Dream. Gioco d'amore
Di Karina Halle
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Info su questo ebook
A volte in amore bisogna stare al gioco
Kayla Moore vive a San Francisco e si è sempre sentita a suo agio nel ruolo di esuberante mangiauomini. Ma ora che è vicina ai trent’anni e le sue migliori amiche Stephanie e Nicola si sono sistemate con Linden e Bram McGregor, la cosa sembra molto meno divertente. Così, stanca di essere il terzo incomodo, tra sesso occasionale e appuntamenti che non hanno seguito, Kayla decide di mettere da parte gli uomini per un po'. Almeno finché non si ritrova davanti il cugino di Linden e Bram, l'affascinante Lachlan McGregor. Lachlan è il suo uomo ideale: alto, tatuato e massiccio. Con uno sguardo d'acciaio e una carriera da rugbista di successo a Edimburgo, le fa desiderare di gettare alle ortiche i suoi buoni propositi. Ma Lachlan è un uomo silenzioso e intenso, difficile da avvicinare. Quando i due si ritrovano a trascorrere insieme una lunga indimenticabile notte, Kayla si accorge che c'è molto da scoprire sotto la superficie da macho. Ma anche se tra di loro scoccano scintille, Lachlan non può restare per sempre in America. Ora Kayla deve decidere se vale la pena di sradicare tutta la sua vita per scommettere su qualcuno che conosce a malapena e rischiare di bruciarsi di nuovo.
Un giocatore di rugby che non rispetta le regole.
Una vivace mangiatrice di uomini che ha rinunciato all'amore.
Quando si tratta di Lachlan e Kayla gli opposti non solo si attraggono: esplodono.
Karina Halle
È cresciuta a Vancouver, in Canada. Ha una laurea in sceneggiatura e una in giornalismo. I suoi articoli di viaggio e alcune recensioni musicali sono apparsi in riviste come «Consequence of Sound», «Mxdwn», «GoNomad Travel Guides». È autrice di numerosi libri di successo. Dream. Patto d’amore è stato in classifica per diverse settimane sul «New York Times», il «Wall Street Journal» e «USA Today».
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Anteprima del libro
Dream. Gioco d'amore - Karina Halle
Indice
Cover
Collana
Colophon
Frontespizio
PARTE PRIMA
Prologo
Capitolo uno
Capitolo due
Capitolo tre
Capitolo quattro
Capitolo cinque
Capitolo sei
Capitolo sette
Capitolo otto
Capitolo nove
Capitolo dieci
Capitolo undici
Capitolo dodici
Capitolo tredici
Capitolo quattordici
Capitolo quindici
Capitolo sedici
Capitolo diciassette
PARTE SECONDA
Capitolo diciotto
Capitolo diciannove
Capitolo venti
Capitolo ventuno
Capitolo ventidue
Capitolo ventitré
Capitolo ventiquattro
Capitolo venticinque
Capitolo ventisei
Capitolo ventisette
Capitolo ventotto
Capitolo ventinove
Capitolo trenta
Epilogo
en1542
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualunque analogia con fatti, luoghi o persone reali, esistenti o esistite, è del tutto casuale.
Titolo originale: The Play
Copyright © 2015 by Karina Halle
All rights reserved
Traduzione dall’inglese di Elena Bertocci e Sara Beatrice Roberti
Prima edizione ebook: marzo 2017
© 2017 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-227-0741-3
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Corpotre, Roma
Karina Halle
Dream. Gioco d'amore
ominoNewton Compton editori
A Bruce, ai pitbull, e agli altri esseri incompresi a cui raramente è concessa una seconda chance nella vita
Ti sveglierò da questo sonno ad occhi aperti
Matador, Sleep no more.
PARTE PRIMA
PROLOGO
Edimburgo, Scozia, 1987
Nevicava dalla sera prima. Il bambino si svegliò sul pavimento vicino al fuoco, come faceva a volte quando il vento era troppo freddo e la mamma non pagava le bollette della luce. Durante la notte però il fuoco si spegneva, restava solo la cenere, e lui non si sentiva più le dita e il naso, le uniche cose che spuntavano dalla coperta di lana pruriginosa.
Anche se faceva freddo e umido nel salotto piccolo e buio, il bambino si svegliò felice. Quello era il suo giorno speciale. Compiva cinque anni, e la sua mamma gli aveva promesso, gliel’aveva promesso l’anno precedente, per il suo compleanno, quando non aveva avuto nessun regalo, che quando avrebbe compiuto cinque anni sarebbe diventato un ometto e allora sarebbero andati nel negozio di giocattoli e lui avrebbe potuto scegliere quello che voleva.
Aveva passato gran parte dell’ultimo anno sfogliando cataloghi gettati via che trovava nella pattumiera del condominio (a volte doveva aspettare in disparte mentre degli strani personaggi saccheggiavano i bidoni in cerca di cibo o di oggetti da impegnare), cercando giocattoli che gli piacessero. Quando ne trovava uno, strappava la pagina, la portava nella camera da letto che divideva con la mamma, e la nascondeva nella tasca dell’unico cappotto che possedeva.
Quando nei cataloghi non trovava niente, sfogliava le pagine delle riviste in biblioteca. Era lì che passava gran parte del suo tempo. Non andava a scuola, anche se avrebbe già dovuto iniziare, quindi la mamma lo doveva lasciare da qualche parte mentre faceva le sue cose. La biblioteca era il posto migliore per lui. Nel quartiere povero e caotico di Muirhouse, nessuno faceva caso al bambino coi vestiti logori e troppo grandi, seduto per ore sul pavimento della biblioteca, a sfogliare riviste e a sognare una vita diversa.
In realtà, quando arrivò il suo compleanno, al bambino non interessava davvero quale giocattolo avrebbe ricevuto. Voleva solo qualcosa che fosse suo. E anche se sapeva che i bambini maschi chiedono soldatini e macchinine, lui voleva solo una cosa confortante. Un peluche, forse un orso o un cane. Gli piacevano tanto i cani, anche quelli del vicino che abbaiavano tutta la notte e ti mordevano se ti avvicinavi troppo. Anche quelli gli piacevano.
Il bambino si alzò, tremando nonostante la coperta sulle spalle, e andò alla finestra a guardare fuori. Spalancò gli occhioni verde-grigio per lo stupore. Lo sporco e lo schifo delle strade malfamate sotto di lui erano stati cancellati, coperti da un mantello di neve bianca e pulita. Era la prima nevicata dell’anno a Edimburgo, e non poté impedirsi di pensare che era per lui, per il suo giorno speciale. Con le dita fredde e impacciate tirò fuori dalla maglietta il ciondolo a forma di croce e lo baciò, per dire grazie a Dio.
Voleva dire della neve a sua madre, quindi corse sul tappeto logoro, coperto di bruciature di sigarette e macchie lasciate dalle lacrime, fino alla porta della camera da letto.
Avrebbe dovuto bussare. Nella sua eccitazione, si era scordato una delle poche regole che gli aveva dato sua madre: Se ho un amico con me, devi dormire in salotto
e se la porta della camera è chiusa, non la devi mai aprire
.
Ma la aprì.
C’era una crepa nella finestra e il vento gelido si insinuava nella stanza, smuovendo le tende sbiadite. Sotto la finestra c’era il letto dove dormiva la mamma a faccia in giù, coperta da uno sporco négligé.
In piedi, torreggiante su di lei, c’era un uomo nudo che fumava la pipa.
Il bambino si immobilizzò, ma era troppo tardi. L’uomo lo vide, gettò a terra la pipa con rabbia, attraversò la stanza in un secondo e afferrò il bambino per la gola.
«Pensi di potermi giudicare?», gli sibilò in faccia l’uomo. Il suo alito puzzolente sapeva di cipolle e di sangue. Il bambino chiuse gli occhi e scosse la testa, spaventato.
Aveva già visto quell’uomo qualche volta, la mamma aveva tanti amici maschi. Sparivano tutti in camera. A volte ci stavano ore, a volte minuti. Lui sentiva colpi di tosse, risate e grida di eccitazione, nei giorni buoni. Nei giorni cattivi sentiva urla, sua madre che piangeva e oggetti lanciati attraverso la stanza. In quei giorni cattivi, la mamma poi era coperta di tagli e lividi. Allora non parlava con lui, e non usciva. Lui le stava accanto, e le portava tè sciapito fatto con bustine riusate tante volte, perché non c’era altro.
«Allora?», l’uomo urlò ancora e gli strinse il collo, e strinse e strinse. Il bambino non riusciva più a respirare. Pensò che quell’uomo tremendo con il nasone viola e gli occhi cattivi l’avrebbe ucciso.
Per alcuni versi, voleva che lo facesse.
«Ehi», disse sua madre dal letto, alzandosi lentamente. «Che succede?». La sua voce era roca e impastata. Si sedette sul letto. «Lascia stare mio figlio».
L’uomo lasciò la presa e si voltò a guardare la donna. Il bambino si toccò la gola bruciante, ansimando. Cercava di dire che gli dispiaceva, ma non gli uscivano le parole.
Non servì. Con uno scatto l’uomo si voltò e schiaffeggiò il bambino con il dorso della mano. Fu come un’esplosione di vetro nella testa, e cadde all’indietro.
Cozzò contro la cornice della porta e finì a terra con un tonfo, e pregò lo stesso Dio che aveva fatto nevicare di non fargli mai più sentire tanto male.
Ma non sarebbe stata l’ultima volta. Aveva tutta una vita di dolore davanti a sé.
«Tu zitta», urlò l’uomo a sua madre.
Lei sembrava terrorizzata, ma riuscì comunque a dire a suo figlio di alzarsi e di andare a chiudersi in bagno.
Il bambino riusciva appena a muoversi, ma in qualche modo ce la fece. Si alzò in piedi, con la testa che gli pulsava, scosso dai colpi di tosse, e andò in bagno. Il pavimento era sporco di urina. Con gesti impacciati chiuse il chiavistello, si sedette sulla tazza e aspettò.
Ci furono grida e grida e alla fine una porta sbatté.
Sentì bussare gentilmente alla porta, e capì che la sua mamma stava bene.
«Ti devi preparare» gli disse lei, appena lui dischiuse la porta. Sua madre gli fece un rapido sorriso con i suoi denti ingialliti e storti mentre si copriva il fragile corpo con un vestito. Le costole risaltavano come sbarre di una prigione. «È il tuo compleanno, e non mi sono scordata cosa ti avevo promesso».
Le si spezzò la voce sulla fine della frase. In fretta si voltò e andò via, con le spalle calate, la testa bassa.
Poco dopo entrambi erano completamente vestiti, e arrancavano nella neve verso la fermata dell’autobus. Il bambino non sapeva trattenersi dal sorridere a chiunque e a qualunque cosa incontrassero: le persone spaventose che dormivano per strada e parlavano da sole, i cani che tremavano e scappavano via, i ratti che si cibavano di cose morte ai lati della strada. Tutto questo non importava al bambino, perché il mondo gli sembrava luminoso, puro e tutto per lui. Diede un calcio alla neve e la guardò cadere, e disse alla mamma che il paradiso doveva essere così, camminare sulle nuvole tutto il giorno.
Lei si asciugò una lacrima mista a mascara e si disse d’accordo.
Il viaggio sull’autobus fu lungo, ma alla fine arrivarono a uno dei grandi centri commerciali di cemento. Era arrivato il grande momento per il bambino, il momento che aspettava da un anno intero.
Non notò nemmeno le occhiate strane che qualcuno indirizzò a lui e a sua madre; era talmente concentrato sul giocattolo che il resto del mondo era come scomparso. Anche se la nuca gli pulsava e la guancia era gonfia e stava diventando viola, quello era il giorno più bello della sua vita.
«Non abbiamo tanto tempo», gli disse sua madre. «Quindi fai alla svelta, scegli il tuo regalo e io pago».
Il bambino avvertì l’urgenza nella sua voce e all’improvviso si sentì sopraffatto. C’erano action figures, supereroi, macchinine, furgoncini, cavalli, bambole, peluche, costruzioni, set da disegno, Lego e un milione di altre cose che voleva. Rimase impalato lì, completamente attonito, e guardava intorno, e guardava, con il cuore che gli batteva forte in petto.
«Dài», insistette sua madre. Era alla cassa, pronta a pagare. All’improvviso il bambino ebbe tanta paura che se non avesse scelto qualcosa all’istante, non avrebbe avuto nulla. Allo stesso tempo era grande abbastanza da capire che non avevano tanti soldi, quindi non poteva prendere una cosa troppo bella e costosa.
Nel panico, si diresse verso gli animali di peluche. Erano tutti ammucchiati in una scatola: giraffe, orsi, cani, gatti. Tutti sembravano aver bisogno di una casa e gli spezzava il cuore poterne prendere solo uno.
Però doveva scegliere. Si stava decidendo per un cagnolino, quando vide un leone mezzo sepolto nella pila di peluche: si vedevano solo gli occhi sornioni da felino e la morbida criniera gialla. Quello non era il posto giusto per un animale così maestoso. Il bambino estrasse il leone dal mucchio, così morbido e tenero, e corse dalla madre sperando che non avesse cambiato idea.
Lei guardò il leone e sorrise. Era una buona scelta.
Una volta pagato, il bambino abbracciò il leone con tutta la forza che aveva. Era così bello stringere al petto qualcosa, e sembrava quasi che il leone ricambiasse l’abbraccio, ringraziandolo del salvataggio.
«Come si chiama il leone?», chiese sua madre a voce bassa. La sua voce era così triste che quasi ruppe l’incantesimo per il bambino, quell’incantesimo vertiginoso d’amore.
«Lionel», disse lui dopo averci pensato un momento. «Lionel il leone, e io gli voglio bene».
«E ti vuole bene anche lui, lo sai vero?», disse lei, pulendosi il naso sul cappotto di finta pelliccia. «Come ti voglio bene io».
La mamma non glielo diceva spesso, che gli voleva bene, quindi fu sorpreso. Così il compleanno era ancora più bello.
Risalirono sull’autobus, ma non verso casa. Le strade non le conosceva, e presto si lasciarono la città alle spalle.
I cortili erano più grandi, la neve più spessa.
«Dove andiamo?», chiese lui. «Questa non è la strada di casa».
«Andiamo a trovare degli amici miei», disse lei.
Lui non fu contento. Abbracciò forte il leone. Non gli piacevano gli amici della mamma.
Lei gli posò una mano sulla spalla, senza guardarlo. C’erano solo loro sull’autobus, e per questo il bambino si sentiva ancora più solo.
«Non ti preoccupare», gli disse lei alla fine. «Ci sono bambini della tua età lì».
Questo non lo aiutava per niente. Non andava d’accordo con gli altri bambini, che fossero della sua età o no. Era timido, e spesso lo prendevano in giro perché stava troppo zitto. E di conseguenza, si richiudeva ancora di più in se stesso, dove era al sicuro e a suo agio.
Infine l’autobus si fermò di fronte a un muro di pietra con un enorme cancello di ferro, e sua madre gli afferrò la mano, stringendo a sé la borsa mentre si avviarono nella neve. L’autobus si allontanò e il bambino desiderò di non essere sceso. Erano sulle colline, nel mezzo al nulla, e anche se casa sua era fredda e sporca, era sempre casa.
Il bambino non sapeva leggere il cartello sul muro, quindi chiese a sua madre cosa c’era scritto.
«C’è scritto che siamo i benvenuti», rispose, tirandoselo dietro fino al cancello. Suonò il campanello.
Attraverso le sbarre di ferro, il bambino fissò l’enorme magione sulla collina. Non gli piaceva. C’era qualcosa di brutto, forse le sbarre alla finestra o l’edera cresciuta ovunque, o il modo in cui incombeva su di loro come una bestia di mattoni, pronta a balzare. Era contento di avere con sé un leone come Lionel, ma continuò comunque a puntare i piedi.
«Dài», sibilò sua madre, spingendolo in avanti su per le scale.
La porta di ingresso si aprì, e apparve un uomo alto e magro, con il naso aquilino e i capelli pettinati all’indietro, che si mise a fissarli dall’alto.
«Benvenuta, signora Lockhart», disse, facendo loro segno di entrare.
L’uomo continuò a parlare mentre entravano nella casa, ma il bambino non ascoltava. Lo aveva colpito il gelo tutto intorno a lui. Le luci di un giallo malsano, le mura e il pavimento freddi e impersonali, sembrava tutto così inospitale. Era un posto pieno di brutte vibrazioni, conteneva solo cose cattive.
Ma sua madre se lo tirò dietro lungo l’ingresso spoglio, fino a un ufficio. Si sedettero entrambi su sedie rivestite in pelle di fronte all’uomo, e sua madre gli porse una busta estraendola dalla sua borsa.
«Confido che sia tutto in ordine», disse l’uomo, con voce profonda e senza emozione.
Sua madre annuì. «Sì». Si bloccò e guardò suo figlio con occhi pieni di rimpianto, poi si rivolse di nuovo all’uomo. «Spero che vi prenderete cura di lui. Non è colpa sua. È colpa mia».
L’uomo annuì e basta, sfogliando le carte.
«Che dici?», chiese il bambino. «Quand’è che andiamo a casa?»
«Ragazzo», disse l’uomo, fissandolo con occhi acuti. Al bambino sembrava che cercassero di fargli un buco nell’anima. «È questa casa tua ora».
Non riusciva a capire le parole dell’uomo. Scosse la testa e guardò sua madre, ma lei si era messa a piangere alzandosi dalla sedia.
«Mamma!», urlò, lasciando cadere il suo leone per poterle afferrare il cappotto con tutte e due le mani. Quasi cadde dalla sedia, tentando di trattenerla. Si alzò per seguirla quando lei si avviò verso la porta, ma l’uomo lo trattenne con una presa forte, senza pietà. «Mamma!», gridò ancora, tendendole le braccia.
Lei si fermò sulla porta un istante, con il mascara che le colava sulle guance.
«Mi dispiace tanto, Lachlan», singhiozzò, stringendo la maniglia tanto che le nocche le divennero bianche. «Io ti voglio bene, ma non posso averti nella mia vita. Mi dispiace tanto».
«Ma mamma!», urlò Lachlan con voce straziata. «Farò il bravo, promesso! Puoi riportare Lionel al negozio, però portami a casa, per favore!».
Sua madre si limitò a scuotere la testa e a sussurrare: «Addio».
Lachlan continuò a urlare, a ululare, a lottare per sfuggire alla presa dell’uomo, mentre guardava sua madre allontanarsi e scomparire.
«Per piacere!», urlò. Un grido così potente, per un bambino così piccolo. Gli cedettero le gambe. Sentì che l’uomo lo sollevava, ora i piedi gli ballavano nel vuoto.
«È questa casa tua», ripeté l’uomo. Tirò indietro la testa di Lachlan, la avvicinò alla sua bocca e con voce dura gli sussurrò all’orecchio: «E se non la smetti di strillare e fare confusione come un cretino, ti prendi venti cinghiate. È così che vuoi iniziare il tuo primo giorno all’Orfanotrofio Hillside? Eh?».
Ma Lachlan non riusciva a smettere di urlare. Non gliene importava niente di essere picchiato. L’avevano picchiato quella stessa mattina; l’avevano picchiato tante volte in passato. Il dolore vero era quello che sentiva dentro, che lo divorava, lo faceva a pezzi. Si sentiva come se stesse annegando in acque gelide, e l’inondazione partiva da dentro di lui.
«E va bene», disse l’uomo, gettando a terra Lachlan. Raccolse Lionel dal pavimento e lo tenne sollevato in aria. «Se non chiudi quella bocca non lo rivedrai più. Lo do a un altro bambino».
Lachlan non aveva altro. Si zittì. Chiuse le labbra ancora frignando, con il mento che gli tremava. L’uomo gli dette il leone, e lui lo strinse più forte che poteva, finché la criniera non fu zuppa di lacrime.
Il quinto compleanno fu l’ultimo che festeggiò per molto, molto tempo.
Lachlan non avrebbe più rivisto la madre.
Non sarebbe mai andato a casa.
E l’inondazione nella sua anima non si sarebbe mai davvero ritirata.
CAPITOLO UNO
San Francisco, oggi
Kayla
«Quant’è che una deve stare senza prenderlo, prima di tornare vergine?».
Steph e Nicola mi guardano attente, ho appena detto una cosa che li ha sconvolte.
«Kayla», mi ammonisce Nicola.
«Che c’è?», le chiedo scrollando le spalle. «Tra noi tre, sei l’unica che lo può sapere. Praticamente abbiamo dovuto sbatterti peni in faccia prima che ti decidessi a farlo con Bram. Quindi, eri tornata vergine o no?»
«Avevo un vibratore, scema», mi dice Nicola, appoggiandosi allo schienale della sedia e lanciandomi quell’occhiata. La conosco bene quell’occhiata lì, è l’occhiata Ma che hai che non va? E perché siamo ancora tue amiche?
.
«Il vibratore non conta», le dico. «Io parlo del pene vero e proprio. È stato come perdere la verginità un’altra volta, quando ti ha sbattuta Bram? Wham, bam, grazie Bram?».
Lei alza gli occhi al cielo e scambia uno sguardo con Steph. Sono passate solo poche settimane da quando Nicola è tornata con Bram, e lei e sua figlia Ava hanno lasciato il mio appartamento per andare da lui. Sono sempre un po’ sospettosa su Bram, più che altro perché non ci si può fidare degli scozzesi sexy, ma devo anche ammettere che mi manca avere intorno Ava e Nicola. Mi sento un po’ sola senza di loro, e le serate ormai le passo stravaccata a mangiare cibi surgelati guardando repliche di The Vampire Diaries.
Ovviamente se sono tutta sola e ho preservativi da buttare via è anche perché da qualche settimana ho fatto voto di castità. Cioè non solo niente sesso
… niente flirt, niente uscite, niente Tinder, niente di niente. Ragazzi, uomini, non li guardo neanche più.
E vorrei dire che funziona proprio bene. Starò anche a casa da sola tutto il tempo, ma meglio combattere l’impulso di bere vino e fare shopping online che andare a letto con un altro tizio che non riconoscerebbe un clitoride neanche se ci sbattesse la faccia sopra. Che cavolo, sono sicura che quando muovo i fianchi ci sbattono proprio la faccia sopra, eppure fanno comunque finta che non esista.
Senza parlare degli appuntamenti che non portano a nulla, degli uomini che sembrano avere potenziale però poi mi vedono come una principessina per metà asiatica e mi vogliono tutta dolce e sottomessa, mentre io intanto gli sbatto in faccia la vagina e impreco come uno scaricatore di porto.
Così è molto, molto più semplice. Meno stress.
«Kayla, tutto okay?», chiede Steph.
«Sì, perché?»
«Perché stai stritolando il tavolo tipo Incredibile Hulk».
Mi guardo le mani: di mio ho la pelle chiara, ma ora ho le nocche proprio bianche. Piano piano lascio andare il bordo del tavolo. Forse un po’ stressata lo sono.
«Sei sicura che questa faccenda del niente uomini
sia una buona idea?», mi chiede, prendendo un sorso di birra.
Ecco, a dire la verità, sono proprio felice di sentirglielo chiedere. Qualsiasi scusa per buttare il mio voto fuori dalla finestra è la benvenuta. Ma comunque, non posso lasciar perdere così facilmente.
«È la cosa giusta», le dico, sollevando la testa e costringendomi a rilassarmi. Prendo il mio bicchiere di vino, anche se è il secondo, e io sono già un po’ brilla. «È l’unica cosa da fare», aggiungo con aria seria.
«Sì, ci ripeti perché lo fai?», chiede Nicola.
La guardo nei suoi profondi occhi marroni, e poi guardo in quelli blu da bambina di Steph. Le mie due migliori amiche, con i loro vestiti casual accuratamente scelti, di marche straniere e stilisti indipendenti. Sono loro il motivo per cui faccio questo. Loro e le loro facce felici e sorridenti, e la loro incrollabile fedeltà ai maledetti fratelli McGregor. Nicola si è appena sistemata felicemente con Bram, dopo che avevano avuto una brutta crisi, e Stephanie è sposata con suo fratello Linden. Certo non aiuta il fatto che ho avuto una storiella con Linden un sacco di tempo fa, molto prima che si mettesse con Steph, quando loro erano solo amici. Non è che abbia spezzato il mio cuore da Grinch (è di tre taglie troppo piccolo), però ogni tanto mi torna in mente quello che avrei potuto avere ma che non ho.
La verità in fondo è che sono gelosa. E quando divento gelosa, anche se si tratta delle mie amiche, divento una piccola ninja malefica. E non mi va di essere una piccola ninja malefica, mi basta essere una ninja normale (anche se mi manca essere una ninja del sesso). Così ho deciso di allontanare gli uomini per allontanare le delusioni.
Almeno, quella era l’idea. È più facile quando sono a casa da sola, o al lavoro, o da mia madre, in palestra, o anche a cena fuori. Nei posti in cui la tentazione è limitata. Stasera però Steph e Nicola mi hanno praticamente presa di peso e trascinata al Burgundy Lion Pub nel distretto Haight, il nostro ritrovo abituale, per una serata tra donne. Ritrovarsi a bere in un locale, circondata da ragazzi, non è una buona idea quando una cerca di astenersi dal sesso. Menomale che sono uscita senza trucco, con i pantaloni della tuta e una maglietta larga con scritto No pants party
, quindi non penso che gli uomini faranno a gara per provarci con me. A meno che non prendano la scritta no pants
, niente pantaloni
, come un invito.
«Lo faccio perché ho un fidanzato a pile che conosce tutti i punti giusti e lo guido io dove voglio», spiego con un sospiro. «E non ne posso più di uscire con la gente in questa stupida città. Sempre le solite cose, sto sprecando tempo, e giuro che gli uomini diventano sempre più stupidi. Non mi riesce neanche più trovare uno che mi scopi per bene. È come se tutti gli uomini di San Francisco fossero già occupati, gay, o terrorizzati dalle vagine esigenti».
Si scambiano un altro sguardo, con questa specie di comunicazione segreta che sembrano avere ora. Secondo me prendere il pisello di un McGregor ti dà una forma di telepatia. Sono accomunate per sempre dal cazzo scozzese.
«Che c’è?», dico. «È vero, e sareste d’accordo anche voi se non ci fossero quei due in kilt a segregarvi le vagine».
«La smetti di dire vagina e vagine?», chiede Nicola. «Sta iniziando a perdere di significato».
«Eh sì, per me sì».
«Mmm. Ma senza una vagina esigente, Kayla esisterebbe ancora?», scherza Steph, con sguardo ironico.
«Come vi pare», rispondo, prendendo un bel sorso del mio vino Napa Zinfandel. «La mia vita sarà più facile così. Vedrete».
Il cellulare di Nicola vibra sul tavolo, e lei gli dà un’occhiata. «Sta arrivando Bram».
Io mugugno, appoggiando il mento sulla mano. «Dài, perché? Pensavo fosse una serata tra donne. L’ultima cosa che mi va di vedere siete voi due che vi lanciate sguardi languidi e allusioni stupide».
«Viene anche Linden», aggiunge mite Steph.
La guardo male.
«Scusa», mi dice, anche se non le dispiace affatto. «Ma se ti fa sentire meglio, io e Linden siamo una noiosa coppia sposata, quindi tutta quella roba tipo occhi languidi e ammiccamenti è finita».
«Sì, come no», rispondo, mentre Nicola fa un verso incredulo anche lei. «Voi due siete anche peggio di Bram e Nicola, perché siete una di quelle coppie tremende che chiedono agli altri come mai non si sposano. Hai presente Bridget Jones? Io sono Bridget, e voi due siete… tutti gli altri».
Nicola annuisce. «È vero». Poi mi guarda, tutta contenta. «Quindi devi solo incontrare il tuo Hugh Grant».
La guardo. «Alla fine mica si mette con Hugh Grant!».
Nicola aggrotta le sopracciglia, confusa.
«Sì, come se tu volessi un Mark Darcy», aggiunge Steph. «Comunque, Bram e Linden non vengono da soli».
Oddio. Mi sento subito a disagio.
«Come? Con chi vengono?», chiedo lentamente. Se è un uomo, mi arrabbio davvero. Specialmente se è un uomo single.
Si scambiano un’altra occhiata. Praticamente le sento che ridacchiano mentalmente.
«Il cugino Lachlan», dice Steph.
Lachlan McGregor. Come se non ci fossero già abbastanza McGregor solo in questa città, figuriamoci nel mondo. Io Lachlan non l’ho mai incontrato, un vantaggio di starmene a casa da sola, ma Steph e Nicola ne parlano di continuo da quelle poche volte che l’hanno visto. Gioca a rugby, è così misterioso, è tutto palestrato, bla bla bla. Tutta roba che non volevo sapere, perché questo tipo di cose è la mia kryptonite sessuale, specialmente in una città dove un uomo duro e tenebroso è un ago in un pagliaio di uomini metropolitani.
«Perché mi fate questo?», mi lamento, tastandomi i capelli legati in uno chignon spettinato. «Sono venuta in pigiama. Non sono truccata, non mi sono neanche pettinata. Gesù. Almeno ho i denti puliti? Puzzo?». Rapidamente mi annuso le ascelle e poi mi alito nella mano. Mmm. Eau d’Alcolizzato.
«Farti questo?», ripete Steph. «Fino a un’ora fa non sapevo che sarebbe venuto anche lui. Non sapevo neanche se sarebbero passati o no!».
«Oh», esclamo, passandomi un dito sotto gli occhi per sentire se c’è gonfiore. «Avrei dovuto saperlo che sarebbero venuti, praticamente vivono qui».
«Be’, io lavoro qui», fa notare Nicola. «E il padrone, James, è il miglior amico di Linden. E poi, che ti importa se viene Lachlan? Non ci devi mica andare a letto».
Afferro la borsa Balenciaga lilla di Steph, un regalo da parte di Linden che ho sempre avuto voglia di fregarle, e ci frugo dentro in cerca di un fondotinta e qualche trucco, visto che non mi sono portata dietro nulla. Neanche i soldi, tanto al Lion in genere beviamo gratis.
«Certo che non ci devo andare a letto, ma non mi ci voleva questa tentazione. E se lui è ancora a San Francisco quando il mio voto finisce? Potrei avere un po’ di pene scozzese anch’io prima che se ne torni in madre patria».
«Mi pareva che fossi contraria al pene scozzese», dice Steph.
«Sono contraria al pene McGregor. E comunque non avete detto che non è un cugino vero? È adottato».
Lei annuisce. «Okay tesoro, lascia che ti renda tutto più facile. Anche se tu fossi la solita diavolessa trangugiapeni, non sarebbe interessato».
Per un attimo mi zittisco. «Ehi, trangugiapeni l’ho inventato io, non mi copiare. E poi, perché? È gay?». Uno dei miei fratelli è gay, Toshio. Magari li faccio mettere insieme.
«Non penso», dice Steph. Guarda Nicola. «Anzi, mi pare che Bram abbia detto che si vede con una certa Justine».
Nicola aggrotta le sopracciglia. «Sì. La stessa Justine con cui usciva Bram, ricordi?».
«Sì, ma tu hai detto che non era proprio un appuntamento. Che il padre di lui aveva combinato l’incontro», faccio notare.
«Sì». A ogni modo, al ricordo Nicola mette il broncio. Lei e Bram hanno avuto un inizio molto tumultuoso. In pratica si odiavano. Ma poi lei è diventata tutta zuccherosa e si è innamorata di lui, non solo delle sue prestazioni sessuali.
«Va bene, quindi ha la ragazza», dico a Steph. «Bastava dire questo».
«Penso che siano usciti un paio di volte e basta, non lo so», dice Steph. «A ogni modo è difficile capire qualcosa di lui».
«Sì, davvero». Nicola annuisce con forza. «Mi avrà detto tipo due parole, eppure è fisso a casa nostra».
«Non mi serve che uno parli, per portarmelo a letto. Ma comunque non lo farò. Per via del mio voto eccetera».
Nicola mi guarda alzando un sopracciglio e resta così per dieci secondi. Che talento.
«Ti mancherebbero troppo le parolacce a letto», dice Steph con un sorrisetto. So che sta pensando a suo marito e a quant’è sboccato.
«Ehi», dico, indicando me stessa con il pollice. «Io dico abbastanza parolacce per tutti e due».
«Con noi ne dici abbastanza, di sicuro», dice Nicola.
Sbuffo, prendendo il fondotinta di Steph e guardandomi nello specchietto. Anche senza trucco, so che non sto male. Da mia madre ho preso gli zigomi alti, gli occhi scuri e delle ciglia nere lunghissime che non hanno bisogno di mascara. Da mio padre ho preso la bocca carnosa e le lentiggini. Però comunque potrei stare meglio. Ho le guance arrossate dall’alcol, i capelli sparati in tutte le direzioni, e sono vestita come una barbona.
È meglio così, mi dico. Uno scozzese poco loquace è l’ultima cosa che ti ci vuole.
«Sì, hai ragione», dico.
«Eh?».
Guardo Steph senza capire. «Ah scusa, parlavo da sola. Ogni tanto lo faccio, lo sai».
«Eccoli», dice Nicola. So che sta facendo quel suo sorrisetto stupido, glielo sento nella voce.
Io sospiro e mi giro a guardare l’entrata del locale. Sotto le luci basse, tra i mobili di legno rifiniti in ottone, accanto al jukebox che suona solo le canzoni di James, ecco entrare Bram, Linden e Lachlan McGregor. La santissima Trinità degli uomini scozzesi sexy.
Ma mentre penso questo, il mio sguardo si concentra solo su Lachlan, perché finalmente lo vedo per la prima volta. Mi rendo conto che sexy
è un eufemismo. Linden e Bram sono belli in modo banale, sono affascinanti in modo classico, ma Lachlan è tutta un’altra storia.
È una bestia.
Lachlan è più alto di Bram di trenta centimetri abbondanti (e vuol dire tanto, perché Bram di per sé è piuttosto alto), ed è due volte più grosso. Sembra una quercia, è alto, alto, solido, probabilmente inamovibile, e già mi viene voglia di correre attraverso il bar e saltargli addosso, così da rendermi conto di quant’è immenso. Ho la sensazione che gli rimbalzerei contro. Cioè, ha un fisico che sembra preso pari pari da un fumetto di supereroi: le braccia spesse coperte da tatuaggi scuri, il petto immenso, le spalle enormi, il torso a forma di V. Anche con addosso solo una maglietta verde e dei jeans scuri, risalta su tutti.
E io non riesco a distogliere lo sguardo. Non mi importa neanche, tanto tutti nel locale sono lì a fissare la Trinità scozzese, però almeno mi passo una mano sulla bocca per essere sicura di non sbavare. È probabilmente l’uomo più impressionante che io abbia mai visto, e mi viene subito una gran voglia di spalmarmi sulla sua faccia. Se l’amore non è questo, non so cos’è.
Bram ci fa un cenno e Linden saluta con la mano, e intanto gli occhi di Lachlan passano in rassegna la folla con sguardo attento, come un poliziotto che cerca di individuare un sospettato. O un criminale che cerca l’occasione giusta. C’è una scintilla elettrica di pericolo nei suoi occhi, e per un attimo mi chiedo come sarebbe se guardasse me in quel modo. Probabilmente prenderei fuoco.
Sfortunatamente, quando si avvicinano e finalmente lo sguardo di Lachlan incontra il mio, non ci vedo altro che indifferenza.
Distolgo lo sguardo velocemente, rendendomi conto dello stato in cui sono. Mentalmente mi maledico per essermi fatta trascinare qui, quando potrei essere a casa a guardare Damon Salvatore. Di lui non mi interessa se mi vede in pigiama.
Per il tuo voto è meglio così, mi dico. Mi fermo prima di rispondermi con un Ma stai zitta. Ecco, parlo da sola di nuovo.
«Ciao tesoro», dice Steph a Linden, sorridendogli come una scema, proprio come immaginavo. Ignoro i convenevoli delle coppie e fisso il bicchiere di vino, attendendo il temuto momento della presentazione. Lo sguardo mi scivola verso il pavimento e noto le loro scarpe: lucide ed eleganti per Bram, Keds per Linden, e stivali da trekking per Lachlan. Sono vecchi e logori e molto molto grandi.
«Kayla», dice Bram, quasi delicatamente. Bello, mi trattano come una bomba che sta per esplodere.
Lentamente alzo la testa per guardarlo negli occhi scuri.
«Lui è nostro cugino, Lachlan». Si sposta di lato leggermente e indica il bestione. «Lach, lei è Kayla».
Io faccio finta di niente. Annuisco e dico: «Piacere».
In realtà vorrei dire Posso leccarti la faccia per favore?
. Perché è proprio una bella faccia, specialmente da vicino. È corrucciato, come se non capisse perché gli dovrebbe importare chi sono io. Così gli si forma una ruga in mezzo agli occhi, e mi viene voglia di passarci un dito sopra. Gli occhi sono vivaci e attenti, color nocciola tendente al verde. Ha le guance incavate, la mascella larga con una barba trasandata al punto giusto, e ha i capelli marroni e folti e viene voglia di tirarli. E poi le labbra. Sono labbra sensazionali. Sono labbra che vorrei avere fra le gambe.
A questo pensiero sento il calore che mi cresce nel basso ventre. Arrossisco.
E questo aggrottare ancora di più le sopracciglia.
«Kayla», ripete. La sua voce è molto bassa e roca, come quella di un attore noir degli anni Quaranta, e il suo accento scozzese è molto più marcato di quello di Bram o Linden. Quando dice il mio nome, sembra tipo il nome di un dolce gaelico. Ovviamente a questo punto mi viene in mente lui che mi apre sul tavolo e mi mangia come un dolce.
Mamma mia, mi serve una doccia fredda subito.
«Dovremmo prendere un tavolo più grande», dice Nicola, e la sua voce mi riporta alla realtà. Anche se continuerei volentieri a fissare Lachlan in tutta la sua gloria, immenso e tenebroso, questo per me è il momento perfetto per farmi furba e scappare.
Mi muovo a finire il vino, prima di alzarmi. Ho paura che stare troppo vicina sia tipo stare accanto a un buco nero, quindi mi sposto per allontanarmi da lui e mi preparo delle scuse per andarmene, quando Bram mi tocca il braccio.
«Kayla, ti posso parlare un momento?», mi chiede. Io lo guardo sorpresa. Per una volta ha una faccia seria, e io mi sento come una bambina che si è messa nei guai. Dev’essere perché mi metto spesso nei guai.
«Okay», rispondo, e lancio un’occhiata preoccupata a Nicola. Lei alza le spalle, sembra sorpresa quanto me, e tutti gli altri si spostano a un tavolo più grande.
Bram tamburella sul tavolo dove eravamo fino a ora. «Rimettiti a sedere. Ti devo chiedere una cosa».
«Se mi vuoi chiedere di trasferirmi con voi, la risposta è no», gli dico, sedendomi con riluttanza.
«Ah, ah», dice, asciutto. «In realtà ti volevo chiedere un favore». Fa una pausa, aggrotta le sopracciglia. «Tu lavori per il Bay Weekly
, vero?»
«Sì», rispondo lentamente. Ogni giorno penso di cambiare lavoro, ma questo non glielo dico.
Lui unisce le mani davanti a sé, mostrando un orologio d’argento luccicante che probabilmente costa una fortuna. «Sai che cerco di trovare fondi per il mio condominio. Lachlan è qui per aiutare, ha fatto degli investimenti intelligenti negli anni, quindi ha soldi, e pare che la beneficenza gli stia a cuore. Ma ci mancano altri investitori, stiamo facendo il possibile per trovarli».
Io annuisco, senza capire assolutamente cosa potrei fare io. Anche se Bram mi sta un po’ antipatico, ha davvero un cuore d’oro, ed è un po’ che cerca fondi per il suo condominio in centro. Se l’è comprato tutto con i suoi soldi, e apre gli appartamenti alle persone con reddito basso, i malati, gli anziani e altre persone bisognose. Nicola mi ha spiegato che non può andare tanto avanti da solo prima di finire i soldi, e fino a ora la città di San Francisco non è stata molto generosa con questa cosa di cui ha tanto bisogno.
«Quindi pensavo», continua Bram, «che magari tu potevi mettere una buona parola con il giornale. Ci serve tutta la pubblicità possibile».
Storco il naso, dispiaciuta. «Mi dispiace. Ti aiuterei se potessi, ma io lavoro nel reparto pubblicitario. Mi occupo di piccoli annunci e franchise. Cioè, magari posso farti ottenere un annuncio…».
Bram scuote la testa. «Grazie, gli annunci li posso avere da solo. Magari… un articolo, un editoriale, qualsiasi cosa, sarebbe davvero d’aiuto».
Anche il mio capo, Lucy, non mi dispiace, è il revisore, Joe, che è uno stronzo. Se potessi ottenere quello che vuole Bram, è con lui che dovrei parlare.
Però Nicola è mia amica e Bram ha il cuore al posto giusto. Sospiro.
«Okay, domani parlo con il revisore e vedo che posso fare. Io non posso scrivere l’articolo, ma qualcun altro sicuramente sì. Se sono interessati».
«Nicola dice che hai studiato giornalismo, perché non lo potresti scrivere tu? Avrebbe un carattere più personale, no?».
Sento una familiare stretta di rimorso nello stomaco. «Ho studiato comunicazione», lo correggo, «e sono rimasta incastrata nell’ambito pubblicitario. Io lo potrei scrivere, ma… non me lo lascerebbero fare, neanche se provassi. Lo darebbero a qualcuno assunto come scrittore. Ma sono tutti bravi. Vedo che posso fare, okay?».
Mi sorride. Bellissimo diavolo. «Grazie, Kayla. Non hai il cuore di pietra come dicono».
Alzo un sopracciglio. «Mi permetto di dissentire. In fondo lavoro in pubblicità».
Anche se sono pronta ad andarmene, qualcosa mi spinge a sedermi con loro. Linden, Steph e Lachlan sono a un lato del tavolo, quindi io e Bram ci sediamo accanto a Nicola, proprio quando una cameriera arriva a portare altri drink. Il bicchiere di vino scivola nella mia direzione, e io sbuffo, sapendo che ora sarebbe maleducato andare via.
«Di che parlavate?», ci chiede Steph.
«Volevo solo capire se Kayla può tirare qualche filo al Weekly
», spiega, e poi guarda Lachlan.
Suo cugino annuisce, il suo sguardo si sposta su di me e poi di nuovo su Bram. Mi ha notata appena, e in genere la gente dice che sono facilmente dimenticabile (non sempre in modo lusinghiero, ma pazienza).
«Se potessi sarebbe stupendo», dice Nicola, in fondo al tavolo. «Così risparmieresti a Lachlan un altro appuntamento con Justine».
Bram ride, e Lachlan si appoggia allo schienale, con la birra leggera in mano. Cavolo. Che mani. Le mani degli uomini mi eccitano tanto, e le sue sono grandi, ampie, forti. Se mi toccasse come sta toccando la birra, sarei in grossi guai.
Lachlan lancia un’occhiataccia a Bram, e io noto la cicatrice leggera sulla fronte e sugli zigomi, che gli attraversa il naso e lo rende appena appena irregolare. Ha l’aspetto di un duro, un combattente, un giocatore. La mia mente aggiunge questa informazione alla recente scoperta delle sue mani, e mi sento come se stessi per implodere.
«Cosa non farei per mio cugino», dice Lachlan, e quasi mi perdo nel suo accento marcato. Dal tono sembra quasi divertito, anche se la faccia resta di pietra.
«Più che altro, chi non ti faresti per tuo cugino», scherza Linden. A questo Lachlan non replica.
Ah, quindi è un dongiovanni come gli altri McGregor. Lo immaginavo. Voglio dire, come fai a essere così bello, virile, primordiale, rude, con quelle labbra, quegli occhi, e non avere tutte le donne ai tuoi piedi? Se non avessi fatto un voto, e avessi un po’ di trucco e un alito decente, e non ci fosse nessuno a guardarmi, sarei già sotto il tavolo a cercare di prendergli il pisello in bocca. Scommetto che è fantastico.
Sospiro internamente. Non mi disturba che sia uno poco serio, perché lo sono anch’io. O lo ero. Quindi forse è questo che mi disturba. Non potrò mai dare un assaggino. Anche se l’astinenza è la cosa migliore, ho bisogno di una scopata feroce, e Lachlan McGregor sembra l’uomo giusto per farlo. Per farlo a ripetizione.
Cioè, ovviamente, se mi trova attraente. O se almeno mi ha notata. E siccome ogni tanto colgo lo sguardo dei suoi occhi duri color muschio, e non ci leggo dentro nulla di nulla, so che non è probabile che gli interessi. Magari davvero gli piace questa Justine, anche se Nicola diceva che non era niente.
Per fortuna arriva James a unirsi a noi, ci chiede se vogliamo altro da bere, e io colgo l’opportunità per scappare. Steph e Nicola protestano, dicono che prenderanno un taxi con me dopo, ma non posso restare neanche un altro minuto seduta di fronte alla bestia scozzese.
Saluto in fretta, soffermandomi su Lachlan solo brevemente, e poi mi sbrigo ad andarmene. Appena il taxi mi scarica, mi precipito nel mio appartamento, dalla mia abbondante collezione di fidanzati a batteria.
Non spreco tempo. Non mi servono i preliminari, li ho già fatti guardando Lachlan, anche se solo nella mia mente. Sono già bagnata solo a pensare a lui, quindi mi sdraio sul letto, infilo il vibratore in profondità, e immagino che sia il suo cazzo che mi penetra lentamente. Immagino i suoi muscoli tesi, duri, incredibilmente scolpiti sopra di me, immagino lo sguardo febbricitante dei suoi occhi, il suo accento marcato che chiama il mio nome.
Poi al mio vibratore del cazzo muoiono le batterie, e io resto con un pene finto sussultante. Gemo di frustrazione, poi lo butto da una parte e finisco da sola con la mano.
Prima gli uomini di questa città mi deludono, poi mi muore il vibratore.
Mi addormento ripetendomi che qualsiasi cosa a forma di pene deve restare molto, molto lontana da me.
CAPITOLO DUE
Kayla
La mattina dopo mi sveglio sentendomi anche peggio. Questa è la ricompensa per i tre bicchieri di vino di ieri sera. Ci vuole poco a farmi diventare alticcia, di conseguenza ci vuole anche poco a farmi sentire da schifo la mattina dopo.
Riesco ad alzarmi prima dell’ultima sveglia, e mi faccio una doccia fredda. Letteralmente. Certe mattine è l’unico modo per svegliarmi, fisicamente e mentalmente. Quindi in pratica significa che mi devo sommergere di acqua gelida almeno un paio di volte a settimana. Non è un mistero che ho, come dice mia madre, la testa un po’ tra le nuvole
, e di tanto in tanto devo riordinare le idee. E in più, così ho sempre i capelli super lucidi.
Dopo, decido di curare il mio aspetto un po’ più del solito per stamattina, per bilanciare il fatto che ieri sera facevo schifo, e vado in ufficio appena in tempo per evitare di arrivare in ritardo e beccarmi una strigliata. Non che Lucy, il mio capo, mi urlerebbe mai contro, anche se sono sempre in ritardo. In realtà non dice quasi mai nulla, ed è sia un vantaggio che uno svantaggio: niente rimproveri, ma neanche niente lodi.
Quando ho finito l’università, avevo tante grandi ambizioni. Come tutti. Ero convinta che sarei magicamente atterrata su una splendida carriera appena uscita da scuola. Bram non ci era andato tanto lontano, dando per scontato che avrei potuto scrivere io l’articolo. Avevo studiato giornalismo, con una specializzazione in pubblicità. I due ambiti facevano appello a due parti diverse di me: una visiva, una interna. Entrambe creative.
Ma il mondo è stato crudele, e il mercato era affollato di sognatori ingenui come me. Ho fatto un tirocinio nell’ambito produzioni del «Bay Weekly», e ho avuto una gran fortuna che si sia aperta una posizione. Ero assistente per i piccoli annunci e le pubblicità di franchise. Ho lavorato per tre lunghi anni, facendo