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Che razza di calcio
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E-book311 pagine4 ore

Che razza di calcio

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Lo spettro del razzismo, dell’intolleranza, della discriminazione aleggia sul mondo del calcio. Negli stadi risuonano cori contro i neri, sugli spalti si srotolano striscioni contro gli ebrei, dirigenti sportivi rilasciano dichiarazioni offensive contro i calciatori gay. Anche tra i giocatori si annidano talora pregiudizi contro i compagni di squadra. Ma c’è chi reagisce: campioni che si dimostrano tali anche fuori dagli stadi, associazioni, semplici tifosi che amano il «gioco più bello del mondo» e i suoi protagonisti di ogni colore. Gli stadi, del resto, sono uno specchio della società: nel bene e nel male. Lo scrive, con una sintesi efficacissima, Lilian Thuram, difensore di Parma, Juventus, Barcellona e della Nazionale francese, uno dei più grandi di tutti i tempi: «Io sono diventato nero a nove anni, quando sono arrivato in Francia e ho incontrato i bianchi. Si diventa neri con gli sguardi degli altri». Di quegli sguardi, di quelle voci e di chi non ci sta parla questo libro di Lamberto Gherpelli, ripercorrendo il mondo del pallone dalle origini (quando era uno sport per soli inglesi bianchi) fino agli incombenti mondiali di Russia.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mag 2018
ISBN9788865791905
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    Che razza di calcio - Lamberto Gherpelli

    9788865791905

    Il libro

    Lo spettro del razzismo, dell’intolleranza, della discriminazione aleggia sul mondo del calcio. Negli stadi risuonano cori contro i neri, sugli spalti si srotolano striscioni contro gli ebrei, dirigenti sportivi rilasciano dichiarazioni offensive contro i calciatori gay. Anche tra i giocatori si annidano talora pregiudizi contro i compagni di squadra. Ma c’è chi reagisce: campioni che si dimostrano tali anche fuori dagli stadi, associazioni, semplici tifosi che amano il «gioco più bello del mondo» e i suoi protagonisti di ogni colore. Gli stadi, del resto, sono uno specchio della società: nel bene e nel male. Lo scrive, con una sintesi efficacissima, Lilian Thuram, difensore di Parma, Juventus, Barcellona e della Nazionale francese, uno dei più grandi di tutti i tempi: «Io sono diventato nero a nove anni, quando sono arrivato in Francia e ho incontrato i bianchi. Si diventa neri con gli sguardi degli altri». Di quegli sguardi, di quelle voci e di chi non ci sta parla questo libro di Lamberto Gherpelli, ripercorrendo il mondo del pallone dalle origini (quando era uno sport per soli inglesi bianchi) fino agli incombenti mondiali di Russia.

    L’autore

    Lamberto Gherpelli, già calciatore nelle giovanili della Reggiana, studia da decenni il mondo del calcio nelle sue diverse manifestazioni. Autore di numerosi libri, ha scritto per il Guerin Sportivo e per il Resto del Carlino di Reggio Emilia. Con le Edizioni Gruppo Abele ha pubblicato Qualcuno corre troppo. Il lato oscuro del calcio (2015).

    Indice

    Prefazione

    Introduzione

    I. Uno sport per soli bianchi? Dagli albori al regno di Pelé

    II. L’affacciarsi di razzismo e antisemitismo

    III. Tra sanzioni e cultura

    IV. Un giro nell’Italia del pallone

    V. Cattivi maestri e luoghi comuni

    VI. L’Europa alla vigilia di Russia 2018

    VII. Contro il razzismo: storie di straordinaria bellezza

    Conclusioni

    Elenco dei nomi citati

    Io sono diventato nero a nove anni,

    quando sono arrivato in Francia e ho incontrato i bianchi.

    Si diventa neri con gli sguardi degli altri.

    Lilian Thuram

    Prefazione

    dell’Associazione Italiana Calciatori

    Le colonne sonore dei nostri stadi. Luoghi particolari, vuoti che di tanto in tanto si riempiono, via via animati dalla passione, da quella miscela quasi misteriosa e segreta rappresentata dal tifo. Ancor più se espresso assieme, con una forza e una condivisione che è speciale, un qualcosa praticamente di unico in questo nostro mondo in cui sempre più siamo delle isole. Ma nei nostri stadi c’è pure altro. Spesso, troppo spesso, c’è violenza, c’è discriminazione. C’è l’accanimento contro, un tutti contro uno e già questo dovrebbe far pensare.

    Parla di razzismo, sì, il libro di Gherpelli, passando puntigliosamente in rassegna storie e storiacce, imprese che hanno davvero poco per essere celebrate. Sullo sfondo – quasi si possono sentire – sono comunque ben presenti le colonne sonore degli stadi, non solo italiani.

    Lì dal campo è diverso. Sarà in parte l’abitudine, sarà che c’è altro a cui pensare, sarà che spesso quel che arriva è qualcosa di indistinto e non hai il tempo di star lì ad ascoltare, già fai fatica a sentire quel che ti urla, a due metri, il tuo compagno. Ma non sono comunque degli acquari, certo che no. E spazio allora alle testimonianze di quattro compagni di viaggio dell’Assocalciatori, che di colonne sonore se ne intendono.

    * * *

    «Quel che non posso certamente dimenticare è l’atmosfera di certi stadi, un’ostilità pazzesca, con dentro di me una sensazione di assoluta impotenza… Ho avuto la grande fortuna nella mia carriera di poterla condividere con persone di tutte le parti del mondo. Vedendo così le diversità, le abitudini, i comportamenti. Anche nello stesso modo in cui viene pensato e vissuto il calcio: a volte fin troppo seriamente da noi italiani, con l’allegria dei brasiliani o con la determinazione per far carriera degli africani, per le esperienze di povertà che hanno vissuto e che si portano dentro. Diversi modi di vedere dunque le stesse cose e puoi così comprendere e anche apprezzare il diverso da te, prendendo il buono che c’è in tutti. La base di ogni cosa deve essere il rispetto, così la vedo. Vale per tutto, se rispetti non c’è razzismo; se rispetti non c’è femminicidio e così via. Ed è su questa direzione che bisogna lavorare soprattutto a livello giovanile, con i valori dello sport che sono valori sani. Abituando al rispetto verso l’arbitro, verso le regole, verso gli avversari che possono essere pure più bravi: tutte cose che poi ti ritrovi nella vita di tutti i giorni. Ecco perché deve essere proprio compito della Federazione aumentare la capacità dei tecnici, troppo poca la formazione che tuttora c’è per i settori giovanili. L’idea è quella del seme da piantare, che deve essere continuamente annaffiato con e da persone preparate».

    Simone Perrotta (campione del mondo a Germania 2006)

    «Gli insulti sul campo? Sarà mortificante, anche amaro, ma che ci puoi fare? Dai, arrabbiarsi non serve e reagire può essere anche peggio: forse la cosa migliore è mostrare indifferenza. Forse in questi ultimi tempi qualcosa sta cambiando, ci sono adesso delle regole più stringenti, però è un discorso lungo… è dalla base, dai bambini che si deve cominciare. Dentro mi porto i miei venti anni di calcio giocato e non posso dire che le cose siano migliorate, non vedo purtroppo cambiamenti. Nemmeno fatti tragici come la morte di tifosi e poliziotti sono serviti a modificare almeno un po’ quel che si chiama cultura sportiva.

    Mi sono sentito più a disagio per le offese che arrivavano a questo o quel mio compagno di squadra, che quelle verso di me. Insulti che vanno a toccare la tua sensibilità e ognuno ha la sua. Possono essere insulti razziali, religiosi, di discriminazione territoriale, politica, di omofobia. L’unica cosa che potevo dir loro era quella di lasciar stare, di cercare di non ascoltare: c’era chi pativa nulla, chi invece di più. A Napoli ho giocato per quattro anni, casi di discriminazione territoriale non so quanti ne ho sentiti, mai però un mio compagno napoletano ha pensato di andarsene dal campo per protesta. Sono discorsi complessi, grandi, che devono partire dalla base, dalla famiglia, dalla scuola: troppo grande il tutto per credere di avere la soluzione pronta».

    Morgan De Sanctis (team manager della Roma)

    «Per quel che si vede e per quel che si sente devo dire purtroppo che gli stadi, sia in Argentina che in Italia, sono sempre più dei luoghi aggressivi. Si sentono i cori, tante volte belli ma altre brutti, che incitano alla violenza, alla vendetta o delineano una linea di frontiera nord-sud, est-ovest. Un fenomeno questo che sta accadendo anche in Argentina, con l’ingresso nel nostro Paese di persone di nazioni limitrofe (Paraguay, Bolivia, Perù). Una delle tifoserie più colorite e popolari su tutto il pianeta è quella del Boca Juniors. In ogni partita riempie gli stadi e trasmette i suoi cori, il suo senso di appartenenza e la sua allegria, ma purtroppo viene sempre attaccata con cori razzisti (e classisti): l’accusa è quella di essere boliviani e paraguaiani, come se questo fosse un delitto. Mi viene in mente qui in Italia la tifoseria del Napoli, tante volte aggredita per simili ragioni.

    Prima si pensava solo a giocare a calcio e basta. Col passare del tempo i calciatori hanno dovuto diventare professionisti, curando ogni particolare. Oggi siamo nel periodo della comunicazione e della esposizione: noi calciatori non possiamo guardare altrove, dobbiamo essere consapevoli del nostro ruolo. I vari social li dobbiamo saper usare, assieme a quell’altro nostro strumento di comunicazione (e non solo) che è il calcio. Per far capire a tutto il mondo che siamo tutti uguali e che tutti abbiamo gli stessi diritti. Così il calcio sarà per tutti ancora più bello».

    Nicolás Burdisso (calciatore del Torino)

    «Non mi è mai capitato d’aver problemi per la pelle che ho, mai. E sono la prima a scherzarci su, convinta come sono che sia una mia forza, altrimenti non avrei le capacità fisiche che ho. Adesso hanno fatto pure una Barbie con le mie sembianze: visto che è un punto di forza questo mio colore di pelle? Ho giocato a Parigi, col Paris St. Germain. In una società – quella francese – che l’immigrazione l’ha conosciuta più e prima di noi, lì sì che sono davvero misti. La mia diversità, che da noi ancora si nota, lì si annullava: era proprio una francese quella che avevano davanti, tanto che c’era poi l’effetto contrario, ma come, non parli francese? Tutto si aspettavano, ma non che fossi un’italiana. Lo spogliatoio è una palestra di vita, che educa: la convivenza ti fa toccare con mano le diversità culturali, le abitudini. Esperienze che ti aiutano ad accettare il diverso, a vederlo con altri occhi, a saperne di più. Che so, compagne di cultura araba, e così vedi il loro comportamento per esempio a tavola, quel che mangiano, il tempo dedicato alla preghiera. Così ti abitui e diventa normale, ci vivi assieme. Il diverso fa paura finché non lo conosci».

    Sara Gama (capitano della Juventus Women e della Nazionale; mamma triestina, papà congolese)

    * * *

    In bocca al lupo dunque al libro, per un tema su cui da tempo l’Aic è impegnata. Impegno che continuerà.

    marzo 2018

    Introduzione

    Quando il calcio venne inventato dagli inglesi nel 1863 gli atleti di colore erano discriminati in gran parte del mondo. C’erano la schiavitù, il colonialismo e non solo. Il calcio nacque per inglesi benestanti e bianchi. Le tre conseguenti interdizioni vennero esportate in tutti quei luoghi dove gli inglesi portarono il calcio. Con gli anni, il calcio non fu più solo inglese e per benestanti; tuttavia l’apertura ai calciatori di colore fu molto selettiva, con le sole eccezioni di Uruguay e Francia che negli anni Venti schierarono in Nazionale, seppure con molte difficoltà, José Leandro Andrade detto Maravilla negra e l’afro-francese Pierre Chesneau. In Brasile, con una popolazione a maggioranza meticcia, l’apertura avvenne intorno agli anni Venti e Trenta, mentre le Nazionali europee attesero molti anni prima di far esordire calciatori di colore. Anche in un Paese multirazziale come l’Inghilterra il primo calciatore di colore a indossare la maglia dei «Leoni» d’Inghilterra fu Viv Anderson il 29 novembre 1978, nell’1-0 inflitto alla Cecoslovacchia in una gara amichevole. La Germania schierò il primo giocatore nero nel 1974, la Spagna nel 1994. In Italia il primo calciatore nero, o meglio meticcio, a indossare la maglia della Nazionale maggiore fu Fabio Liverani il 25 aprile 2001 a Perugia, in Italia-Sudafrica (1-0), sotto la direzione del commissario tecnico Giovanni Trapattoni. Il primo giocatore di colore a vestire in assoluto la maglia di una Nazionale italiana, fu però Dayo Oshadogan, il 3 ottobre 1996, nello stadio di Chisinau, in Moldova, dove l’Italia allenata da Cesare Maldini vinse per 3-0. Eppure siamo stati un Paese di oriundi, con esperienza coloniale e migratoria e con flussi migratori in entrata dalla metà degli anni Settanta.

    Il fatto che in altri sport alcuni black italians abbiano esordito prima (basti pensare che il meticcio Giacomo Puosi gareggiò alle Olimpiadi del 1968 nei 400 metri) la dice lunga su quanto in Italia – come scrisse già nel 1995 Gian Paolo Ormezzano¹ – il problema del razzismo nello sport stia proprio nel calcio.

    Espedienti e cattiverie per fregare l’avversario sono soltanto la sintesi, in campo, degli ululati, dei cori di massa sugli spalti ogni volta che il nero antagonista tocca il pallone, degli striscioni, dei cartelli. Tifoserie di squadre che pure devono ai calciatori di colore un grosso apporto di gol, di gioco e di risultati, insultano, deridono, maledicono il nero che gioca nelle file avversarie. Difficile non sentire, possibile non ascoltare, cioè non fare attenzione ai particolari della ignobile e sporca faccenda. Oltre al tifoso nascosto nella curva calda, c’è chi insulta in campo rischiando il cazzotto di reazione (a meno che ci sia il calcolo della provocazione). Scoprire la brutta cosa solamente se sono calciatori famosi a lanciare l’accusa è ipocrisia. Da sempre esiste il razzismo nello sport: basti pensare a che cosa accade ancora oggi al contatto con il presunto civilissimo Nord di squadre e tifoserie meridionali. Casomai adesso c’è più razzismo mirato, appunto contro i giocatori di colore. Le ragioni – per usare ancora le parole di Ormezzano – possono essere due. La prima, vecchia di molti anni, è banale: «I neri adesso sono numerosi nel nostro calcio, che nel passato per molto tempo ne ebbe sette davvero importanti, cioè Jair da Costa all’Inter, Cinesinho (mulatto) alla Juventus, Cané al Napoli, Nené al Cagliari, Amarildo, Benitez e Germano al Milan, il quale si fece notare più per motivi sentimentali – il legame con la contessina Agusta – che per motivi calcistici». La seconda ragione risiede «nell’allergia che molti scoprono dentro per gli extracomunitari. Cosa fare? Denunciare e squalificare!». È pur vero che uno che accede al razzismo, e per di più a queste rozze esternazioni, non ha la testa per capire la cosa orribile che frequenta, ma esiste anche un problema della nostra coscienza. Da Atene 1896, anno della prima Olimpiade moderna, fino alla nascita delle Paralimpiadi per disabili, molti hanno guardato allo sport per migliorare almeno un po’ il nostro mondo e diffondere principi come tolleranza, uguaglianza, rispetto e integrazione. Tantissime sono le storie individuali di uomini e donne, famosi e non, che grazie all’impegno agonistico hanno vinto vere e proprie battaglie personali. Ma da sempre c’è anche qualcuno che non la pensa così. E a volte questo qualcuno ha atteggiamenti tipicamente razzisti.

    Le minacce e gli insulti, nel gioco del calcio, sugli spalti e addirittura sul terreno di gioco, sono una consuetudine, quasi una regola, oltre il colore della pelle. Dalla seconda metà degli anni Ottanta anche l’antisemitismo è entrato a far parte dell’arsenale degli ultrà, benché il fenomeno sia esploso soprattutto alla fine del decennio successivo. In Italia il primo episodio di rilievo al riguardo risale al 1979, quando i tifosi della squadra di basket di Varese, che ospitava gli israeliani del Maccabi Tel Aviv, mostrarono in segno di odio per gli avversari delle bare e delle croci accompagnandole con slogan che inneggiavano ai campi di sterminio tipo: «Adolf Hitler ce l’ha insegnato, uccidere gli ebrei non è reato»². Questo nella pallacanestro: e nel calcio? Il termine ebreo (o giudeo) venne introdotto, appunto, negli anni Ottanta come insulto lanciato contro la squadra o la tifoseria avversaria e diventò di uso comune: si pensi al «Napoletani, ebrei, stessa razza, stessa fine» cantato allo stadio San Siro/Meazza di Milano dai tifosi di Inter e Milan. Ma è negli ultimi due decenni che l’antisemitismo degli ultrà ha assunto nuovi caratteri diventando più aggressivo e politicizzato e si è iniziato a fare un uso più esteso di slogan negazionisti e antisionisti. Ad esempio nel novembre del 1998, durante il derby Roma-Lazio, la curva nord biancoceleste espose un enorme striscione con la scritta: «Auschwitz la vostra patria, i forni le vostre case». Una commistione tra antisemitismo e antisionismo si verificò, poi, nel novembre 2012 all’Olimpico di Roma nel corso di una partita della Lazio contro gli inglesi del Tottenham, quando gli ultrà biancocelesti cantarono «Juden Tottenham» sventolando bandiere palestinesi.

    Nell’ultimo quindicennio l’antisemitismo da stadio promosso dagli ultrà del football è diventato sempre più violento e ideologizzato in molti Paesi europei. Secondo il recente report a cura della European commission against racism and intolerance, Annual Report on Ecri’s Activities, il problema del razzismo continua a essere molto presente nello sport, specie nel football, in assoluto il più colpito dal fenomeno. La francese Ligue internationale contre le racisme et l’antisémitisme (Licra) ha più volte denunciato l’uso di simbologie e slogan nazisti durante le partite di calcio amatoriale francese e la Federazione delle Comunità ebraiche d’Ungheria ha sottolineato che gli slogan antisemiti negli stadi magiari non sono mai stati così virulenti dagli anni Quaranta. In Inghilterra, Paese che meglio di altri riesce da anni a contrastare l’antisemitismo negli stadi, i report del britannico Community security trust evidenziano una realtà fatta di canti antisemiti fuori e dentro gli stadi («Adolf Hitler sta arrivando per voi», «Spediamo gli ebrei ad Auschwitz», «Meglio essere un pachistano che un ebreo»), di insulti a giocatori e dirigenti ebrei e di social network – specie Twitter – trasformati in spalti virtuali dove socializzare e amplificare l’odio³.

    La pericolosità dell’antisemitismo da stadio è di chi lo tollera e lo incoraggia più di chi lo pratica. Questi ultimi esprimono per grettezza, stupidità e ignoranza idee e immagini delle quali nella maggioranza dei casi non conoscono la storia. La xenofobia e l’odio per il diverso hanno un peso determinante. E il diverso è il tifoso della squadra avversaria, il nemico identificato di volta in volta con il negro o l’ebreo. Ma chi ha tollerato tutte queste manifestazioni, e cioè il pubblico sportivo, i giornali e soprattutto i dirigenti delle società di calcio, ha responsabilità maggiori. Il sociologo Mauro Valeri, direttore dell’Osservatorio sul razzismo e studioso del fenomeno, intervistato dal Corriere della Sera, indica una media di cinquanta episodi di razzismo per ogni stagione calcistica in Italia, cifra molto più alta di quella di altri campionati. Le ammende per questi episodi ormai vengono rubricate dai giornali nelle notizie brevi, anche se le società hanno dovuto pagare migliaia di euro per responsabilità oggettiva. Ma oggi la parola razza ha ancora un senso (ammesso che mai lo abbia avuto)? Oggi, quando il 44,2 per cento degli studenti delle nostre scuole è di origine straniera⁴, come si interagisce con la differenza di colore della pelle, di religione, di lingua, di abitudini sociali e alimentari, di sogni e di aspettative?

    Il confronto, la conoscenza e lo scambio sono alla base di tutti i programmi e di tutte le azioni che puntano a sconfiggere il problema del razzismo e delle discriminazioni. Lo sport dovrebbe in questo senso essere un elemento facilitatore: il suo linguaggio non verbale permette, infatti, la conoscenza e agevola la comunicazione. Eppure dalle tribune, nei commenti dei media, negli stessi regolamenti delle varie federazioni fino ad arrivare alle società amatoriali, si verificano spesso episodi di esclusione. Così persone che hanno un colore di pelle differente, che provengono da Paesi al di fuori della Comunità europea, che professano religioni differenti, che sono gay o lesbiche o hanno disabilità, vengono esclusi dal gioco, giocato o tifato che sia. Il motivo di maggiore preoccupazione è legato a un forte aumento di episodi di discriminazione razziale nei tornei giovanili dove i ragazzi di colore, o con lineamenti indicativi di un’origine straniera, sono spesso oggetto di pesanti attacchi verbali da parte del pubblico sugli spalti. Per questo, dal 2013, l’Assocalciatori ha varato il progetto Aic Camp, stages estivi di calcio che propongono l’attività sportiva in un contesto di vacanza e animazione con l’obiettivo di veicolare quei valori di fair-play ed etica sportiva che sono alla base del lavoro dell’Associazione e più specificatamente del Dipartimento Junior coordinato dal campione del mondo Simone Perrotta.

    Intanto l’Africa, pur avendo un terzo delle nazioni affiliate al Cio, può contare solo su otto degli ottanta membri dell’Assemblea. Tanto resta da fare per abbattere i muri della discriminazione razziale e religiosa nello sport. I calciatori neri un tempo venivano esclusi o sbeffeggiati e ancora oggi sono spesso vittime di insulti e oltraggi. In questo momento, poi, si sta arrivando al paradosso di considerare alcuni atleti come eroi (normalmente i coloured della propria squadra) e gli altri (gli avversari) come «scimmie ammaestrate».

    Lo spettro del razzismo aleggia soprattutto nell’Europa dell’Est. Mentre la Russia si prepara a ospitare i campionati mondiali di calcio, un report del network londinese Fare denuncia la piaga razzista e xenofoba negli stadi del Paese e una frangia di tifosi della Dinamo Kiev giunge a indossare maschere del Ku Klux Klan in segno di disprezzo verso gli avversari dello Shakhtar, rei di schierare un alto numero di giocatori di colore. Anche per questo è importante parlarne.

    marzo 2018

    Ho raccolto le informazioni riportate nel testo dai pochi libri e dai siti che si occupano del tema, da quotidiani e periodici (sportivi e non). Ringrazio tutti coloro che, con la loro collaborazione, hanno reso possibile questo lavoro. Un ringraziamento particolare devo, peraltro, a Mario Valeri, Matteo Marani, Paolo Rossi (omonimo dell’ex calciatore), Pino Lazzaro e all’Assocalciatori che mi ha incoraggiato e sostenuto nell’iniziativa.

    1 G.P. Ormezzano, In campo fra minacce e viltà, in La Stampa, 25 ottobre 1995.

    2 Alcuni autori di quell’episodio di violenza razzista, realizzato da giovani del Fronte della Gioventù, furono condannati in sede penale.

    3 Antisemitic football tweets, in osservatorioantisemitismo.it, lettera di informazione, 4 aprile 2014.

    4 Fonte Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (Miur).

    I. Uno sport per soli bianchi? Dagli albori al regno di Pelé

    In principio furono Watson, Wharton e Tull

    Già nel racconto omerico si narra dei viaggi di Ulisse sull’isola di Scheria dove uomini e donne davano spettacolo lanciandosi una sfera:

    Nelle man tosto la leggiadra palla

    si recaro, che ad essi avea l’industre

    Polibo fatta, e colorata in rosso.

    L’un la palla gittava in ver le fosche

    nubi, curvato indietro; e l’altro, un salto

    spiccando, riceveala, e al compagno

    la rispingea senza fatica o sforzo,

    pria che di nuovo il suol col pie’ toccasse.

    Da allora, attraverso continue evoluzioni nei secoli, si è giunti all’Ottocento, ovvero alla nascita ufficiale del calcio, nella Freemasons’ Tavern di Queen Street in Londra, lunedì 26 ottobre 1863.

    Il calcio genera spettacolo, sposta ricchezza e produce violenza. Si ciba di eccessi e in centocinquant’anni non ha mai seguito percorsi rettilinei. Non è una coincidenza la circostanza che a squadre e popolazioni di generazione in generazione più meticce e multietniche si affianchi una forte presenza di razzismo e antisemitismo. Il fatto è che nessun happening regala la cassa di risonanza che offre il calcio, i suoi volutamente fragili paletti (fra nazionale e nazionalismo), il suo essere di tutti e, quindi, essere tutto o, all’occorrenza, niente.

    Molti immaginano che solo dagli anni Trenta o forse dagli anni Venti del Novecento si siano visti calciatori neri in un campo di calcio. Non è così. Almeno tre calciatori di colore – Andrew Watson, Arthur Wharton e Walter Tull – hanno giocato in Gran Bretagna fra la fine dell’Ottocento e gli inizi della Grande guerra.

    Sebbene Arthur Wharton sia comunemente ritenuto il primo giocatore nero della storia calcistica, il primato spetta invece ad Andrew Watson, che lo precedette di oltre un decennio. Watson, nato il 24 maggio 1856 a Demerara nella Guyana britannica, era un meticcio, figlio di un ricco piantatore di zucchero scozzese e di una donna del posto. Nel 1871 si stabilì in Gran Bretagna con il padre e la sorella maggiore. La sua carriera calcistica iniziò nel 1874 nelle file del Maxwell football club e successivamente nel Parkgrove Fc. Il 14 aprile 1880 venne selezionato per rappresentare Glasgow contro Sheffield. Glasgow vinse 1-0 al Bramall Lane di Sheffield. Nel mese di aprile del 1880 firmò per il Queen’s Park – allora la più grande squadra del calcio scozzese – conquistando la Coppa di Scozia e diventando così il primo giocatore di pelle scura a vincere una competizione. Nella stagione 1880-81 giocò nella Scottish football association. Il suo debutto venne descritto come segue: «Watson, Andrew: da quando è arrivato al Queen’s Park ha dimostrato di essere un giocatore dotato di grande velocità, dal calcio potente e sicuro, è ben degno di un posto in una squadra rappresentativa»⁵.

    Arthur Wharton fu il primo calciatore nero professionista. Arrivò in Inghilterra dalla Gold Coast, oggi Ghana, nel 1884, a diciannove anni. Figlio di un missionario e ministro metodista originario di Granada, Caraibi, fu mandato a Darlington, nord-est dell’Inghilterra, per studiare teologia. Poco attratto dalle pratiche metodiste ma molto metodico nell’applicarsi a ogni tipo di sport, in meno di tre anni si impose all’attenzione generale come sprinter diventando campione nazionale delle 100 yard e stabilendo, almeno secondo gli inglesi, il primato mondiale sulla distanza. Quando stabilì questo record ante litteram, Wharton era già il portiere del Darlington. «Magnifico», «invincibile», «grandissimo» sono gli aggettivi usati per descriverlo: pare che si accucciasse in un angolo della porta in attesa dei tiri avversari per poi compiere balzi memorabili alla ricerca del pallone, o che si attaccasse alla traversa per respingere con i piedi. Wharton fu convocato per la selezione locale (non c’erano ancora le Nazionali e nemmeno il campionato) e chiamato dal grande Preston North End per giocare la Coppa d’Inghilterra. Sempre indeciso sullo sport da praticare, nel 1888 lasciò il calcio per un anno e andò a correre a Sheffield, per poi tornare a giocare con il Rotherham, dove rimase sei anni. Wharton giocava anche a rugby. E poi a cricket, sport del

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