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Libera per tutti
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E-book221 pagine3 ore

Libera per tutti

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Info su questo ebook

"Certe cose non si scoprono. Semmai, si coprono". Angelica è lesbica e vive una vita in ombra, tra appuntamenti al buio e bugie, in un piccolo paese del Sud Italia. Claudio sta per compiere trent'anni e ha un sogno che non riesce a realizzare a causa del suo nome. Letizia sparisce di continuo in viaggi misteriosi, non riesce a separarsi dalla Bibbia, ma il suo legame con Dio nasconde un segreto. Tutti mentono, ma uno di loro cambierà per sempre la vita degli altri. Cosa siamo disposti a fare per trovare il nostro posto nel mondo? Quello che siamo ci somiglia davvero? Conosciamo realmente le persone che ci stanno accanto? Libera per tutti è la storia profonda e appassionata di tre vite sovrapposte. Un romanzo intenso, che mostra come a volte per essere se stessi serva qualcun altro.
LinguaItaliano
Data di uscita12 nov 2019
ISBN9788832812343
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    Anteprima del libro

    Libera per tutti - Simone Rausi

    appear".

    1.

    Angelica

    Ventisette, ventotto, ventinove e trenta. Aveva chiuso il rubinetto e si era girata verso l’asciugamano. Per una corretta igiene, le mani vanno lavate per almeno trenta secondi, lo aveva letto in una di quelle riviste che sua madre teneva nel cesto di vimini in bagno. Una di quelle con la modella o la velina di turno in copertina, pronta a confessarti che per essere belle naturali basta sorridere e fare lunghe passeggiate. Poi tutti a ingozzarsi di pasta. Quelle riviste la tenevano in ostaggio, tra il lavandino e il water, per intere mezz’ore. In quelle pagine c’era tutto ciò che le interessava nella vita: belle donne e regole di igiene.

    Si stava strofinando le mani con cura sul morbido cotone dell’asciugamano, mentre il pensiero di toccare la maniglia della porta con la mano umida le procurava ansia. L’umidità favorisce il proliferare dei batteri. Era una di quelle verità assolute che aveva sentito da qualche parte e che possedeva da tutta una vita. Non era necessario trovare conferme o smentite. Lo sapeva da sempre, e sempre è una buona garanzia di verità.

    Aveva scelto con cura il jeans scuro e la camicia rossa, aveva indugiato più volte sul terzo bottone, ma alla fine aveva deciso di tenerlo chiuso. Si era raccolta i capelli in una bella coda alta che le valorizzava il viso e infine aveva dato alla bocca una passata di lucidalabbra. Guardò l’orologio e a malincuore zittì Chris Martin che cantava con i Coldplay dentro il suo smartphone. Soffocò, mentre prendeva aria per cantare il ritornello con il crescendo della batteria quasi al culmine. Quell’ennesima attesa non valeva un rullo di tamburi.

    Angelica si mise una mano tra il petto e la pancia, dove la gastrite stava incendiando ogni cosa. Ingoiò una caramella antiacido comprata in farmacia e si premette il pugno sopra lo stomaco, come per spegnere una enorme sigaretta sulla bocca dell’anima, così come la chiamava sua nonna. La sua era un posacenere. Nero e sporco.

    Fece un lungo respiro davanti alla porta della sua stanza con una sensazione d’acido che si arrampicava ingordo fino alla bocca. Chiuse gli occhi e ingoiò l’ennesimo boccone amaro.

    Era pronta.

    «Con chi esci?» le aveva chiesto sua madre. «I soliti!» aveva risposto l’eco del pianerottolo. Angelica da qualche mese usciva di casa come si farebbe in caso d’incendio. Così i suoi genitori parlavano con delle voci, manco fossero dei medium: voci provenienti dalla stanza in fondo al corridoio, voci ovattate di un cellulare sempre senza campo, voci basse e approssimative che facevano lo slalom tra il non detto e l’omesso, senza mai scivolare. Era meglio ridurre al minimo i convenevoli, fare in modo che i suoi non facessero troppe domande. I soliti con cui usciva Angelica per sua madre non erano soliti per niente. Erano solo dei nomi che non si collegavano a nessuna delle facce degli amici della figlia che in passato erano entrati in quella casa. Nomi che spesso cambiavano e che – per vestirsi di un po’ di credibilità – suonavano vagamente esotici o stravaganti. Non c’era tempo per la seconda domanda. La velocità è da sempre l’abilità dei bugiardi, la principale capacità di quelle persone che ogni giorno corrono i cento metri delle cazzate, quelli che scattano veloci cercando una via di fuga ma non riescono a resistere alle lunghe distanze.

    La madre di Angelica era una cinquantenne che dimostrava almeno dieci anni in meno. La sua giornata era scandita dai programmi di Maria De Filippi, una sorta di spirito guida della sua vita. Quando si trovava ad affrontare un problema o una difficoltà, qualcosa che spezzasse la sicurezza delle sue giornate, la mamma di Angelica faceva un lungo respiro e pensava: Cosa farebbe adesso Maria? Era sempre stata una gran chiacchierona e amava condividere la vita della figlia. Condividere su Facebook, chiaramente.

    La signora Adele, occhi verdi e capelli perennemente arruffati, vedeva in Angelica la massima espressione di quel bello che aveva sempre sognato per lei. Era particolarmente orgogliosa della figlia, ma viveva nell’illusoria e rassicurante proiezione di decenni ormai passati: gli anni in cui Angelica le raccontava la sua giornata di ritorno da scuola e poi faceva ridere tutti a tavola con le imitazioni dei familiari. Tra le due, improvvisamente e senza un apparente motivo, si era alzato un muro, o meglio, una sorta di specchio pronto a riflettere immagini piene di bugie, che sembrano attendibili ma si rivelano l’esatto contrario della verità. Uno specchio pronto ad appannarsi con il fiato ogni volta che le due provavano ad avvicinarsi troppo. Così Adele guardava Angelica, come si guarderebbe un bel paesaggio. La osservava con gli occhi nascosti della sua Reflex acquistata dopo il corso online di fotografia e rubava foto da condividere con i suoi centotrentotto amici su Facebook. Ecco come Adele condivideva la vita della figlia, su un social network.

    Angelica era bella senza avere la presunzione di esserlo. Come quelle frasi dei bambini dette senza intenzione che riescono a spiazzare per profondità e innocenza. Capelli e occhi castani, una carnagione chiara. Cromaticamente comune ma incredibilmente unica nel suo insieme, armoniosa e perfettamente fuori tono con il resto del mondo. Anche la dinamica delle forme sembrava essere progettata sulla base di calcoli e teoremi. Tutto era troppo, dall’altezza al seno. Uno di quei troppo senza accezione negativa, un troppo incredibilmente misurato.

    Angelica però non condivideva né con la madre né su Facebook, un amplificatore di solitudine che aveva spento qualche mese fa. D’altronde, come poteva essere trasparente quando sentiva di vivere una vita torbida, come raccontare chi era se anche lei non aveva la risposta?

    In Piazza Duomo la attendeva una trentaduenne dai capelli neri patita delle Harley-Davidson. Questo era tutto quello che sapeva.

    Si era fermata con la macchina nel primo parcheggio libero, era in anticipo di quasi venti minuti. Troppi. Fuori dai finestrini c’era la sera che precipitava sul Duomo. Poche luci, troppa gente. Il rumore del suo respiro sembrava in Dolby Digital Surround. Prendeva tutta l’aria che poteva, contava da uno a cinque senza muovere un muscolo e poi buttava tutto fuori fino a sentir cedere il corpo. A uscire, però, c’era solo il fiato, i timori e le ansie restavano dentro. Lo faceva per quattro volte come era scritto sulla rivista del bagno ed era l’unico rimedio all’ansia che non costava nulla e non necessitava dell’aiuto di qualcun altro.

    L’autoradio vomitava una canzonetta pop stucchevole e incessante. I bassi ipnotici del ritornello in serie esplodevano nevrotici dentro l’abitacolo e si ripetevano senza tregua rendendo il tempo viscoso e l’attesa estenuante. Angelica prendeva piccole boccate d’aria e assorbiva note grondanti di anestetico. Aspettava la fine di quell’ennesimo baby baby, la fine di quei venti minuti, la fine di quell’appuntamento.

    Angelica era lesbica e non l’aveva capito, non l’aveva scoperto. Capire e scoprire sono due verbi che coinvolgono necessariamente qualcosa di sconosciuto fino a quel momento. Si capiscono le divisioni in colonna a scuola e si scoprono nuovi pianeti quando ci si spinge oltre i propri orizzonti. Il proprio corpo e la propria vita invece no. Si vive con se stessi da sempre e per sempre e certe cose non si scoprono all’improvviso, semmai, si coprono. Angelica aveva sempre coperto tutto. L’interesse fuori misura per le compagne di classe, l’eccitazione incontrollata nel vedere i video sexy delle cantanti, le domande dalla risposta sempre uguale. Arriva il momento, però, in cui sotto il tappeto non ci entra più nulla, il giorno in cui si scoprono i fatti e tutta la polvere accumulata negli anni si sparge ovunque, cadendo lenta, offuscando anche i propri pensieri, entrando nei polmoni e togliendo il respiro. Si era ritrovata senza fiato. Senza orientamento. E ci aveva messo un po’ a capire dov’era. A capire chi era.

    Angelica odiava essere lesbica. Odiava avere troppe certezze e non avere alcuna sicurezza allo stesso tempo. Era certa: non si sarebbe sposata. Non avrebbe avuto dei figli. Era insicura quando parlava di sé, ogni parola che potesse confermare la sua identità era incerta, sussurrata, tremante.

    Angelica era davvero lei solo dietro i suoi occhi marroni, tutti coloro che le stavano davanti guardavano una versione rieditata per il grande pubblico. Se sei lesbica tutto è già deciso, e non hai deciso tu, pensava spesso. Progettava di diventare abile nell’arte della menzogna, di diventare brava a ignorare, così da farsi scivolare addosso frasi e giudizi da evitare. A volte credeva che tutto col tempo si sarebbe aggiustato ma, molto più spesso, era convinta che gli anni, con il loro trascorrere e con la loro indifferenza silenziosa, l’avrebbero condotta a una casa vuota come la pancia che non sarebbe mai cresciuta, la stessa che da bambina camuffava con un cuscino sotto la maglietta.

    Angelica aveva sempre fatto il gioco della famiglia, come tutte le bambine. Disegnava il vestito del suo matrimonio e componeva i pezzi del suo principe azzurro. Quei sogni non c’erano più, ma aveva la netta sensazione di non essere stata lei a spazzarli via. Aveva provato a scegliere la sua vita, ma ogni fidanzato l’aveva rimessa sulla strada originale. Perfino Chris Martin.

    Questo tipo di pensieri le martellava in testa ogni volta che aspettava il sonno tra il lenzuolo e il cuscino o attendeva in macchina il nuovo appuntamento. Succedeva anche stavolta, mentre si strofinava nervosamente le mani nell’Amuchina. Non le erano bastati ventiquattro anni per trovare coraggio, per abituarsi alle sue giornate che sentiva cupe e senza luce. E vivere senza luce voleva dire avere paura. Ne aveva anche adesso che apriva lo sportello e andava verso la notte scura, la sua vita in ombra e il suo appuntamento al buio.

    2.

    Claudio

    8.10 del mattino. Claudio emergeva nello specchio, sotto strati di vapore denso, come un rifiuto portato dal mare dopo una mareggiata. Aveva spalancato il suo logoro accappatoio blu petrolio e si era messo a fissare la pancia. Era la sua ma ci stava dentro a malapena come in un maglione della passata stagione, stretto e fuori moda. Eccola lì, lei c’era.

    Odiava passare inosservata e adesso, nel caso in cui qualcuno non l’avesse ancora notata, si mostrava presuntuosa come una diva sul palcoscenico. Era così morbida e rassicurante. Flessuosa. Gli veniva voglia di cingerla con due mani, affondare le dita nella pelle soffice e scuoterla, rivoltarla, osservare il suo ondeggiare ipnotico.

    La sua pancia era indiscutibilmente uomo. Era l’apoteosi della femminilità ma era la cosa più maschile che si potesse trovare nei trentenni come lui.

    Ma quale barba, quali responsabilità!

    La linea di transizione che separa i ragazzi dagli uomini è curva, un semicerchio. Una bella pancia. Una pancia degna di questo nome è quella che ti fa alzare la maglietta davanti a uno specchio e ti fa restare mezzo minuto a fissarla.

    Claudio si mise di profilo, soppesò con la mano tutto lo strato di adipe che riusciva a prendere e poi richiuse l’accappatoio con uno scatto nervoso. Tra cento giorni avrebbe compiuto trent’anni, e il suo corpo glielo diceva.

    Fino a qualche anno prima la sua pancia non esisteva, c’era un ventre piatto di quelli che se ne fregano. Se ne fregano di quello che mangi e di quanto ti muovi. Due anni di canottaggio e tre di pallavolo buttati al vento, nulla in confronto ai temibili trenta. E comunque bastava guardarsi in giro, non si poteva fare nulla. È la natura, pensava.

    Floride pance erano sbocciate sugli addomi di tutti i trentenni che Claudio conosceva. Arrivavano così, all’improvviso, dopo mesi di lievi gonfiori sottovalutati, presi sottogamba. Un lunedì indossavi camicie stretch e per il fine settimana rischiavi di pisciare senza vedertelo. La pancia era il simbolo della seconda pubertà di tutti i maschi, quella che le femmine avevano vissuto molto prima, con il festoso esplodere dei seni.

    Il ventotto maggio Claudio avrebbe compiuto trent’anni ma la pancia era l’ultimo dei suoi problemi. Questa è l’età in cui si decide tutto. Adesso è il momento per capire se sarai qualcuno che conta o se sarai uno come gli altri.

    Poteva quasi vederlo, una specie di conto alla rovescia velocissimo, sopra la sua testa. Sei cifre al led rosse che correvano e correvano. Secondi, minuti, ore. Claudio lo sapeva di aver vissuto al fresco fino a quel momento. Lo stesso fresco di un frigorifero dove metti il latte da consumare entro tre giorni, prima che vada a male. Poteva vederla la sua data di scadenza, era vicina ma lui era lontano, era sempre indietro.

    La sua mente volava in quella direzione ogni volta che era lasciata libera e atterrava in un groviglio buio e fittissimo di sensi di colpa.

    Studente: fuori sede, fuori corso, fuori tempo, fuori peso. Mancavano ancora cinque esami alla laurea in Giurisprudenza, centinaia di pagine che si portava dietro da un anno e mezzo e che ponevano la sua laurea a una distanza indefinita. Ancora un altro anno? Due? Poco importa, perché aspettare non serve a niente quando il tuo turno è già passato. Sapeva che iniziare una carriera come quella di avvocato a trent’anni suonati sarebbe stato impossibile. Dopo la laurea c’era la scuola di specializzazione, il tirocinio, l’abilitazione, i concorsi. Per i suoi genitori doveva fare il magistrato. Lo avevano deciso un decennio prima, ma era come se lo sapessero da sempre. Erano anche a conoscenza di concorsi per entrare in Parlamento e di gente che diventava ministro da un giorno all’altro, semplicemente inviando il curriculum alla sezione Lavora con noi del sito www.ministri.it. I signori Baioni credevano di sapere tante cose ma erano completamente sconnessi dalla realtà, il loro era un mondo fatto di cugini di secondo grado che facevano i notai, figli di amici divenuti dirigenti d’impresa, ragazzetti cresciuti in fretta e insigniti dell’onorificenza di professore universitario. E il loro figlio? L’unica strada di Claudio, in un modo o nell’altro, doveva portare alla gloria. La sua, ma soprattutto la loro. I signori Baioni erano completamente ciechi di fronte alla crisi e guardavano con sdegno i laureati finiti nei call center. Il deserto di offerte lavorative non era visibile ai loro occhi, il rumore che facevano le speranze distrutte di buona parte dei giovani non era udibile alle loro orecchie. Il suono maestoso della parola ingegnere, l’ingegner Milella, il figlio della Lorusso, quello sì che suonava forte e chiaro.

    Claudio lo sapeva: ogni due weekend, quando percorreva i settantotto chilometri per ritornare a casa, si trovava davanti un uomo stanco e affaticato, con la testa piena di capelli grigi e cocciutaggine. Suo padre non poteva accettare quanto dicesse il figlio: «Papà, io non posso fare il magistrato, non lo farò mai, ho trent’anni e mi devo ancora laureare». Era un’ipotesi poco realistica, da non prendere nemmeno in considerazione. «Al limite farai l’avvocato» gli diceva, «ma non qui, a Milano. E ti occuperai solo di tributario perché altrimenti fai la fame».

    Michele Baioni si era spaccato la schiena per oltre trent’anni, sentiva di aver dato alla vita tutto ciò che poteva, ma era cosciente di aver preso solo il marcio che c’era. Sapeva che le incomprensioni con il figlio erano solo una questione di punti di vista, perché le cose si mostrano in modo diverso a seconda di come le guardi. Michele Baioni dalla vita aveva solo incassato. Ora era il momento di cambiare il punto di vista, non più incassare come sopportare senza reagire, ma incassare come riscuotere. A cambiare il punto di vista doveva essere Claudio.

    Era lui stesso che doveva cambiare tutto e invece non si cambiava nemmeno la maglietta. Indossava la stessa polo blu da mesi. La metteva per due o tre giorni, poi la rilavava la sera, solo quando sapeva di non avere lezione l’indomani mattina, e se la rinfilava il pomeriggio. La polo blu

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