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Torino. Capitani e bandiere
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E-book441 pagine5 ore

Torino. Capitani e bandiere

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Info su questo ebook

Il racconto dei grandi campioni che hanno fatto la storia granata

Quella del Torino è una storia di gloria e di rinascita, la storia di una società passata dall’essere una delle più forti al mondo al doversi rialzare dopo una tragedia immane. E la risalita si deve agli uomini che hanno fatto della maglia granata la propria bandiera. Questo libro vuole rendere omaggio ai grandi condottieri del Torino, personaggi che hanno scritto pagine indimenticabili della storia del club non soltanto perché meglio di altri hanno guidato la squadra o dato calci al pallone, ma perché ci sono sempre stati, vigili e attenti, anche quando non erano in campo, nutrendo la fantasia dell’intero popolo del Toro. Storie belle, intense, di uomini granata dalla testa ai piedi, esempi di dedizione e affetto non solo a una maglia ma a un’idea di squadra, di società, di simbolo, al senso profondo di “essere del Toro”.

Campioni, idoli, eroi granata: un excursus sulla grande storia del Torino, tratteggiata attraverso i ritratti dei più grandi giocatori e allenatori

Tra i capitani e le bandiere del Toro:

• Aldo Agroppi • Enzo Bearzot • Andrea Belotti • Friederich Bollinger • Giorgio Ferrini • Guglielmo Gabetto • Valentino Mazzola • Vittorio Pozzo • Paolo Pulici • Luigi Radice • Renato Zaccarelli

Le gagliarde bandiere degli scudetti

I campionati 1927-28, 1942-1949 e 1975-76

E non finisce qui…

• Oscar Brevi • Giuseppe Dossena • Umberto Motto • Aldo Olivieri • Franco Ossola • Alessandro Rosina
Franco Ossola
torinese, figlio dell’attaccante del Grande Torino caduto a Superga, da anni si occupa della storia granata con l’intento di ricostruirne fatti, protagonisti, avventure. Sul tema ha pubblicato molti libri, fra i quali il volume celebrativo per i 100 anni del Club, e con la Newton Compton 101 motivi per odiare la Juventus e tifare il Torino; 1001 storie e curiosità sul grande Torino che dovresti conoscere; I campioni che hanno fatto grande il Torino; Il Torino  alla A alla Z; Forse non tutti sanno che il grande Torino…; La storia del grande Torino in 501 domande e risposte, Torino. Capitani e bandiere e, a quattro mani con Renato Tavella, il bestseller Il romanzo del Grande Torino (Premio CONI e Selezione Bancarella 1995) da cui è stata tratta la fiction RAI per la regia di Claudio Bonivento.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ott 2020
ISBN9788822743954
Torino. Capitani e bandiere

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    Anteprima del libro

    Torino. Capitani e bandiere - Franco Ossola

    Aldo Agroppi

    Il Toro nel destino

    (Piombino, 14 aprile 1944)

    Se questo non è destino!

    Intendo quello di Aldo Agroppi.

    Provate a immaginare la situazione e lo scenario.

    Sei appena arrivato nel club che ti ha cresciuto dopo qualche stagione di pellegrinaggio in giro per l’Italia e lo hai fatto, come dire, con un colpo di mano o, meglio, con una botta di coraggio e tempismo. Sei stanco di girovagare, hai voglia di tornare a casa, se dovevi crescere l’hai fatto nei campi di periferia, in battaglie dure nelle serie inferiori a Terni, a Potenza. Vuoi a tutti i costi metterti alla prova: sono o non sono un bravo calciatore? ti chiedi. Il sogno che ho nel cuore riesco o no a realizzarlo?

    Che cosa c’è di meglio che farsi promotore di se stesso.

    E così il ventitreenne intraprendente Agroppi si presenta a Edmondo Fabbri, l’allenatore granata. Sa che si gioca una carta decisiva, ma ha talmente voglia di vestire la casacca del Torino che più che l’alea di un possibile fallimento lo sprona la risolutezza dell’incoscienza, come a dire o la va o la spacca.

    Se la spacca finisce a Modena, che lo ha ripetutamente richiesto, se la va entra nella rosa dei titolari e allora se la dovrà giocare al meglio.

    A Fabbri, che comunque ne conosce le caratteristiche, avendolo visto giocare in qualche occasione, la spregiudicatezza del ragazzo piace: niente intermediari, nessuna interposta persona, lui che viene a chiedermi di dargli una chance. Se la merita e arriva il placet. Lui stesso, quasi commosso, ama ricordare:

    Ancora adesso, dopo tanto, non posso dimenticare come Fabbri mi guardò, come fu umano, comprensivo con me. Fu gentile e onesto. Certo, senza di lui non sarei mai tornato. E forse mi sarei perduto. Lui non solo mi prese, ma mi insegnò molte, moltissime cose, innanzitutto una mentalità difensiva, l’arte di saper marcare, che ignoravo perché in origine ero stato mezzala. Lui mi ha creato questa mentalità, mi ha insegnato i primi trucchi del mestiere, mi ha fatto intendere quali rapporti si debbano tenere con la gente, a stare attento a quello che si dice. Senza Fabbri non so dove sarei, forse a lavorare con mia madre nel ristorante di Piombino, Da Duilia. Ma Fabbri mi ha capito. Sai che cosa vuol dire per un giocatore, per un uomo diciamo, venir capito? È tutto.

    La dirigenza granata lo riaccasa. Dalla stagione 1967-68 Agroppi è un nuovo giocatore del Torino. Non è previsto un posto da titolare, perché la mediana che Fabbri ha in mente contempla lo stopper Puia, il libero Cereser e un laterale di sostegno fra Ferrini, Corni e Bolchi. Nessuna paura. Agroppi è un ragazzo svelto e intelligente, sa che ha ancora molto da apprendere. Per intanto fiuta, annusa, tende l’orecchio, assimila, imita, impara. Si impegna in allenamento e aspetta quasi spavaldo.

    Ma, lo si sa, la fortuna dà sovente una mano agli audaci.

    Agroppi non deve attendere troppo per il debutto. Per la seconda gara interna, dopo la prima vinta 2-0 contro il Brescia, al Comunale è attesa la Sampdoria, una squadra giovane e pimpante. L’infermeria di Fabbri ha qualche lettino occupato: Fossati, Cereser e Ferrini danno forfait.

    A metà campo c’è un buco da colmare.

    È il 15 ottobre 1967, una data che il tifoso del Toro non può dimenticare.

    E qui ecco di nuovo la trama del destino mettersi in gioco.

    Il Toro si schiera in questa formazione: Vieri, Poletti, Trebbi, Puia, Agroppi, Bolchi, Meroni, Corni, Combin, Moschino, Carelli. Come ala destra c’è Luigino Meroni, un vero asso. Vengono i brividi a scriverlo, perché nessuno può immaginare che quella sarà la sua ultima partita.

    Il solo forse ad averne triste sentore è proprio lui, il Calimero granata.

    La partita è stata bella, intensa. Un Torino quadrato, con un Combin in stato di grazia autore di una tripletta, esce dal campo vittorioso 4-2. La gente si è divertita e ha gustato, da intenditrice, le giravolte, le piroette, le invenzioni, i dribbling di Meroni che ha disputato una bella gara. Tuttavia a fine partita, nel tratto che dal campo conduce agli spogliatoi, un fotografo ha il tempo di riprendere un Meroni solitario, gli occhi abbassati a terra, lo sguardo quasi triste, come presago. Osservando l’immagine viene quasi da domandargli: ma come, hai giocato bene, la squadra ha vinto anche per tuo merito, ti aspetta un bel fine di domenica e ti lasci andare alla tristezza?

    Di tutt’altro umore Agroppi che ha giocato in modo convincente e riceve i complimenti dai compagni per il felice esordio. Sorride, è contento. Non può immaginare che da lì a poche ora alla notizia della improvvisa morte del compagno saranno solo stupore e lacrime a segnare il suo volto. Una maschera di dispiacere e dolore.

    Un po’ quella stessa espressione sofferta che in lui tradisce la fatica ogni volta che, a fine match, lascia il terreno di gioco pressoché stremato; per l’impegno e l’agonismo mai venuti meno in tutti i novanta minuti, il fisico, già stirato, ancora più affilato e smagrito, il volto come impallidito ma sereno per la sensazione di aver dato tutto. Generosità e coraggio la sua ricetta agonistica, a costo di sfinirsi.

    Da qui, con la solita pungente ironia, uno degli appellativi che sin da subito la tifoseria gli appioppa: agonia. Dapprima un poco se la prende, poi ci scherza su, anche perché, da salace toscano, lo scherzo fa parte del repertorio dei suoi tratti caratteriali. E passa così al contrattacco:

    Bene, bene… sì, sì… chiamatemi pure agonia, ma siate sinceri, cari tifosi, non sono forse autorizzato a ritenere che ciò che combino in campo è da voi apprezzato? E che mettercela sempre tutta è cosa che vi garba in un giocatore? E forse vi viene a disgusto quando mi riesce di rifilare qualche regalino ai gobbi? Non credete che, agonia per agonia, possa con questo meritare la vostra stima?

    Ma certo, anche perché, maturando, e una volta conquistato per merito il posto fisso da titolare, Agroppi richiama alla mente dei tifosi più maturi un altro grande della storia granata, Eusebio Castigliano. Nel fisico, allampanato e asciutto, lo ricorda, anche se il laterale del Grande Torino mostrava una maggiore potenza a scapito di una minore agilità pro Agroppi. Come zampa di velluto, ha un passo cadenzato, niente affatto lento, ma some compassato. L’impressione che desta in chi osserva è che su certi palloni non faccia in tempo ad arrivare, considerata l’ampia falcata e l’apparente relativa velocità. Eppure non è così, perché Agroppi il più delle volte ci arriva e, quel che più conta, lo fa con la lucidità necessaria per fare ripartire l’azione d’attacco, per innescare nel modo più proficuo il movimento di un compagno.

    Certe volte, immerso nei bianchi bragoni, tirato com’è sembra sparire, come se le gambe fossero inghiottite e non avessero energia. Impressioni false: se c’è una qualità che in lui si esalta è proprio la decisione, il nerbo, la determinazione. Che è poi quella forza che gli fa contrare, inseguire, marcare, stoppare l’avversario; che gli dà l’intuizione del corridoio, del lancio vincente, quello che apre l’autostrada verso la porta all’attaccante. Passato alla storia, il filtrante per Paolo Pulici in occasione del derby del 5 novembre 1972 a seguito del quale il bomber granata ottenne forse il gol più bello della sua immensa carriera di giustiziere, superando con un diabolico, quanto preciso, lob il monumento juventino Dino Zoff.

    Parlare di stracittadina per Agroppi è come suscitare il ribollir del sangue, come mostrare il drappo rosso della muleta al toro, come scatenare un sentimento di rivalsa capace di innescare un furore agonistico ancora più accentuato del solito. Nei rivali cittadini della Juventus, Agroppi scorge infatti l’esatto opposto di ciò che il suo Torino rappresenta: la boria opposta all’umiltà, la ricchezza alla ristrettezza, la filosofia del tutto facile contrapposta a quella della sofferenza, la vita sempre in discesa opposta a quella che invece va sempre in salita:

    So ben io, perché me lo sento dentro, che cosa significhi amare il granata. Essere del Toro significa da sempre vincere poco e soffrire tanto; ma io credo che questo non sia un male ma un privilegio. Non baratterei Superga con nessuna vittoria, agli altri lascio gli scudetti a pioggia, io mi tengo le mie sofferenze ma anche i nostri tesori eterni.

    Per questo entrare in pista contro la Vecchia Signora significava per Agroppi immergersi in una condizione al limite della trance, come se al posto del tè nello spogliatoio avesse assunto la specialissima droga del furore agonistico sparato a mille, come se altra parola d’ordine non ci fosse che quella di battersi alla morte. Ne disputa quindici di derby e in tre occasioni va pure a segno. Difficile scordare la prima, che coincide anche – e guarda di nuovo il destino! – con il suo primo gol nella massima serie. A sette minuti dalla fine di un match che sta in equilibrio perfetto per le reti di De Paoli e Facchin, il Torino gode di una punizione dal limite. Il bianconero Leoncini ha atterrato Carelli. Poletti si affretta a battere e con sana intuizione imbecca proprio Agroppi nel cuore dell’area, colpo di testa e gol vincente. Al Toro che ha conquistato il derby di andata, la gloria stagionale cittadina.

    Che goduria unica fare gol! Ma pure quanta delusione quando te lo negano, specie poi se in grado di cambiare il corso, non solo di una partita, ma di un intero campionato. È quello che accade il 12 marzo 1972 a Genova. Il Torino di mister Giagnoni, in lotta per il titolo con Juventus e Milan, è sotto di un gol. Piove a dirotto, fango e confusione. A poco dalla fine una palla spiove in area sampdoriana e Agroppi la colpisce di testa indirizzandola in rete. Da dietro la linea bianca viene rigettata in campo. L’arbitro convalida, poi si consulta col segnalinee e annulla, poi ci ripensa, poi annulla in modo definitivo, dopo aver cacciato dal campo capitan Ferrini che chiedeva lumi. Ad Agroppi resta il disappunto, al Torino tutto un pugno di mosche, perché nella peggiore delle ipotesi quel punto in più avrebbe voluto dire spareggio per il titolo.

    Tornando ad Agroppi: più destino di così! Eppure non basta, il suo marchio più feroce il destino lo deve ancora imprimere nella sua carriera granata.

    Per la stagione 1975-76 arriva in panchina Gigi Radice, idee nuove, aria di rinnovamento. Qualcuno della vecchia guardia va sacrificato, in cima alla lista Cereser e Agroppi. Inutile il tentativo estremo di chiedere di restare, magari fra le quinte delle riserve. La destinazione è Perugia, una bella piazza, ma sarebbe stato ancor più bello restare al Torino.

    Un Toro che si fa arrembante e vince il titolo. Un tricolore inseguito per otto stagioni e solo sfiorato e ora finalmente arrivato ma senza il suo apporto, sembra davvero una beffa. Sono cosa buona le due coppe Italia, ma vuoi mettere lo scudetto.

    Beffa molto simile all’ultima che lo mette in contatto col mondo granata, quando corre insistente la voce che si possa sedere sulla panchina del club. Un tira e molla breve ma intenso, che suscita nell’animo di Agroppi speranze e delusioni a tasso elevato. Perché a Torino come allenatore lui ci sarebbe venuto a piedi.

    E allora, chiuse le feroci battaglie in campo o seduto su panchine non colorate di granata, dopo stagioni di dialettica televisiva, è Piombino, la sua terra, che sempre lo accoglie, come un’amorevole madre. E il ricordo riassume una vita intera nei libri che firma, pagine di concretezza umana, di rimembranze e nostalgia, di gioia soffocata e di giornate tristi, di impegno morale e di un affetto, quello verso il Torino, che non ha mai smesso di alimentare la sua parola e il suo cuore.

    Letture consigliate:

    Aldo Agroppi, A gamba tesa, Eco, Milano, 2005.

    id., Non so parlare sottovoce, Cairo Editore, Milano 2017.

    Antonino Asta

    Ercolino sempre in piedi

    (Alcamo, 17 novembre 1970)

    Reggio Emilia, 21 giugno 1998, pomeriggio.

    Torino e Perugia sono al redde rationem al termine di un campionato di serie B a dir poco logorante che ha corroso garretti e spiriti. Salernitana, Venezia e Cagliari già hanno staccato il biglietto per la risalita in A, a completare il quadro ne manca una. Il toro o il grifone. Varrà più l’impeto di corna robuste ma un po’ logore, oppure gli artigli affilati di un grifone lanciatissimo e protagonista di un rush conclusivo che ha dell’incredibile?

    Nell’altalena continua di un sali e scendi che non ha mai avuto sosta, le due squadre si sono date battaglia non solo sul prato, ma anche nei continui punzecchiamenti consegnati ai mass media, con dichiarazioni sempre più caustiche, mano a mano che le giornate rimaste per chiudere il torneo si facevano sempre meno numerose.

    Partito col piede sbagliato, sotto la guida di un allenatore britannico, Graeme Souness, fermo al calcio italiano di più di un decennio prima e del tutto alieno alla serie cadetta, il Toro era come rinato con il suo sostituto in panchina, il saggio Edoardo Reja. Dalla coda della classifica la risalita era stata lenta ma costante, agevolata anche dall’acquisto in corsa di validissimi rinforzi come Brambilla, Bonomi, Fattori e il portiere Bucci. E il sogno della riconquista della A si era fatto concreto gara dopo gara.

    Ma un merito speciale andava anche ascritto a una vera rivelazione, approdato in casa granata in estate dal Monza, un serbatoio sempre generoso per le sorti granata (come scordare, per esempio, i due Sala e Luciano Castellini): Antonino Asta.

    Per lui era alla fine scoccata, per quanto inattesa ma quanto mai benedetta, l’ora del grande calcio, del football che conta, come si è soliti dire. Un buon campionato, il suo, con un bel gruzzolo di presenze, sebbene quella che stava per andare in scena da lì a poco non sarebbe comparsa nel suo tabellino statistico. La grande sfida l’avrebbe seguita soltanto da spettatore, da tifoso interessato, ma quanto avrebbe dato per esserci! Che sofferenza nel vedere i compagni battersi come leoni e uscire stremati, dopo aver dato tutto, ma sconfitti per la bizzarria di un tiro che nella lotteria dei calci di rigore finali si era schiantato su un palo.

    E che emozione vedere capitan Cravero, all’atto finale di una carriera strepitosa consumata col Torino nel cuore, piangere calde lacrime seduto sul prato, a centrocampo, la delusione grande di aver sperato invano fino all’ultimo di chiudere, trascinando ancora una volta il suo Toro in alto.

    Non poteva immaginare, Asta, che quella fascia bianca attorno al braccio gli sarebbe toccata da lì a poco. Perché se l’impresa che in quel triste giorno di giugno era fallita, con lui stabilmente nell’undici titolare si sarebbe invece concretizzata l’anno successivo.

    Così, fra sofferenza e lacrime, soddisfazione e orgoglio, Asta aveva conosciuto il Torino, diventando uno dei pilastri della squadra che la dirigenza dei cosiddetti genovesi (Vidulich, Palazzetti, Bodi e Regis Milano, succeduti a Gianmarco Calleri) aveva messo insieme palesando grandi ambizioni.

    Un sogno vestire il granata, di quelli che un giovane calciatore culla fra le speranze più belle e che quando si fa realtà richiede un poco di tempo per essere metabolizzato.

    La chiamata nell’estate del 1997.

    L’annuncio: Asta, il piccolo motorino del Monza, passa al Torino, qualche dichiarazione, poche fanfare. Meglio non illudere, conta di più parlare con i fatti che con la prosopopea. Scrive in merito Lorenzo Longhi:

    I giornalisti sportivi nel raccontare certe carriere non mancano mai di ispirazione e i tifosi al cospetto di determinati giocatori sono sempre pronti a innamorarsi. Accade quasi sempre così quando si parla di calciatori operai, idoli della pedata che sono arrivati in alto solo grazie all’impegno costante e al sudore; ragazzi che ce l’hanno fatta senza appoggi e senza avere lo spunto del fuoriclasse. Giocatori della porta accanto, personaggi in cui qualunque supporter si può identificare. Ogni club ha i suoi miti di questo tipo e nel Torino uno dei più recenti è stato Antonino Asta.

    Perché Asta è fatto così: concreto, umile, cresciuto al calcio grazie a una applicazione feroce e continua. Un fisico modesto, inversamente proporzionale all’impeto, alla determinazione. Se non essere un maciste un po’ lo penalizza, perché la leggerezza non aiuta nel contrasto, nell’opposizione, gli dà viceversa una grossa mano nella rapidità del gesto e nello scatto, nella progressione che, quando innesta il turbo, lo fa letteralmente volare.

    Queste qualità vengono da subito intuite dal nuovo trainer granata, Emiliano Mondonico, voluto dai genovesi e accolto dal popolo granata con grande affetto. È stato con lui, poco più di un lustro prima, che il gonfalone granata è svettato per l’ultima volta in alto con la conquista della Coppa Italia (1993), ma poi quanti bei ricordi, quante soddisfazioni, quanto era diverso quel Toro! Chissà che l’Emiliano non porti nuovamente la buona sorte.

    La rosa che ha da gestire è elefantiaca, ma l’esperienza non è acqua e il risultato si vede: si torna in serie A. Asta si guadagna un gettone dopo l’altro e matura in un ruolo che diventa per lui un marchio di fabbrica, il segno di una presa di consapevolezza delle proprie qualità.

    Anche se, volendo, sa fare un po’ di tutto, è nella posizione di tornante all’estrema destra che vidima il suo passaporto di piccolo campione. Il costante impegno, l’instancabile tenacia nella lotta, polmoni che valgono il doppio, gli consentono sgroppate continue, senza che la fatica incida in qualche modo sul rendimento e, soprattutto, sulla qualità delle giocate. Oltre ad avere affinato il senso della posizione e la logica degli spostamenti sulla scacchiera del campo, Asta mette pure a punto la capacità di gesti tecnici di rilievo e una proprietà di controllo e palleggio quanto mai utile quando si fionda, lancia in resta, nelle lunghe, sfiancanti per altri ma non per lui, volate sulla linea dell’out.

    Un modo di giocare semplice come è lui, lineare, distinto, come la sua personalità, il suo animo, la sua concezione del calcio e della vita. Valori che tutti apprezzano e che oltre alla stima generale gli valgono sempre più la conferma a capitano. Una fascia che condivide con altre bandiere con lui in squadra come Gigi Lentini, figliol prodigo tornato alla casa madre, Gianluca Comotto e Marco Ferrante, nomi che hanno scritto e con lui stavano scrivendo in quei frangenti nuove e anche travagliate pagine della storia granata.

    Il dinamismo del suo stare in campo a tratti esalta. I tifosi si affezionano. Si rendono ben conto che non si tratta di un fuoriclasse, ma di un soldatino che compie il proprio dovere con diligenza, ma si accorgono anche che è sempre pronto a dare quel qualcosa in più di foga e di sudore, un atteggiamento che tanto piace a chi paga il biglietto per assistere a gare giocate, tirate fino all’ultimo.

    Vai Antonino, vai, brucia la corsia, scappa, vola e fai volare il nostro torello.

    Nelle giornate in cui è in vena, Asta sembra prenderci gusto e ripaga con gioia l’incitamento. Anche se l’avversario che lo sta affrontando, conoscendone le caratteristiche, immagina a priori che la dinamica della sua azione si svolgerà lungo la linea con scatti a ripetizione e improvvise fiammate, in modo quasi elementare, ebbene sovente saperlo non gli basta a stopparlo. La rapidità che Asta innesca nel muoversi è decisiva, si sente come uno di quegli attaccanti che godono e dispongono di una sola finta, che tutti ben conoscono (il pensiero corre al grande Garrincha) e che comunque funziona sempre perché è l’estro del momento, la scelta del tempo, l’impetuosità del gesto, l’improvvisazione a renderla vincente.

    Peccato che il gol sia il grande assente dei suoi ruolini statistici; ma lui si giustifica: fare il boia e l’impiccato è difficile e sono in pochi quelli che ci riescono. «A me basta essere utile alla causa, giocare, possibilmente bene, per i compagni, aiutare, dare una mano, se il caso, pur in umiltà, essere d’esempio per i più giovani».

    E così, fra tanto slancio ed entusiasmo, il campionato 1998-99 si chiude in gloria: il Torino di Mondonico brinda alla serie A e si riprende un posto che gli spetta a pieno titolo. Non è stata una passeggiata, perché imporsi non è mai agevole, ma neppure un tormento, la sensazione che i granata potessero farcela era sempre stata limpida e alla fine lo stesso Mondonico arriverà a confessare non solo di averci sempre creduto, ma pure che spuntarla non era stato difficile.

    Del manipolo vincente Asta è fra i condottieri. La riconferma è automatica.

    Ma l’anno che arriva porta al tempo stesso una grande gioia e una grande delusione: Asta si prende la massima serie, ma è costretto a lasciare il Torino.

    Il 28 agosto del 1999 l’erba del Dall’Ara di Bologna ha il sapore dolce, il profumo fragrante di una grande conquista. Per la prima volta a quasi trent’anni la serie A! Mondonico lo schiera nella linea dei mediani a fianco di Cruz e Mendez, il match finisce a reti bianche, ma il ricordo, l’impressione resta indelebile. «Ce l’ho fatta», si dice. Un calore che diventa gelo quando a gennaio la società lo concede in comproprietà al Napoli che deve tornare fra le grandi.

    Ma come… proprio adesso…

    La parentesi si chiude, per sua buona pace, e c’è il giusto ritorno.

    I granata masticano ancora la B, ma sotto la guida di Giancarlo Camolese tornano a sorridere a suon di primati. Asta ispira e dimostra, si fa capitano delle nuove battaglie, lotta e combatte. Sente la fiducia tutt’attorno, gioca bene, è sempre nel lotto dei migliori. Ci sono partite in cui è lui a prendere la squadra per mano, per non dire sulle spalle, e a dare l’esempio.

    La ruspante semplicità di un Toro che è come rinnovato nei valori sia tecnici che morali paga e i granata salgono ancora e la stagione 2000-01 li vedrà nuovamente allineati con le big. Non può sapere, Asta, che sarà la sua ultima a Torino, diventando, fra l’altro, suo malgrado protagonista non solo in campo. Camolese conferma la sua bravura e tiene il club nella massima serie, portando la squadra su un tranquillo traguardo finale alquanto gratificante per tutti. Ma non per il nostro, che riceve l’ultimo bel regalo di una carriera che pur se mostra un palmares modesto è al contrario ricchissima di emozioni e di valori umani profondi: la chiamata nella Nazionale maggiore. A promuoverlo è Giovanni Trapattoni che lo schiera ala destra nell’amichevole di Catania (praticamente a casa!) contro gli Stati Uniti. Asta gioca solo il primo tempo, ma per lui è l’eternità, la gioia somma, in quel momento pensa che potrebbe anche chiudere col pallone.

    Le nebbie milanesi dei primi calci si sono definitivamente diradate, le fatiche delle sveglie mattutine per andare al lavoro e permettersi così il lusso del gioco sono ricordi, le ansie e le paure svanite, Asta accarezza il prato del Cibali con la commozione gioiosa di un bimbo alle prese con un dono tanto desiderato, con la dolcezza di un innamorato felice. Annota in proposito lo scrittore granata Sergio Barbero:

    Il 13 febbraio del 2002 Trapattoni lo premia con la convocazione in Nazionale. A trentuno anni, tre mesi e due giorni, Antonino Asta duetta da par suo al Cibali di Catania opposto agli Stati Uniti (per la cronaca, vittoria per 1-0). Gioca un tempo solo per lasciare nella seconda frazione il posto a Gianluca Zambrotta. Quarantacinque minuti soltanto che sono però sufficienti ad entrare nella storia dei nostri Azzurri.

    E ci va vicino con quel pensiero, perché in estate la società che, con suo disappunto, tarda a rinnovargli il contratto decide di cederlo a titolo definitivo al Palermo del vulcanico presidente Zamparini.

    È l’imbocco della strada del tramonto e non solo a causa dell’età. Lasciare il Toro è un colpo che pesa nella testa e nell’anima a cui fa eco, in aggiunta, una sfortuna gaglioffa che lo colpisce con un grave infortunio che ne accelera il ritiro.

    Rientrare a Torino, la città che lo ha consegnato al grande calcio, la società che pur fra alti e bassi gli è rimasta nel cuore, riabbracciare il popolo granata, è quasi automatico e per uno come lui la porta è sempre aperta. Seguire i giovani granata lo gratifica, gli sembra di tornare indietro nel tempo, quando era lui che aveva da apprendere, e quanto! Un’esperienza importante e che, alla fine, lo conduce verso la grande avventura del professionismo in panchina.

    Letture consigliate:

    Lorenzo Longhi, Tutti gli uomini che hanno fatto grande il Torino f.c., Castelvecchi Editore, Roma, 2011.

    Franco Ossola, I campioni che hanno fatto grande il Torino, Newton Compton, Roma, 2015.

    Enrico Bachmann

    La frondosa quercia

    (Wintertur, 30 ottobre 1888 / Ventimiglia, 4 novembre 1980)

    Così il giornalista Emilio Colombo a proposito di Enrico Bachmann:

    Un gran ciuffo di capelli castani, spioventi sulla fronte, un viso energico di straniero forte, un possente tronco, due robuste e muscolate gambe, ecco, sia pure in embrione, la figura di Bachmann, il miglior centro halfback che giochi attualmente in Italia. Il capitano del Torino è uno dei più grandi campioni stranieri, è un campione della classe di Bollinger, ma forse di quello più completo, più forte. Il suo gioco è appariscente, tutt’affatto personale. Rotto a tutte le virtuosità del palleggio, abilissimo agli arresti e ai ricami di precisione. Quando lo vedete avanzare fra due avversari che tengono il ball, state certi che dallo scontro uscirà vittorioso.

    Nel calcio, come nella vita, ci sono incontri che sembrano guidati da una mano invisibile, incroci di destini che sembrano ineluttabili, come se le cose non potessero né dovessero andare in modo diverso. Porte scorrevoli sottoforma di avvenimenti apparentemente insospettabili che invece dischiudono transiti, passaggi decisivi, determinanti per una vita. È quello che certamente accadde al giovane calciatore svizzero Enrico Bachmann di Winterthur per la sua storia con il Torino.

    Eccola.

    Dopo aver esordito a nemmeno diciotto anni nella prima squadra della sua città, Bachmann è tenuto d’occhio con viva attenzione dai vertici federali elvetici. Ha delle qualità molto spiccate che fanno di lui un difensore affidabile, sebbene ancora immaturo tecnicamente: è deciso, possiede un’ottima scelta nel tempo dell’intervento e, soprattutto, non teme il confronto con quale che sia il diretto avversario. Naturale la prima, inevitabile chiamata in Nazionale per un provino. L’occasione è un match fra i giocatori della rosa. La sua prova è superba, sovrasta, senza concedergli fiato, uno degli attaccanti titolari, di conseguenza viene riconvocato per l’allenamento successivo, una gara ufficiale, l’intenzione è quello di schierarlo al centro della difesa rossocrociata.

    Purtroppo la sorte gli stava preparando un vile trabocchetto.

    Si era in pieno inverno, sul terreno di gioco si pattinava, ma Bachmann, gasato a mille, pieno dello slancio che mai lo avrebbe abbandonato, non ci aveva fatto caso e così in uno dei suoi interventi classici in spaccata sulla palla ad anticipare l’uomo, la gamba gli era partita sul ghiaccio allungandosi troppo, con conseguente strappo muscolare. Addio Nazionale, addio esordio, impossibile presentarsi in campo pochi giorni dopo.

    Questo il fatto, di per sé da un lato molto negativo (detto fra parentesi, Bachmann persa l’occasione non ebbe poi mai più l’opportunità di vestire la maglia della sua nazionale), tuttavia, se risvoltato sull’altro lato, un evento quanto mai positivo sia per il diretto interessato che per il Torino.

    Era accaduto, infatti, che guarito da poco, era stato chiamato dal Torino del presidente Dick, svizzero come lui, per schierarsi con la casacca granata in un match di Palla Dapples. Con lui per l’occasione avevano varcato l’Alpe altri compagni: Humber e Reichas. La matrice elvetica del Torino era già consolidata e la dirigenza intendeva compattarla ancora di più.

    In merito a quel momento importante, una vera svolta della sua vita, lui stesso amava ricordare, con semplici, simpatiche parole:

    Lo ricordo, eccome lo ricordo. A quel tempo tutto era più semplice, le cose filavano veloci. Appena arrivato in città venni subito accompagnato presso lo studio di un fotografo che mi stava aspettando. Dopo nemmeno mezz’ora ero pronto, con il tesserino e la mia bella fotografia fra le mani, a presentarmi all’arbitro per scendere in campo nelle file del Torino. Si vinse 2-1 contro la Juventus che schierava, pure lei, dei calciatori svizzeri, quali Frey e Jaquet, che già erano stati granata. Fu la mia prima apparizione nella squadra che sarebbe stata mia per quindici bellissimi anni.

    Quel 21 marzo 1909 Bachmann si era schierato al centro degli half-back (come erano indicati i mediani) fra Engler e Rodgers, timbrando una prestazione delle sue, di quelle che convincono subito.

    «Ci vediamo presto, Enrico. Ti voglio nel mio Torino. Ora sono io il presidente ed è mio desiderio vederti giocare con la nostra maglia. Con te in squadra saremo più forti di quanto già non siamo. Voglio dare alla Juventus, che un giorno mi ha snobbato, la giusta lezione sportiva che si merita», così lo aveva motivato l’amico Dick.

    E così era stato.

    Enrico Bachmann per la stagione 1909-10 era diventato un effettivo granata, dando il via a una carriera consumata tutta nel Torino, anche dopo aver smesso di giocare.

    Quasi commovente ricordare ciò che era avvenuto al suo arrivo in città, al momento di stabilirvisi in modo definitivo:

    Scesi a Torino in un modo un po’ sconsiderato, direi, per niente svizzero. Ma ero giovane e pieno di voglia di farcela. Per di più Dick, che mi aveva convinto a venire, non c’era più. Per farla breve: non disponevo di alcuna finanza per vivere. Fu così che un alto dirigente del club, Delleani, mi offrì un posto negli uffici di segreteria di una sua autofficina in corso Moncalieri. Un bel gesto, generoso, peccato però che lo stipendio non bastava (in Svizzera avevo la mamma e due fratelli più giovani a cui provvedere). Saputolo, intervenne allora il neo presidente Giovanni Secondi che mi fece un sostanzioso prestito, con l’impegno di estinguerlo poco alla volta, mano a mano che i successi sportivi fossero progrediti.

    Un paio di annate di attesa e al momento dell’addio di Friz Bollinger, la virtuale (perché ancora non era uso indossarla) fascia di capitano era transitata sul suo braccio fiero e forte.

    Già, Bachmann

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