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Cuordileone e il suo re
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Cuordileone e il suo re
E-book220 pagine3 ore

Cuordileone e il suo re

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Info su questo ebook

Un’anima immortale legata a doppio filo ad un giovane nato quasi due secoli dopo, uno spirito e un comune essere umano, angelo custode e protetto. E per Daniel Bright e il suo Adam la cosa potrebbe concludersi qui. Ai loro occhi non c’è nulla di straordinario in questo. L’universo li ha fatti incontrare, senza possibilità di scelta.
 Ma questo non è semplice da capire, perché nessun altro può percepire la presenza di Adam. Dunque credere nella sua esistenza è un enorme atto di fede, che in pochi sono disposti a fare. Daniel Bright cresce distinguendo le persone tra “chi crede negli angeli” e “gli idioti” e il cinismo che vede attorno a sé lo porta a chiudersi sempre di più al mondo.
 Con Adam al suo fianco, passa una vita per entrambi totalmente normale. Finché non arriva qualcosa capace di sconvolgere il loro equilibrio: il primo, travolgente, folle amore.

“Cuordileone e il suo re” è il primo libro di Lavinia Rabacchi, un romanzo urban fantasy a tema LGBT+.
 
Il libro è dedicato a chi cerca qualcosa di diverso, a chi ha apprezzato Pride, The Danish Girl, I segreti di Brokeback Mountain, ma ogni tanto vorrebbe intrattenersi con qualcosa di più leggero. A chi appartiene alla A di Allies (Alleati) e a chi risponde a tutte le altre lettere della sigla LGBT+. A chi non sa ancora come incasellarsi, ma spera di scoprirlo, a chi le etichette le detesta ed è felice di essere e basta.
LinguaItaliano
Data di uscita8 mag 2018
ISBN9788828321507
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    Anteprima del libro

    Cuordileone e il suo re - Lavinia Rabacchi

    riservati.

    1

    "Ti viene data solo una piccola scintilla di follia.

    Non devi perderla."

    Robin Williams

    Jakey Bright era una donna dalle irrinunciabili abitudini. La sua sveglia suonava alle sei e venti precise – non sul comodino, ma nella sua testa. A quell'ora, il cervello si azionava e il corpo lo seguiva a ruota, vagando per la casa ancora dormiente, in un tentativo semi-efficace di scrollarsi il sonno di dosso. Dopo aver fatto una doccia di circa sei minuti – undici, se le toccava occuparsi dei capelli -, si vestiva e andava in cucina.

    Ogni mattina, subito dopo aver riempito e acceso la macchina del caffè, guardava fuori dalla vetrata che dava sul piccolo balcone. Non era per contemplare l'alba: si fermava troppo poco in quella posizione perché potesse trattarsi di ammirazione del paesaggio. Gli volgeva un fugace sguardo e tornava ad occuparsi della colazione. Era come se quella piccola tappa fosse parte della sequenza di compiti assegnatole da quella vita – cucina, caffè, finestra... Sembrava che toccasse a lei assicurarsi che il sole si svegliasse.

    Ad ogni modo: dopo essersi dedicata alla veglia dell'alba, passava subito al resto delle sue mansioni – santo Dio, non si fermava un istante. Apparecchiava il tavolo della cucina coprendolo con delle tovaglie di stoffa che teneva arrotolate nel secondo cassetto. Il caffè, sempre puntuale, era pronto nel momento in cui l'ultimo cucchiaino veniva sistemato a tavola, così Jakey recuperava la caraffa e la posizionava in mezzo al ripiano. Lì sparsi, venivano messi anche la scatola di biscotti, il cestino della frutta, il cartone del latte e la marmellata.

    Le sei e cinquanta arrivavano più o meno a quel punto, e allora non le rimaneva altro che andare a svegliare la sua famiglia.

    La prima camera che le capitava a tiro, attraversando l'appartamento, era quella della figlia maggiore, Lilian. La porta accanto era quella oltre la quale pisolavano beate Rachel e Pennie, le sue ultimogenite, nonché principessine di quella casa.

    «Buongiorno, cucciole» mormorava piano, per fare in modo che il loro primo impatto con il mondo fosse dolce e cauto.

    Quando uscì da quella stanza e girò l'angolo del corridoio, le diedi il mio buongiorno con un cenno del capo e un sorriso cortese. Quella era una mia abitudine, invece: salutarla al mattino. Non importava che non mi degnasse di uno sguardo e che ogni volta continuasse per la sua strada verso l'ultima porta dell’appartamento. E non mi offendevo nemmeno. Avevo smesso molto tempo fa di prendermela per il modo in cui venivo ignorato.

    Jakey aprì la porta con la scritta KEEP OUT spalmata sopra, usando l'unico lasciapassare valido per quel divieto d'ingresso: era la mamma.

    Come con gli altri figli, stampò un bacio sulla tempia dell'unico maschio di quell’abitazione. Nel momento in cui arrivai anch'io nella stanza, vidi il bell'addormentato strizzare gli occhi già saldamente chiusi. Mugolò qualcosa, probabilmente parole che avrebbero avuto senso se avesse almeno aperto bocca. Roteai gli occhi, indeciso se sorridere o no, e appoggiai la spalla al muro più vicino.

    «Buongiorno, Dannie» mormorò Jakey, lo stesso tono usato con le bambine. Dopo averlo definitivamente strappato al mondo dei sogni con delle delicate carezze ai capelli biondi, andò alla finestra e aprì le imposte.

    La luce del mattino irruppe nella stanza senza invito e ferì gli occhi di Daniel anche se questi erano ancora chiusi.

    Senza dire altro, Jakey uscì dalla camera, lasciando lì il figlio, con la speranza che si alzasse. Sul serio ancora lo conosceva così poco, dopo diciassette anni?

    «Mamma, non avevi detto di aver stirato ieri sera?» sentii Lilian dal corridoio. Lasciai lì Daniel e svoltai di nuovo quell'angolo che separava la stanza, del sociopatico che era, dal resto della comunità familiare. In mezzo al corridoio c'era il corpo nudo di Lilian. Con gli anni mi ero abituato ad averla davanti senza niente addosso – come chiunque lì, l'avevo praticamente vista crescere -, eppure mi ero sempre chiesto: Sarebbe diverso se Daniel avesse qualche fratello?

    «Sì, è tutto nel cesto».

    «E il cesto dov'è?».

    Sulla lavatrice vociai.

    «Sopra la lavatrice Lil, come sempre» scandì Jakey, «ma non girare per casa nuda, tuo fratello si sta alzando».

    Sospirando, incrociai le braccia davanti al torace e tornai in camera del ragazzo. Senza neanche bisogno di dirlo era ancora raggomitolato tra le coperte stropicciate. Il suo respiro, tuttavia, non era regolare e la sua testa non era avvolta da una nebbia di sogni irreali. Semplicemente, si godeva i secondi come fossero lunghi anni, prima che qualcuno venisse a disturbare di nuovo il suo riposo.

    Qualcuno come me.

    Esci da quel letto, Dan! Che figura ci faccio se arrivi in ritardo a scuola per due giorni consecutivi?

    Grugnì infastidito e rotolò sul materasso fino a trovarsi sdraiato sulla schiena; comprensibile che non fosse il massimo per lui, passare dal dolce sussurro di una madre al mio seccante gracchiare.

    «Che cazzo di figura dovresti farci, se nessuno sa che ci sei?».

    Mi avvicinai al letto, mi accovacciai e appoggiai gli avambracci al materasso. Assunsi una smorfia di altezzosità che sapevo poteva intuire, anche senza guardarmi. Preferirei che tua madre non mi consideri un custode che permette al protetto di avere una brutta condotta a scuola.

    «Lei è la prima a non credere in te». Si stropicciò gli occhi con le lunghe dita magre.

    Sì, ne ero consapevole. Ma ero decisamente troppo vecchio per badare ancora a certe piccolezze. Solo perché i mortali non erano capaci di andare oltre la fiducia che ponevano nella vista, non significava che anche io dovessi fare lo stesso. Ero diventato capace persino di provare simpatia, odio e ammirazione per molte persone - persone con cui non avrei mai condiviso né uno sguardo né una parola diretta. Non potevo stabilire un contatto qualsiasi con nessun mortale all'infuori di Daniel, ed era divertente pensare che molti di loro ignorassero completamente di essere smistati - uno per uno - nella mia lista nera e la lista di Quelli con cui mi farei una birra. E Jakey Bright era sicuramente una delle persone che ammiravo di più al mondo.

    È lo stesso una gran donna dissi a Daniel.

    Il ragazzo sollevò il braccio ma lo fece crollare quasi subito davanti agli occhi, nascondendo il naso a patata sotto l'interno del gomito.

    «La gran donna ha fissato l'appuntamento con lo psicologo per…».

    Per le quindici annuii. Conosco i tuoi impegni meglio di te.

    «Ho sonno» si lamentò.

    Non provarci, non ti aiuterò di nuovo a restare a casa mi impuntai, scattando in piedi. Sei avvertito: tengo in ostaggio la tua fortuna. Se tenti di darti malato, farò versare il caffè di tua madre sulla sua gonna preferita: sarà troppo irritata per fingere di crederti.

    Finalmente Daniel aprì pigramente gli occhi. Le sue iridi nocciola mi fulminarono dall'altezza del cuscino, ma alla fine dovette arrendersi all'unica possibilità che aveva: alzarsi. Con un unico movimento secco, si liberò dalle coperte e poggiò i piedi nudi a terra. Si concesse un secondo per grattarsi la testa, spettinando ancora di più i capelli biondi. Una volta trovata stabilità su quelle gambe stanche, andò a scegliere cosa mettere addosso più velocemente del solito. Ieri sera aveva sequestrato dal cesto la sua felpa fresca di lavatrice. Era quella che aveva cercato per mesi nei negozi di tutta la città, nera, ghirigori blu elettrico e i risvolti delle maniche con quei buchi per infilare i pollici. Amava quella maledetta felpa.

    Si sfilò velocemente i boxer con cui aveva dormito e se ne mise di puliti, per poi passare ad un paio di jeans scoloriti e una canottiera bianca che tanto, sotto l'amata felpa, non si sarebbe mai vista. Scarpe dalla suola larga – Uh, oggi si va a scuola con lo skate... -, piastrine appese al collo.

    Tutto questo infinito processo ogni mattina. È così difficile pensare che facesse tardi piuttosto spesso?

    Corse in cucina e io lo seguii con ben più calma. Si sedette a tavola giusto un attimo dopo Lilian.

    «Mamma, ricordati dell'autorizzazione per la visita al museo della prossima settimana» disse, prima di afferrare una fetta di pane con una mano e intingere il coltello nel barattolo di marmellata con l'altra.

    «Non vedo l'ora che tu compia diciott'anni, così non dovrò più preoccuparmi delle firme».

    Tre mesi e undici giorni, calcolai distrattamente, mentre poggiavo la schiena al frigorifero accanto al tavolo.

    Daniel mi rivolse uno sguardo fuggevole quanto quello di sua madre al sole nascente: sembrava impegnarsi a seguire l'andazzo della sua vita mortale, ma che non riuscisse mai totalmente a dimenticare che c'ero anch'io. Ogni tanto – non importava quanto spesso – i suoi occhi nocciola mi cercavano e, dopo avermi incrociato, tornavano subito a prestare attenzione al resto. Esattamente come faceva Jakey guardando dalla finestra alle sei e quaranta.

    Nonostante tutte le discussioni e – certe volte – i litigi che affrontavamo nell'arco della giornata, non era difficile per me immaginare di essere il sole di Daniel.

    Lui, d'altronde, era quello che a parti invertite rappresentava il resto. Il mio sguardo e la mia attenzione erano sempre puntati su di lui. Anche quando andavo a farmi un giro intorno al palazzo mentre lui dormiva, o quando ascoltavo conversazioni a lui precluse, restavo in allerta nel caso avesse bisogno di me. Perché per me, Daniel, rappresentava ciò che per lui era la vita stessa. Per un custode, non poteva essere altrimenti.

    «Dannie, come sta Adam stamattina?» chiese la vocina di Rachel, in sottofondo la risata che sfuggiva indisturbata dalla bocca sdentata di Pennie. Aveva iniziato a perdere i denti da latte, mentre alla sorella erano già caduti quasi tutti. Pare che fosse diventata una buona strategia per distinguerle, anche agli occhi delle maestre che non le conoscevano abbastanza da cogliere le piccole differenze.

    Sebbene avessero gli stessi capelli colore del cioccolato, a Pennie risultavano ingombranti, quindi li teneva legati oppure dietro le orecchie; mentre Rachel se ne faceva vanto, lisciandoli in continuazione e permettendo che le inondassero le spalle. Non si esprimevano allo stesso modo: raramente Pennie aveva il coraggio di dire ciò che pensava, dall'altra parte Rachel era ben felice di parlare per entrambe. Forse in un'aula elementare illuminata artificialmente era possibile pensare che il colore dei loro occhi fosse lo stesso, ma in un’estiva mattinata passata al parco si notavano le iridi nere del padre in Pennie e quelle marroni della madre in Rachel.

    Scorsi le spalle di Jakey irrigidirsi, anche se ad un osservatore poco attento poteva sembrare che stesse semplicemente continuando a mangiare come un istante prima.

    «Sai che puoi chiederglielo da sola» rispose con tono neutro il mio protetto.

    «Come stai stamattina, Adam?» mi domandarono le gemelle, in una cantilena che si ripeteva quasi ogni giorno.

    E, come ogni volta, ridacchiai e risposi: Non male, grazie ragazze.

    «Ha detto che sta bene» tagliò corto Daniel, tornando alla sua colazione.

    Lilian e Jakey si scambiarono un'occhiata apprensiva da un lato del tavolo all'altro, ma nessuna delle due sembrò avere il coraggio – o la crudeltà – di dire nulla. Forse in passato quello sguardo mi aveva infastidito, sì. Ma l’immortalità è una di quelle poche cose capaci di dare risposte a tutto: basta aspettare. Non importava quale dubbio mi attanagliasse, sapevo che il tempo mi avrebbe mostrato la soluzione. Mi era bastato studiare la diffidenza dell’essere umano per qualche misero anno per arrivare alla conclusione che non essere visto era il male minore. D'altra parte, non ero io ad essere giudicato. Agli occhi del mondo, era Daniel ad essere fuori di testa. Io non esistevo e basta: senza dubbio un’accusa preferibile a fuori di testa.

    2

    "Sono ancora io.

    Ho tanto bisogno di un amico. Di qualcuno che stia sempre con me.

    Potresti mandarmi un angelo! L'angelo più carino che hai."

    Lilo&Stitch

    Pennie e Rachel erano tra le pochissime persone a non avere dubbi sulla mia esistenza, naturalmente perché avevano sei anni. Presto, anche loro si sarebbero considerate troppo cresciute per credere alle favole. Lo sapevo, sì. Ma i loro sorrisi innocenti, nei momenti in cui parlavano con me come avrebbero fatto con un compagno di classe, erano troppo irresistibili per non goderne. Almeno finché potevo farlo.

    Per mia sfortuna, il tempo sembrava in accelerazione continua. Daniel, dall'altra parte, aveva l'impressione che certi giorni – o certe settimane, mesi, ore di scuola – non passassero mai. Lui non vedeva il tempo come me. Quando hai l'eternità davanti, dieci anni sembrano uno solo.

    Le ruote dello skateboard toccarono l'asfalto della strada quasi in contemporanea ai piedi di Daniel, come se fossero un tutt'uno. Con lo zaino ben saldo in spalla, sfilò dalla tasca della felpa l'iPod e si chiuse al mondo con quel paio di cuffiette da cinque dollari. La riproduzione casuale, neanche a farlo apposta, fece partire per prima Bad day dei R.E.M.. Daniel sembrava sul punto di crollare svenuto sul marciapiede. Avrei dovuto cercare di rimediare?

    Ti va una gara, morto di sonno? urlai per infrangere la barriera della chitarra nelle sue orecchie. Protesi il busto in posizione di partenza.

    Lui ritrasse le labbra in una smorfia esitante. «Però stavolta ti fermi ai semafori».

    Schivo anche i passanti, se vuoi: sono lo stesso più veloce.

    Mi fulminò con un'occhiata e capii che accettava. Piantò saldamente un piede sullo skate e l'altro a terra, sollevando di poco il tallone. Contò nella sua testa: Quattro... Tre... Due...

    Si diede una spinta con la gamba per partire sul marciapiede, leggermente in pendenza. Nello stesso istante, stirai le ali con grande sollievo e scattai anch'io.

    Ah, non l'avevo ancora detto? Lo dico adesso, allora: ho le ali. Piuttosto grandi, con soffici piume e lunghe penne. Nere come il petrolio. Dicono che sia il marchio di una vita di peccati gravi, il colore che nella mitologia è associato ai demoni. Da millenni, gli angeli custodi non sono altro che anime costrette a redimersi dagli errori commessi in una vita passata. Da più di duecento anni mi chiedevo cosa diavolo avessi fatto io, ma non avevo modo di scoprirlo.

    La città di Belleville era sveglia da poco, e quella mattina in particolare sembrava aver avuto persino meno voglia di alzarsi del mio protetto. In giro vedevo meno gente del solito, tanto che decisi di sfidare me stesso e provare sul serio a non toccare i passanti per strada – anche se, in ogni caso, li avrei oltrepassati come fossi fatto d'aria. Così mi ritrovai a fare lo slalom tra pedoni e macchine, esattamente come Daniel. Ogni tanto buttavo un occhio alla sua figura che saettava sull'asfalto, al suo corpo piegato in modo da restare in equilibrio, le braccia sospese a mezz'aria, i capelli che volavano all'indietro, il piede destro che scendeva dalla tavola per spingerlo e dargli velocità.

    Contemplai con soddisfazione il risultato del mio lavoro: Daniel sorrideva. A quanto pare era riuscito a dare una piega positiva all'inizio della sua giornata. Sentivo la musica di Bad day nella sua testa come se stesse rimbombando nella mia, così era diventata una sorta di colonna sonora per la nostra piccola gara.

    Trovammo un solo semaforo rosso, tutti gli altri davano il via libera. Il patto era che ai semafori rossi mi fermassi, Daniel non aveva detto nulla sul rallentare per guardare a destra e a sinistra mentre attraversavo. Eppure, non riuscivo a non aspettare che lui fosse di nuovo sul marciapiede, prima di riprendere alla mia velocità: era un istinto insopprimibile assicurarmi che non si facesse male.

    Quando entrambi i nostri sguardi incrociarono in fondo

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