presto, così la serata rimaneva tutta per loro due, da soli.

    Fu strano per Ann non sentire la voce del marito e quel gioioso Ciao Ann, oppure cara sono qui, che riempiva la casa ogni volta, appena lui entrava. Preoccupata lo seguì in biblioteca. Perlat stava in una delle poltrone accanto al camino con le gambe distese e George su di lui, entrambi abbracciati. Ai passi di Ann, l’uomo si raddrizzò di colpo tenendo sempre stretto a sé il bambino. Sembrava incredibilmente stanco, sfinito e atterrito. Dal pallore e dall’aria sperduta dello sguardo, la sua faccia sembrava più quella che doveva essere la propria coppia in alabastro.

    - Cosa ti succede Perlat? Sembra che tu abbia visto un fantasma. – proruppe lei sconcertata, ma in realtà aveva pensato a un malore.

    - Un fantasma, – ripeté lui o credette di averlo detto.

    Nelle ultime ore gli succedeva spesso di non essere sicuro se la sua voce si diffondesse nell’aria o rimanesse dentro, attaccata alla gola. La domanda di Ann, quella storia del fantasma, ora non gli sembrò la solita metafora, ma come se lei la intendesse letteralmente. Forse lui non aveva semplicemente immaginato Hena in quel letto d’ospedale, ma aveva visto veramente il suo spettro. Perché lei poteva essere già morta.

    - Tu non stai bene, – proseguì Ann.

    Era rimasta in piedi ad attendere una risposta, mentre lui stava muto, immerso in quell’idea bizzarra del fantasma, che pur non credendole fino in fondo gli faceva un certo senso, un che di timore da presagio che al momento giudicò come un riflesso degli eventi nel tempo.

    - Oh, no, sto bene. – rispose tornando alla realtà.

    Solo quando sollevò lo sguardo, Ann capì che il pallore del marito non era causato da un malessere fisico, bensì il suo volto era impresso di paura per qualcun altro. Nonostante la giovane età, Ann conosceva bene quel tipo di sofferenza particolare, imposta dall’ansia per le persone care. Lo aveva visto durante la guerra nel volto di Suzan, di Elizabeth, della signora Chapman, di suo padre e di Janet e di tanta altra gente per le strade di Londra. Lei stessa aveva provato quanto era duro e straziante vivere nel dubbio e capì che Perlat aveva saputo qualcosa dai suoi, oppure qualcosa temeva per loro.

    Gli andò lentamente vicino, sedette sul bracciolo della sua poltrona e si mise a passare le dita teneramente tra i capelli scuri di lui, arruffati dal vento.

    - Hai avuto brutte notizie?, – gli chiese dolcemente.

    - Sì. – rispose lui, sollevando ancora lo sguardo sulla moglie.

    L’aveva stupito quel modo sicuro di lei, che non era stata una domanda, bensì un’affermazione e un invito ad aprirle il cuore.

    Perlat non aveva mai visto nel volto della moglie tanta dolcezza e amarezza insieme, come in quel momento. Lei continuava a scorrergli le dita tra i capelli, mentre lo guardava con quel sorriso triste e tenero, e lui sentiva pian piano il calore della benevolenza e della consolazione.

    Il piccolo George seguiva con stupore quello strano colloquio tra i genitori, così tenue e fragile nelle poche parole, ma anche così incomprensibile per lui. Stava bene sul grembo del padre. Avvolto dalle sue braccia il bambino non captava altro che l’amore, in quanto le sofferenze per lui ancora non esistevano. Ann avrebbe voluto dirgli di andare nella sua camera perché papà e mamma dovevano parlare, ma rimandò la decisione da un minuto all’altro e poi ad un altro ancora per paura di rovinare la piccola atmosfera di conforto che sembrava aver fatto a Perlat da lenitivo.

    - Quell’uomo ha avuto ragione – disse alla fine, quando il marito le raccontò tutta la storia, dopo che il bambino se n’era andato a dormire. – È chiaro che non c’è tempo da perdere.

    - Che cosa intendi? – disse lui a mezza voce, guardandola con occhi intimoriti.

    - Andare in Albania, naturalmente.

    Lui si stupì della laconicità della moglie nel lanciare una decisione così importante e difficile.

    - La tua presenza sarà molto utile. Parlare con i tuoi colleghi di là può incidere nell’andamento di tua sorella. Abbiamo l’esempio vivo di Jeremy e Suzan e di tanti altri feriti di guerra. E, perché no, forse potresti operarla tu stesso.

    - In questo momento che noi parliamo, potrebbe essere già morta. – balbettò lui con aria dispersa.

    - No che non lo è. – fremette lei.

    - Tu veramente mi stupisci Ann. Come puoi parlare con tanta certezza?

    Lei trascinò la propria poltrona vicino a lui, finché le loro gambe si toccarono, e gli prese una mano tra le sue.

    - Lo sento e basta. Tu prendilo come un istinto femminile. Intanto quel tizio di oggi era in Albania fino a due giorni prima e Hena era viva.

    Lui non rispose. Il ragionamento della moglie era del tutto onirico, ma stranamente potente, perché gli accese di speranza l’anima.

    - Sembra una coincidenza strana incontrare quell’individuo proprio così per caso, non trovi? E dire che non ti ricordavi per nulla di lui, che non sapevi neanche che esistesse. A volte è il Signore che sistema le cose e questa sarebbe una spiegazione. Capisci ora la mia certezza? – concluse lei fissandolo negli occhi con la tenacia di chi vuole far valere le proprie parole e persuadere l’altro ad ogni costo.

    - Sei formidabile Ann, quasi, quasi da convincermi.

    - Ora andiamo a tavola e non ci pensiamo più. Domani mi occuperò io dei biglietti, tu invece chiederai un congedo all’ospedale.

    - Perché parli al plurale?

    - Shshtt. – fece lei mettendogli l’indice davanti alla bocca. – Abbiamo detto che per stasera, non parleremo più di questo. Andiamo a mangiare e come si dice, la notte porta consigli. Domani si deciderà tutto.

    Invece Ann dentro di sé aveva già deciso e per questo, quando andarono a letto, diversamente dal marito, era tranquilla. Per tranquillizzare anche lui, gli infilò la mano sotto la giacca del pigiama cercando il contatto diretto con la sua schiena. Era un gesto di tenerezza e amore che per lui significava che essa era là, vicina anche nel sonno. Questa notte serviva anche come un modo per mettere in quiete l’anima tormentata del marito.

    E in verità aveva funzionato, perché non passò tanto tempo e Perlat si era già addormentato. Non fu altrettanto facile per Ann, perché ora che il marito dormiva profondamente e lei aveva preso la decisione, ora che tutto era chiaro e stabilito, invece di conservare la calma strani pensieri inquietanti la assalirono e man mano che il tempo passava non solo non si smorzavano, ma andavano sempre aumentandosi ingarbugliando la sua mente stanca. La lampada sul suo comodino, che rimaneva accesa fino all’alba in modo da poter sorvegliare la piccola Ellen nel lettino presso il suo, questa notte sembrava emettesse una luce fredda e più forte del solito, che le agitava gli occhi e i nervi. Ann provò a girarla parecchie volte in modo da renderla meno irritante, ma non ci riuscì. Alla fine si alzò dal letto, e senza far rumore recuperò il resto del filo da dietro il comodino in modo che la lampada arrivasse in basso fino al pavimento, dove la adagiò lentamente. L’oscurità della camera spezzata appena dall’illuminazione ammorbidita al massimo le diede un senso di riposo, ma non le bastò per indurla nel sonno. Allora infilò la vestaglia e scalza, in punta di piedi, entrò nella piccola camera adiacente alla loro per controllare George, come faceva sempre, quando si svegliava di notte. Il bambino dormiva tranquillo e non c’era nulla da sistemare per lui e nulla c’era più da aggiungere alla quiete della casa; tutto era perfetto, eccetto la sua testa, che lei sentiva confusa da una strana sensazione tra dolore e pesantezza. Percorse il lungo e stretto corridoio che conduceva alle scale. Arrivata al piano di sotto si sollevò in punta di piedi per vedere dentro la cucina attraverso l’oblò situato nella parte superiore della sua porta. Lo fece senza uno scopo preciso, in quanto non si aspettava di vedere nulla di strano e perché non stava cercando nulla; eppure entrò dentro lo stesso, poi andò in biblioteca e ancora più in là, in una stanza che era il suo studio di pittura, ma che ora serviva come luogo da giochi per i bambini.

    Ann non dipingeva più da tempo. Stanca dalla guerra e dalla vita frenetica in ospedale, non aveva più toccato un pennello, così La Colazione sul Prato di Casa era rimasta il suo ultimo lavoro. L’avevano portato da Bibury, quando avevano preso l’appartamento. Ora era nello studio di Perlat. Dopo aver girato senza meta per alcuni minuti nelle altre stanze, trovò più avveduto andare a trovarlo. Non pensava più al valore che gli altri come Jeremy, Suzan o Perlat gli avevano attribuito, anzi, non le importava più se avesse o no un valore come dipinto. Era bello ai suoi occhi, e lei l’amava come un figlio. Per quello interiormente lo trattava come un essere vivente e spesso diceva lui quando tra sé lo menzionava.

    Entrò nello studio del marito. La stanza non era ancora completamente arredata. Mancava la libreria e i trattati di medicina di Perlat insieme a tutti i libri e le riviste stavano per terra, sistemati uno sopra l’altro. C’erano solo la scrivania e due poltrone, e poi c’era lui, il suo quadro, appeso con cura alla parete. Ann gli restò a lungo davanti in contemplazione e chissà come le successe di estorcersi da una strana sensazione che non avrebbe mai più dipinto. Non era sicura se questo le dispiacesse e se potesse mai sentirne nostalgia, e nemmeno sapeva da dove le venisse questa certezza e perché.

    Senza togliere gli occhi dal quadro, in modo inconsapevole scorse la mano nel seno, sotto la camicia da notte, in cerca del ciondolo d’oro che le aveva dato suo padre. La Colazione sul Prato e il medaglione questa notte le sembrarono legati uno all’altro in un sentore tanto sciolto e accorto che lei non si stupì affatto come questo potesse succedere per due cose così diverse tra loro. Non ebbe neanche la sensazione che fosse un accorgimento nuovo. Il fatto che lo avesse sentito solo ora, Ann lo prese come un attento soffermarsi su quelle cose tanto scorrevoli e lisce, tanto naturali e ovvie nella vita, che di solito non si osservano nemmeno se non in particolari momenti. Era un po’ lo stesso, come si stava ora accorgendo che faceva freddo, che lei era scalza e che sentiva gelo ai piedi. Uscì pian piano dallo studio camminando all’indietro per non perdere di vista La Colazione sul Prato di Casa fino all’ultimo momento, fin quando non fosse fuori dalla porta. E quando chiuse questa dietro alle spalle, ecco che si sentì lieta e con la testa liberata da quel groviglio di pensieri di prima.

    Poteva anche infilarsi nel letto vicino al marito, ma preferì andare in salotto per mettere in ordine d’idee le cose che doveva fare il giorno dopo.

    Avrebbe forse dovuto prendere carta e pena nello studio di Perlat prima di uscire, ma non tornò indietro a farlo. A pensarci bene le cose da programmare erano solo tre o quattro, bastava soltanto sistemarle nella testa. Per fare il punto della situazione sedette sul canapè di velluto rosso del salotto e raccolse i piedi sotto la vestaglia cercando di ripararli dal freddo.

    Prima di tutto avrebbe avvertito Jeremy. Gli avrebbe confessato come stavano le cose, il motivo di questa partenza improvvisa. Suo padre non doveva sapere nulla. Con Jeremy avrebbe architettato anche un motivo plausibile da presentare ad Archibald per giustificare al meglio la sua assenza. Dopo doveva andare da Suzan. Preferiva parlarle direttamente, perché era a lei che avrebbe affidato Ellen. Per l’occasione avrebbe sistemato anche altre cose con la cugina. Era molto prevedibile che entrambi, Jeremy e Suzan, la rimproverassero per questo passo insensato e azzardato, che sarebbe per loro una sorta di coglierla su quel tremendo fallo di aver sposato Perlat. Ann pensò anche a questo, ma così, tanto per trovarsi preparata. Non intendeva certo dare peso a questa eventualità né ora e neanche domani, semmai veramente essi l’avessero trattato in quel senso. In questo, passò a collocare nella memoria l’altro impegno, quello di correre in agenzia per prenotare i biglietti, due per adulti e uno per George. Quale sorpresa sarebbe stata più bella per i genitori di Perlat, che vedere il nipotino? Alla fine sarebbe andata alla Dimora del Bambino per congedarsi, perché la partenza poteva essere tra un giorno o due. Nel frattempo cercava di non lasciarsi prendere dalla paura per questo passo.

    Alla fine sarebbe stata un’esperienza come un’altra, con soltanto l’ansia per Moonlight. Era il nome inglese che lei spesso usava quando nominava Hena⁴. Perlat si divertiva tanto, ogni volta che la sentiva.

    Ripeté ancora gli impegni dell’indomani accompagnando ogni cosa con movimenti delle dita come per annotarle nella mente; uno andare in agenzia, due parlare con Jeremy, tre andare da Suzan… ogni punto aveva due o tre sottopunti, a prima vista niente di difficile per una giovane come lei, ma le palpebre iniziarono ad appesantirsi e il sonno ogni tanto le faceva perdere il conto. Ann non voleva addormentarsi sul canapè per non far capire al marito di essere stata presa dall’inquietudine, ma prima di decidersi di tornare a letto, cercò di porre fine a tutti gli appunti e sottoappunti, poiché avere in chiaro quello che c’è da fare, costituisce metà del lavoro.

    Continuò per un po’ con quegli uno due e tre con i vari sotto uno e sotto due… ma dal torpore, non giunse mai alla fine. Ogni volta che la testa le cascava sul petto si risvegliava e riprendeva dall’inizio, ma subito si obnubilava prima ancora della volta precedente. Andò avanti così fino a quando il sonno vero e profondo le paralizzò la mente e Ann, sedotta dalla comodità del divano, si abbandonò ad esso senza forza alcuna di contestarlo.

    Al risveglio sentì addosso il plaid, che di solito stava piegato in un angolo del canapè, ma non si ricordava di essersi coperta prima di addormentarsi.

    Allora era stato Perlat. L’idea che il marito avesse notato la sua assenza nel letto la rattristò, ma ormai era fatto ed elucubrare ancora non aveva alcun senso. Così cacciò via anche questo pensiero e al momento si accorse di essersi rasserenata, che la testa non le doleva più e che si sentiva piena di energie.

    Si alzò in fretta quando vide sul pendolo che si erano fatte le sei. In punta di piedi ispezionò le stanze da letto. Perlat e i bambini dormivano ancora.

    Ann si mise in ordine e andò in cucina a preparare il caffè e i toast. Erano abituati a fare colazione insieme, prima che Perlat andasse all’ospedale e lei alla Dimora del Bambino.

    - Ti eri addormentata sul canapè. – disse Perlat appena entrato in cucina.

    Teneva in braccio George.

    - La colazione è quasi pronta. – disse Ann, per sfuggire all’osservazione del marito.

    - Mi dispiace di averti turbata ieri sera. – aggiunse Perlat accomodando una sedia per il bambino.

    Ann lo guardò sorridendo.

    - Vai a dare un’occhiata a Ellen, mentre io finisco con il caffè. – gli disse, scavalcando di nuovo il discorso.

    Perlat conosceva quel modo di fare della moglie. Significava non dover sprecare parole su un argomento, di cui non era rimasto nulla da dire.

    Perlat lo prendeva come un modo molto inglese di essere discreti e delicati, che in un certo senso anche lui aveva adottato.

    - Ellen dorme ancora, – affermò tornando in cucina.

    - Meglio così.

    Ann finì di mettere a ciascuno un toast che aveva tenuto in caldo e sedette a tavola.

    - Ho fatto il programma per oggi. Biglietti per noi tre. – disse e con l’indice disegnò nell’aria un arco che comprendeva gli appunti tracciati nella mente. – Poi chiamerò Jeremy per papà, e andrò da Suzan per Ellen.

    - Non ho capito nulla. – disse Perlat aspramente, abbastanza da far intendere che invece aveva capito benissimo, ma che non approvava.

    - Anch’io non ho capito, – aggiunse sbalordito il piccolo George, interrompendo la colazione.

    Sentire parlare di biglietti gli procurava sempre un effetto esaltante.

    - Ho pensato che è giunto il momento di andare a trovare i tuoi nonni in Albania, George. Sono i genitori di papà e lui non li vede da anni, mentre tu e io neanche li conosciamo. E questo non lo trovo per niente giusto, non credi?

    - Oh sì. – esclamò il piccolo, – andremo ora, mamma?

    Perlat guardava stupito. Ann aveva pensato tutto da sola senza consultarlo e ora coinvolgendo il bambino voleva rendere irremovibile il fatto.

    Avrebbe dovuto indignarsi e sicuramente voleva, ma c’era anche quella maledetta ammirazione forte e irresistibile che gli oscurava qualsiasi altra manifestazione di dissenso e lo disarmava da ogni esplosione di rabbia.

    Perlat non resistette di più, andò da lei e la abbracciò forte, ma così forte, che mancò poco dal farle rovesciare il tè sul tavolo.

    - Questo non significa che non sono arrabbiato con te. – le mormorò all’orecchio, – lo sono e tanto, pure. E non approvo assolutamente questa tua scelta.

    - Allora vuoi aggiungere qualcosa? – disse Ann sempre sottovoce in modo che il bambino non sentisse.

    Lui annuì, e prima di riprendere il suo posto a tavola, la baciò sui capelli.

    - George, finisci in fretta e vai alla finestra a guardare per Lizzie. Quando la vedrai arrivare avvertimi.

    Da lì a poco marito e moglie si trovarono da soli uno di fronte all’altro.

    Perlat non disse nulla, ma si era fermato dal mangiare, anche se nel piatto era rimasto più della metà e la sua tazza conteneva ancora quasi tutto il caffè.

    - Puoi continuare a mangiare mentre parliamo, – osservò Ann, – così non rischi di fare tardi all’ospedale.

    Invece lui sembrava non aver udito. Fermo, con le mani strette alle posate, la fissava serio.

    - Allora Ann fammi capire. Tu intendi venire in Albania con George?

    - Non intendo, io verrò. Ci andremo insieme, tu, George e io. – rispose risoluta mentre continuava tranquillamente a bere il suo tè.

    - Veramente non sai cosa dici. – proseguì lui.

    Il suo volto dall’espressione grave era proprio il rispecchiamento perfetto della gravità del problema che tanto gli appesantiva l’anima. Nelle mani ferme ai bordi del piatto stringeva ancora le posate, mentre spaventato continuava a fissare la moglie.

    - È la cosa più naturale del mondo. Andare dai tuoi è come andare da mio padre. L’unica differenza è la distanza. – disse Ann con semplicità e con la stessa naturalezza che vedeva nella questione.

    Infatti, lo aveva detto con tanta disinvoltura e tanta ne aveva dato anche alla questione, da palesare di averla ormai recepita, assorbita completamente. Inoltre il suo modo di fare dava alla vicenda le sembianze di un fatto consueto, logico e naturalmente anche giusto e ogni complicazione, che il marito trovava ancora, non faceva altro che renderla ancor più consueta e prevedibile, come tutte le cose naturali del mondo che presentano sempre qualche imperfezione.

    - E Ellen? Come possiamo lasciare la bambina? – chiese Perlat.

    - Di lei si occuperà Suzan. Ho pensato a tutto mio caro, tu non devi temere nulla.

    - E se lei non accetta?

    - Accetterà.

    - Come puoi essere così sicura? – insistette lui, anche se dentro di sé era convinto che con lei non avrebbe vinto la battaglia.

    - Perché è così e basta. Suzan accudirà mia figlia come fa con Andrew.

    Senza dire nulla, Perlat scosse la testa con diffidenza. Seguì poi un momento di smarrimento, in cui lui guardò perplesso le posate che stringeva ancora come se si chiedesse cosa doveva fare con esse. Naturalmente questa fu l’impressione di Ann, poiché lui dentro sé non era sperduto, ma solo turbato. Perlat pensava a una certa soluzione che la notte gli aveva portato, che forse era indegna e spregevole, ma anche terribilmente giusta.

    - L’aereo si prenota per l’Italia, fino a Bari, non è così? – chiese la donna.

    Lui la guardò come rinvenuto da un delirio e le parole di lei le afferrò solo nel loro eco tracciatogli nella testa.

    - Può essere un modo. – disse sottovoce.

    - È la solita strada che facevi sempre. Così mi avevi detto. O forse c’è una scelta migliore?

    - Sì, credo proprio di sì.

    - Ah sì, e quale?

    Lui estese il braccio sul tavolo, le prese la mano e la fissò negli occhi, mentre si mordeva lentamente agli angoli il labbro inferiore. Lei nell’attendere la risposta, con gli occhi rimpiccioliti che le affilavano lo sguardo, aveva l’aria di non essere disposta ad aspettare a lungo.

    - Si passa per Parigi. – disse lui con veemenza, come se quella risposta l’aveva indovinata tra altre mille.

    In verità aveva voluto dirle che non se la sentiva più di partire, che poteva anche sembrarle cinico, ma che la notte gli aveva consigliato questo e che al mattino lui si era svegliato con le idee chiare e giuste; lui questa mattina pensava che la sua famiglia, quella che contava su tutto, erano lei e i bambini, che lui voleva molto bene alla sorella e ai genitori, ma non per questo poteva rischiare ad andare in un paese che non si faceva sentire da mesi, che non lasciava uscire le proprie notizie e non faceva entrare quelle degli altri. Voleva dirle, in caso lei non sapesse, che se quella di trent’anni fa si chiamava la Grande Guerra, quest’ultima non poteva essere stata la Piccola, visto che aveva cambiato il mondo radicalmente, aveva rimosso le sue fondamenta, lo aveva letteralmente spezzato e ne aveva sbattuto i pezzi in epoche diverse, una specie di Torre di Babele… e il suo paese non si capiva in quale periodo era capitato, ma a quanto si percepiva… anzi da lì non si percepiva nemmeno una briciola, se mai, si poteva dedurre che fosse piombato in uno di quei tempi più remoti, lontani anni luce dal loro qui in Inghilterra. Come avrebbero potuto tornare indietro, da quella distanza? Ovviamente, non avrebbero potuto.

    - Perché a Parigi? – chiese, stupita, Ann.

    - Perché ho spedito un telegramma. Questo naturalmente non c’entra nulla, perché il telegramma era per l’Albania, ma ho pensato sia meglio fermarci una notte a Parigi dai miei amici, così, per prendere tempo e pensarci meglio.

    - Per perdere tempo, dico io. – replicò Ann.

    Come se non l’avesse sentita Perlat passò oltre:

    - Non spero in una risposta valida, ma se dovesse arrivare, sapremo meglio come stanno le cose. Se non sarà tanto urgente, potremmo fermarci con comodo a Parigi.

    Ann lo guardava con aria interrogativa. Non aveva capito il filo del discorso, e per di più quella storia di Parigi. Tra sé si chiedeva se le fossero sfuggite delle parole o fosse lui che non era riuscito a farsi capire.

    Sicuramente questo momento difficile lo aveva confuso, perché di solito Perlat era molto schietto e non si riparava mai dietro a modi ambigui per non farsi capire.

    - Scusa ma, cosa c’entra Parigi? Non credo sia questo il momento giusto per un viaggio di piacere. – chiese lei alla fine.

    - Perché rispetto a noi, i miei amici di là sono più al corrente dei fatti albanesi. Parigi sarà una stazione per noi, specialmente per te. Quando ho detto per prendere tempo, volevo dire che con loro potremo ponderare meglio le cose.

    - No Perlat, si va direttamente in Albania, per non perdere tempo. Non possiamo lasciare Ellen molto a lungo. Spenderemo con i tuoi vecchi tutto il tempo necessario, ma solo da loro, non altrove. – disse arditamente Ann.

    Perlat rimase in silenzio per un po’ e lei, certa di averlo convinto, si alzò da tavola.

    - No! – gridò allora lui risoluto. – Non puoi impostarmi le tue decisioni, voglio dire non in questo caso. O andiamo prima a Parigi, oppure tu e George non partite con me. Questo momento della vita, se permetti, sarò io a deciderlo.

    - E se non permetto?

    Lui mosse il capo in senso di disapprovazione.

    - Oh Ann, lo devi permettere. – disse in tono morbido. – Te ne accorgerai che è giusto così.

    In quel momento George irruppe in stanza:

    - Ho visto Lizzie, sta arrivando. – disse esaltato.

    - Bene, è tempo anche per me di andare in Ospedale. Allora biglietti per Parigi. – disse alla moglie battendole dolcemente con un dito la punta del naso e poi la baciò, come faceva ogni giorno con lei e i bambini.

    - E tu ricordati di parlare con il professor Smith per il permesso. – gli rammentò Ann prima di chiudere la porta alle sue spalle.

    Con Jeremy, risultò molto più facile di quanto si era aspettata. Lui si era dimostrato molto morbido e accondiscendente. Aveva detto solo una volta che la loro decisione gli sembrava un po’ azzardata, ma senza incolpare Perlat, anzi non lo aveva nominato per nulla.

    - Come puoi lasciare la bambina che è così piccola, Ann? – era stata la sua unica osservazione.

    E quando lei gli aveva detto che sarebbe stata Suzan ad accudire Ellen, lui aveva risposto:

    - Se fossi io il padre non l’avrei permesso. Suzan non è come te, Ann. Lei è di carattere labile e inaffidabile.

    - Ti sbagli Jeremy, perché non c’è persona più affidabile di Suzan. Non dimenticare che sta crescendo un bambino da sola e in enormi difficoltà.

    Con Ellen nelle mani di Suzan io sono molto tranquilla.

    - Quanto pensi di fermarti? – aveva chiesto lui sin dall’inizio.

    - Una settimana, massimo due, ma non di più.

    - D’accordo, per due settimane Archibald saprà che siete andati in Francia, ma allo scadere della seconda settimana, se non sarai tornata, gli dirò la verità. Che Dio ti aiuti Ann e che aiuti tutti voi.

    Così aveva chiuso Jeremy quella breve conversazione telefonica.

    L’appartamento dove Suzan viveva insieme al figlio si trovava all’ultimo piano di una misera struttura di quattro piani in una via di periferia alquanto trafficata e polverosa. Nelle scale senza finestre stagnava un’aria soffocante e nauseabonda. Ai pianerottoli più della metà delle lampade erano fulminate, ma per gli inquilini bastava ce ne fosse soltanto qualcheduna a dare un accenno di luce appena sufficiente per orientarsi a trovare la porta del proprio appartamento. Si era costretti a procedere lentamente per le scale, aggrappandosi al corrimano dalla vernice screpolata, e fare attenzione a non scivolare tra gli elementi in ferro, arrugginiti e deformati della ringhiera. Per ogni gradino, prima di procedere, si doveva tastare col piede il pavimento, perché nelle scale di cemento scheggiate e mezze rotte c’era sempre il rischio di finire in un pezzo mancante e precipitare giù prima ancora di rendersi conto dell’accaduto. Per il resto, poco importava se le pareti erano di uno squallido marrone scuro e la vernice della parte bassa cadeva a pezzi; nella semioscurità questo particolare non suscitava alcun disturbo.

    Ann trovò Suzan nel mezzo di una lotta all’ultimo sangue per riuscire a far mangiare al figlio una ciotola di latte e biscotti, l’unico alimento che il bambino debole e malaticcio accettava meglio di primo mattino.

    Nonostante il disagio causato dall’abito umido di latte inzuppato che il piccolo le aveva rovesciato addosso, non smetteva di imboccarlo. Aveva pensato di cambiarsi dopo questa difficile impresa che doveva affrontare due volte al giorno. Andrew continuava a piangere ma Suzan non si arrendeva. Il latte era un bene prezioso, come lo erano le uova e la carne, il formaggio e il prosciutto che a quei tempi non si trovavano facilmente nella città suppliziata dalla guerra. Lei ed Andrew dovevano sentirsi fortunati ad avere zio Archibald che mandava loro ogni settimana tutto questo ben di Dio dalla fattoria. Suzan non si stancava mai di servire al figlio insieme ai pasti anche queste

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