Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Dimmi che vuoi me
Dimmi che vuoi me
Dimmi che vuoi me
E-book768 pagine10 ore

Dimmi che vuoi me

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

L’incontro dello sceriffo Hixon Drake e di Greta Dare in una minuscola cittadina del Nebraska dà vita a un’immediata sintonia. Purtroppo per loro, il tempismo non potrebbe essere peggiore.

Hix sta facendo i conti con un divorzio che gli è letteralmente piovuto dal cielo e vuole occuparsi dei suoi figli. Senza nemmeno accorgersene, è diventato il tipo di uomo che tiene tutti a distanza ed è troppo impegnato a proteggere i suoi figli e il suo cuore per guardare oltre il suo naso. Greta, invece, è appena arrivata in Nebraska insieme a suo fratello, in fuga dal passato. È in cerca di un po’ di pace e ha intenzione di iniziare la sua nuova vita al riparo dai guai. Questo, prima di incontrare lo sceriffo… Quando l’attrazione tra i due diventa innegabile ed è chiaro che non riescono a stare lontani, un omicidio sconvolge la piccola comunità della città in cui vivono. Si tratta del primo delitto da decenni e Hix, questa volta, dovrà ricominciare a fidarsi di qualcuno se vuole sperare di trovare il colpevole. Ma convincere Greta, non sarà per niente facile.
Kristen Ashley
è cresciuta a Brownsburg, Indiana, e ha vissuto a Denver, Colorado, e nel Sudovest dell’Inghilterra. Per questo ha la fortuna di avere amici e parenti sparsi in tutto il mondo. La sua famiglia è a dir poco stramba, ma questo può essere un bene quando si desidera scrivere. La Newton Compton ha già pubblicato la Mystery Man Series. Dimmi che sarà per sempre, Dimmi che ci sei, Dimmi che cambierai e Dimmi che lo vuoi fanno parte della Rock Chick Series.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mag 2019
ISBN9788822734358
Dimmi che vuoi me
Autore

Kristen Ashley

Kristen Ashley grew up in Brownsburg, Indiana but has lived in Denver, Colorado and the West Country of England. Thus she has been blessed to have friends and family around the globe. Her posse is loopy (to say the least) but loopy is good when you want to write.Kristen was raised in a house with a large and multi-generational family. They lived on a very small farm in a small town in the heartland and existed amongst the strains of Glenn Miller, The Everly Brothers, REO Speedwagon and Whitesnake (and the wardrobes that matched).Needless to say, growing up in a house full of music, clothes and love was a good way to grow up.And as she keeps growing up, it keeps getting better.

Autori correlati

Correlato a Dimmi che vuoi me

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa romantica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Dimmi che vuoi me

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Dimmi che vuoi me - Kristen Ashley

    UNO

    A presto

    Hixon

    Hix si voltò e appoggiò il sedere nudo sul bordo del letto, i piedi sul pavimento.

    Maledizione.

    Cos’era successo?

    Niente di buono.

    Niente di buono.

    Perché era stato bello.

    Era stato incredibilmente bello.

    Mentre lo pensava, la sentì muovere nel letto. La sentì gemere piano. Sentì il suo maledetto profumo.

    Talcato, fiorito e dolce, ma non fu questo che gli arrivò.

    C’era anche qualcosa di muschiato, che lo rendeva così sexy.

    Sommato all’odore di sesso nella stanza. Le tracce di lei su di lui (ben più del semplice profumo). Il buio che lo circondava era attenuato solo dalla luce della luna e di un lampione lontano, quindi non riusciva a vedere praticamente niente. Ciò significava che poteva fare affidamento solo sugli altri sensi e Hix sentì lo stomaco, le spalle e la mandibola contrarsi.

    Tutto per respingere l’attrazione verso di lei.

    Doveva assolutamente uscire da lì.

    Si alzò in piedi, borbottando: «Devo andare».

    Ci fu un breve attimo di silenzio prima che sentisse il suo dolce e sorpreso: «Scusa. Cosa?».

    Allungò una mano, raccolse i boxer e se li mise mentre ripeteva: «Devo andare».

    L’atmosfera nella stanza cambiò. La calda indolenza post-coito svanì, lasciando il posto a qualcosa di più pesante.

    «Andare?».

    Dio, era in grado di farlo crollare con una sola parola.

    Quindi, sì.

    Proprio così.

    Andare.

    Doveva andare.

    E doveva farlo prima di sentire ancora il suo odore. Di sentire ancora quella voce, in qualunque modo gli arrivasse: come prima e di certo come in quel momento, tremante di dolore.

    Non poteva assolutamente guardare.

    Né il letto con le lenzuola sgualcite, perché erano stati loro a ridurle così, né i vestiti sparsi per tutta la stanza perché erano stati loro a buttarceli, né i suoi lunghi capelli arruffati perché lui ci aveva immerso le dita.

    Niente di tutto questo.

    Ma, soprattutto, non poteva assolutamente guardare lei.

    «Andare», borbottò, mentre individuava i suoi pantaloni a un metro e mezzo dai boxer e se li infilava.

    La sentì muoversi nel letto, sentì che si era messa a sedere, ma non si stava alzando e questo era un bene. Se solo avesse fatto qualcosa di più, e non doveva fare altro che immaginarlo, si sarebbe voltato.

    «Io… be’, oh…».

    Fu tutto quello che disse.

    Ma fu troppo. In quel momento era come se ogni sillaba gli si attaccasse alla pelle, gli cantasse nell’orecchio per indurlo a tornare indietro.

    Gesù.

    Cos’era successo?

    E maledizione, era passato tanto tempo.

    Ma finora, lui non era mai stato quel tipo d’uomo.

    L’uomo che stava per essere proprio in quel momento.

    Come faceva a comportarsi così?

    «Grazie», mormorò.

    Un altro breve attimo di silenzio prima che lei dicesse con voce bassa e stordita: «Grazie?»

    «Sì». Si infilò la camicia, senza preoccuparsi di abbottonarla. Le lanciò solo un’occhiata, senza guardarla realmente anche mentre si chinava a raccogliere le calze e le scarpe dal pavimento, grato che fossero tutte lì ammucchiate, meno che il suo reggiseno di pizzo ci si fosse aggrovigliato in mezzo.

    Sei un idiota, amico, proprio un idiota. E un grande stronzo, pensò.

    L’atmosfera nella stanza si fece inquieta, poi di nuovo inerte, ma stavolta c’era qualcosa di sgradevole.

    «Sì», disse lei sottovoce alle sue spalle. «Fantastico».

    Si voltò verso di lei, fece scorrere lo sguardo sul letto e si accorse in modo intenzionalmente vago che si era puntellata su un braccio, stringendosi le lenzuola al petto, e che i capelli le ricadevano sulle spalle; il ricco e luminoso biondo miele sembrava più scuro nella luce soffusa e lei aveva alzato l’altra mano per scostarsi i capelli dal viso.

    Già.

    Non era un bene che la guardasse.

    «A presto», disse.

    «Certo». C’era qualcosa di amaro in quella replica. Amaro e tagliente. «A presto».

    Quel tono indusse Hix a fermarsi.

    E gli fece commettere un errore.

    La guardò negli occhi attraverso la penombra.

    Non riusciva a vedere quasi niente, ma capì che erano amareggiati e taglienti.

    «Non ti disturbare a chiuderti la porta alle spalle», disse lei. Ormai ogni parola che le usciva dalla bocca era fredda come ghiaccio. «Come sai, non vengono commessi crimini in questa città».

    Oh, sì.

    Lo sapeva.

    Ma questo non cambiava le cose.

    «Ti devi chiudere dentro», disse con calma.

    Lei inclinò bruscamente la testa di lato. «Mi sembrava di aver capito che te ne dovevi andare».

    «Greta…».

    Lei lasciò cadere la mano che aveva tra i capelli e una lunga ciocca le ricadde sull’occhio sinistro, aumentando le ombre sul suo viso; sembrava che si fosse allontanata da lui con un grande passo.

    No.

    Non aveva bisogno di vedere neanche questo.

    «Dai. Ti prego».

    Le sue parole non erano una supplica.

    Erano piene di disprezzo.

    E sì.

    Doveva uscire da lì prima di fare altri danni.

    Tuttavia…

    «Chiudi la porta appena vado via», le ordinò.

    «Agli ordini, sceriffo».

    «Hai modo di recuperare la tua macchina dal club?», le chiese.

    «Non ti preoccupare per me, caro. Ho modo di fare un sacco di cose», rispose strascicando le parole.

    Okay.

    Sarebbe stata bene. L’avrebbe superata, sarebbe andata avanti.

    Adesso se ne poteva andare.

    Si girò per andarsene, ma poi si voltò di nuovo e incrociò ancora il suo sguardo.

    «È stato bellissimo, Greta». Ribadì la verità con un tono che, stavolta, non poteva lasciare dubbi sul fatto che fosse sincero.

    «Sì, Hixon. Fantastico». Le parole erano smozzicate e, anche se sapeva senza ombra di dubbio che lei era d’accordo, dal tono non sembrava condividere ciò che provava lui.

    Mentre esitava (nella penombra non riusciva a vedere che si stava accigliando, ma avrebbe giurato di riuscire a sentirlo), lei concluse, sottolineando quanto non ce la facesse più, dicendogli di nuovo: «A presto».

    Lui alzò il mento in cenno di saluto, si voltò verso la porta e uscì.

    Si mise le calze e gli stivali davanti al portone e si abbottonò la camicia prima di lasciare la casa.

    Nessuno sarebbe stato sveglio a quell’ora, ma non importava.

    In quel momento, Hix non si stava preoccupando di cosa avrebbe pensato la gente se lo avesse visto uscire da un’abitazione prima che facesse giorno con la camicia sbottonata.

    In quel momento, si stava preoccupando di cosa avrebbe pensato la gente di Greta se avesse visto un uomo uscire da casa sua prima che facesse giorno con la camicia sbottonata.

    Salì sul suo fuoristrada accostato al marciapiede e aspettò di vedere l’ombra di lei, delineata dalla luce fioca che filtrava attraverso la tenda sottile sopra il vetro del portone, accertandosi che si chiudesse dentro, al sicuro.

    Solo allora Hix mise in moto la macchina e se ne andò.

    DUE

    Noia

    Hixon

    Mentre Hix stava andando al lavoro, quel lunedì, il suo telefono suonò.

    Lo tirò fuori dal taschino e guardò lo schermo.

    Immediatamente, si augurò di non dover rispondere alla chiamata.

    Ma anche se lei non era più sua moglie, avevano tre figli. I ragazzi sarebbero andati a casa sua quel pomeriggio dopo la scuola per passare la settimana successiva con lui, quindi doveva rispondere a quella maledetta chiamata.

    «Sì?», rispose.

    «Che gentile», replicò acida Hope.

    Questo lo infastidì.

    Lo aveva sempre infastidito.

    Anche prima.

    Ma pur non essendo di certo la prima volta che rispondeva così a una sua chiamata (mentre stava guidando, soprattutto, ma anche quando era nei casini, anche prima che si separassero) da quando gli aveva chiesto il divorzio, in quel momento provò un fastidio più intenso del solito.

    Tuttavia, sapeva da tempo che Hope voleva che ogni cosa andasse come diceva lei.

    Soltanto come diceva lei.

    Quindi non la turbava doverlo ribadire di continuo.

    A lui non era importato quando stavano insieme, perché i suoi genitori gli avevano insegnato che il matrimonio non è tutto rose e fiori, ma bisogna trovare il modo di convivere anche con i suoi aspetti meno piacevoli.

    Detto questo, c’era stato un periodo, un periodo molto lungo, in cui aveva pensato che quella fosse una dote positiva. La sua donna sapeva cosa voleva e non era disposta a rinunciarci.

    Adesso non la pensava più così.

    «Sono in macchina, sto andando al lavoro, Hope», le disse. «Lo sai che non sono bravo a parlare al telefono mentre sto guidando e sai anche perché». E lo sapeva. Ai tempi in cui vivevano dove i crimini erano all’ordine del giorno, era stato spesso testimone delle conseguenze spiacevoli dei momenti in cui la gente era più interessata a quello che stava succedendo nel proprio orecchio che a quello che stava succedendo per strada. «I ragazzi stanno bene?».

    Lei ignorò la sua domanda per osservare: «Potresti comprare una macchina a cui poter collegare il cellulare, così avresti più possibilità di fare l’impossibile. Ovvero fare più cose contemporaneamente».

    Non aveva idea di come lei ritenesse possibile che lui potesse comprare un’automobile e, contemporaneamente, mettere su una casa in cui poter finire di tirare su i figli nei periodi in cui li aveva con sé con il suo stipendio.

    Era Hope quella che comprava le macchine nuove.

    Hix aveva la sua Bronco dall’ultimo anno di college.

    In altre parole, da vent’anni.

    Neanche questo lo aveva disturbato. E continuava a non disturbarlo. La Ford Bronco era il miglior veicolo che fosse mai stato messo sulla strada. L’avrebbe cambiata quando fosse morta definitivamente e non ci fosse davvero più niente da fare, non un secondo prima.

    Hope non gli diede la possibilità di rispondere, anche se lui non aveva nessuna intenzione di farlo.

    Gli annunciò: «Dobbiamo parlare».

    Fantastico.

    Era il suo ritornello da settimane.

    Tre, per l’esattezza.

    In effetti, era iniziato un’ora dopo che si erano seduti in quella maledetta stanza con i loro maledetti avvocati e avevano firmato quelle maledette carte.

    «Ripeto», disse tra i denti. «I ragazzi stanno bene?»

    «Stanno bene», rispose lei. «Ma noi due dobbiamo parlare».

    «Dei ragazzi?», la pressò lui.

    «No, Hix. Ci sono cose di cui dobbiamo parlare che non riguardano i ragazzi».

    Si sbagliava di grosso.

    «Non più».

    «Dio!», sbottò lei. «Perché fai così?»

    «Non lo so, Hope», rispose lui mentre svoltava nel parcheggio di fianco alla stazione di polizia della contea. «Ma magari, considerando che ho firmato i documenti del divorzio tre settimane fa, posso fare tutto quello che mi pare».

    Come sempre, Hope insisté. «Ci sono cose che devono essere dette».

    «Pensavo le avessi dette tutte quando hai firmato nella riga accanto alla mia».

    «Hix...».

    Lui finì di parcheggiare e spense il motore dicendo: «Probabilmente ci vedremo domani sera alla partita».

    «Non ti posso parlare di queste cose alla partita di Corinne».

    Lui guardò il muro di mattoni rossi fuori dal parabrezza, la parete laterale della stazione di polizia, e chiese, non per la prima volta e quindi sospirando: «Mi vuoi accennare di cosa si tratta?»

    «Mi piacerebbe. Di persona», rispose, anche lei non per la prima volta. Poi, improvvisamente, cambiò strategia. Hix lo sentì dalla sua voce, quando gli propose con tono persuasivo: «A pranzo oggi. Offro io».

    «A meno che non ci sia qualcosa che non va con i ragazzi, io e te non parleremo, Hope. Quindi va da sé che non ci vedremo a pranzo».

    «Quanto ci vorrà ancora prima che superi questa cosa e mi permetti di riavvicinarmi a te?».

    Hix sentì il mento ritrarsi lentamente nel collo mentre con altrettanta lentezza sbatteva le palpebre.

    Superarla?

    Cristo.

    Permetterle di riavvicinarsi?

    Sul serio?

    «Hai voluto tu il divorzio, Hope», le ricordò con calma.

    «Me lo ricordo, Hix».

    «Ricordi anche la parte in cui ti ho detto più volte, durante l’anno in cui siamo stati separati, che io non volevo?», le chiese.

    «Ne possiamo parlare? Faccia a faccia».

    Stavolta fu Hix a ignorarla.

    «Io non volevo. Né per i ragazzi. Né per la nostra famiglia. Né per me o per te. Né per noi».

    «Hixon…».

    «Stavamo bene. Eravamo felici».

    «Io non ero felice», mormorò lei.

    «Su questo sei stata abbastanza chiara», replicò lui.

    «Tesoro, possiamo…?».

    Tesoro?

    Diavolo, no.

    «Se hai qualcosa da dirmi sui ragazzi, ne possiamo parlare. Al telefono. A meno che tu non sorprenda Mamie a iniettarsi dell’eroina. In questo caso ne possiamo parlare faccia a faccia».

    «Oddio! Ha tredici anni!».

    Tredici, infatti.

    Gesù, come faceva la sua bambina ad avere già tredici anni?

    Non lo chiese alla sua ex moglie.

    «Adesso devo andare al lavoro», si limitò a comunicarle.

    «Non ci posso credere».

    «Stammi bene, Hope».

    Detto questo, attaccò, sperando fosse l’ultima telefonata del genere, ma sapeva che non sarebbe stato così.

    Non si sorprese quando la previsione si rivelò corretta e Hope lo richiamò mentre stava girando la maniglia della porta di ingresso della stazione di polizia.

    Rifiutò la chiamata, aprì la porta, entrò e si guardò intorno.

    Il suo ufficio era sul retro, separato dallo stanzone principale da una grande vetrata.

    Il centralino era sulla destra, dietro un vetro antiproiettile che era stato installato prima che lui arrivasse per ragioni sconosciute, dato che nella contea praticamente tutti avevano una pistola, ma era più probabile che ci fosse un’apocalisse zombie piuttosto che qualcuno la usasse in una stazione di polizia. Le uniche cose sacre per gli abitanti del Nebraska erano le chiese, i cimiteri e il Tom Osborne Field al Memorial Stadium.

    Molto probabilmente lo avevano fatto perché avevano un’eccedenza di bilancio.

    C’era una donna al lavoro. Reva. Faceva i turni nei giorni feriali.

    Di fronte a lui, un bancone lungo, alto, vecchio, graffiato e ammaccato che ancora brillava per la cura e l’età.

    La reception. Non ci lavorava nessuno. Se uno qualsiasi degli agenti vedeva arrivare qualcuno, se ne occupava di persona.

    Oltre la reception, superata una porta girevole proprio come negli spettacoli televisivi, c’erano quattro scrivanie. A due a due, fianco a fianco e sommerse di carte.

    Dietro la parete sulla destra, dopo il centralino, c’era la stanza degli interrogatori, la stanza di osservazione, lo spogliatoio con gli armadietti, il caveau blindato, cioè il deposito delle armi, e l’area di elaborazione, in cui prendevano le impronte digitali e scattavano le foto segnaletiche.

    Le due celle della stazione erano sul retro, dall’altro lato rispetto al suo ufficio, quasi del tutto aperte sulla stanza principale. Aperte, ovviamente, se non si consideravano le sbarre.

    L’agente seduta alla scrivania sembrava, neanche a farlo apposta, non avere niente da fare.

    Perché non c’era niente da fare.

    Quella contea viveva in una bolla ferma nel tempo, che portava Hix a chiedersi perché le ragazze non indossassero le crinoline sotto le gonne a ruota, i calzini alla caviglia e le scarpe con i lacci, e perché i ragazzi non avessero la brillantina nei capelli e i jeans con i risvoltini.

    In quella contea, la gente lasciava la chiave nella toppa della macchina e la porta di casa aperta.

    In quella contea, la maggior parte delle attività era chiusa la domenica, perché quello era il giorno in cui si andava in chiesa e poi a casa per la cena con la famiglia e, durante la stagione, a guardare il football.

    Era una contea di rammolliti.

    Era strana.

    Hix aveva provato quei sentimenti per la città natale di Hope dal primo momento in cui ci aveva messo piede, vent’anni prima, per incontrare sua madre e suo padre.

    Lui non avrebbe voluto muoversi da Indianapolis, ma lei aveva voluto crescere lì i loro figli (e voleva anche sua madre vicina, in modo da poterle appioppare i bambini quando voleva fare qualcos’altro). Così, appena avevano iniziato ad averne, lei aveva iniziato a stargli addosso. E, in puro stile Hope, non aveva mollato.

    Su questo, Hix aveva tenuto duro.

    C’erano voluti nove anni.

    Poi, quando aveva visto come andavano le cose nelle scuole pubbliche in città e non gli era piaciuto, e prima che Shaw, il primogenito, si affezionasse troppo alla classe e agli amici che si sarebbe fatto, si era arreso.

    Era successo sette anni prima.

    Il suo ragazzo adesso aveva diciassette anni. Corinne, la secondogenita, la prima femmina, quasi sedici. Mamie, la sua bambina, tredici.

    Hope era stata entusiasta del trasferimento.

    Hix e i ragazzi si erano annoiati a morte. Niente Children’s Museum. Niente Indianapolis Colts. Niente 500 Miglia. Niente Monument Circle illuminato per Natale. Niente Eagle Creek Park. Niente cene alla St. Elmo Steak House per le occasioni speciali. Niente fine settimana alle Indiana Dunes o al lago Shafer, oppure gite di famiglia a Chicago per vedere una partita dei Cubs e divorare la pizza migliore del mondo.

    Solo un sacco di Nebraska pieno di terreni coltivati con qualche fattoria sparsa qua e là, pascoli con qualche ranch e, occasionalmente, qualche cittadina che non sarebbe mai stata abbastanza presuntuosa da prendere in considerazione la possibilità di definirsi una città.

    Quello era un posto in cui i poliziotti indagavano così tanto su un brutto caso che li sconvolgeva da non riuscire neanche a considerare la possibilità che potesse essercene un altro.

    O in cui i poliziotti andavano a impazzire.

    Di noia.

    C’erano ubriachi che facevano cose stupide perché erano ubriachi. C’erano ragazzi che facevano cose stupide perché erano ragazzi. C’erano voci di violenze domestiche o abusi su minori che nessuno avrebbe mai denunciato perché certe cose qui non succedono, ma, se fossero sfuggite di mano, le parti interessate sarebbero andate dal pastore, non dallo sceriffo.

    Girava dell’erba.

    Niente di più.

    L’ultima morte sospetta aveva finito per rivelarsi un suicidio e risaliva a ventitré anni prima.

    E lì la criminalità si riduceva a un uomo che aveva una banda che gestiva un laboratorio di metanfetamine. Hix non era mai riuscito a trovare una ragione legale per farvi irruzione. Per non parlare dello sceriffo precedente, che aveva fatto un accordo con quel tizio in base al quale lui poteva produrre merda nella loro contea a patto che la vendesse altrove.

    Un accordo al quale il criminale si era sempre attenuto, fino a quel giorno.

    E questo era il motivo principale per cui Hix aveva le mani legate.

    E quando quello sceriffo era andato in pensione, due anni dopo che Hix e Hope si erano trasferiti lì, dato che Hope non la smetteva di fargli pressioni, si era candidato al ruolo di sceriffo senza oppositori, e quindi aveva vinto.

    Aveva avuto un avversario alle ultime elezioni. Un agente di una contea vicina si era trasferito e aveva cercato di prendere il posto di Hix.

    Hix aveva preso il 98% dei voti.

    Questo era dovuto al fatto che alla contea McCook non piacevano i cambiamenti. L’ultimo sceriffo era rimasto al suo posto per trentatré anni. Aveva appoggiato la prima elezione di Hix, quando lui non ne aveva bisogno, e la seconda, quando ne aveva bisogno solo per modo di dire.

    E Hix poteva essere originario dell’Indiana, ma Hope era del Nebraska fino al midollo, anche se aveva finito per incasinarsi con gli studi (e quindi non laurearsi) alla Purdue (la sua terza e ultima possibilità).

    La gente del Nebraska si comportava così se la mamma ti spingeva fuori dal suo territorio, soprattutto se entrambi i genitori, e tutti i loro genitori, erano andati a studiare a Lincoln.

    E così avevano fatto i parenti di Hope, e anche lei, al primo tentativo.

    Mentre quando Hix era diventato abbastanza grande per accantonare l’ambizione di diventare prima un supereroe, poi un pilota di aerei da combattimento, e infine un astronauta, aveva iniziato a fare sul serio.

    Accadde precisamente quando, a undici anni, mentre era seduto in macchina in un parcheggio con sua madre e quell’uomo magro e nervoso aveva bussato al finestrino.

    Lei si era stranita, gli aveva detto di bloccare la portiera e aveva bloccato la sua appena in tempo, mentre quell’uomo afferrava la maniglia. Era partita e quell’uomo aveva inveito contro di loro.

    Non aveva mai dimenticato il pallore di quel volto o il modo in cui la madre stringeva forte il volante mentre tornavano a casa e continuava a ripetergli che andava tutto bene. Era crollata solo dopo essersi chiusa dietro la porta della camera da letto, con suo padre, dopo che lui era tornato a casa, e lo aveva fatto senza sapere che Hix era seduto fuori ad ascoltare.

    Dopo quell’evento, Hix aveva deciso che sarebbe diventato un poliziotto.

    Non si trattava di fare la differenza. Si trattava di riparare i torti.

    Si trattava di trovare i cattivi e fargliela pagare per aver costretto una donna, o chiunque altro, ad avere così tanta paura.

    Ma adesso, sceriffo della contea di McCook, nel Nebraska, non faceva un cazzo.

    Se i suoi agenti sbattevano dentro un ubriaco, smaltiva la sbronza e lo lasciavano andare. Se faceva del casino e si metteva al volante, qualche mese dopo Hix sedeva in tribunale mentre il giudice della contea gli faceva la predica sulla responsabilità e gli dava una pacca sul braccio, anche se quella predica veniva ripetuta... ripetutamente.

    Questo perché il giudice era imparentato in un modo o nell’altro con l’ubriaco.

    Non valeva la pena rovinare il giorno del Ringraziamento.

    Per non parlare dei ragazzi che combinavano guai. Quelli avevano molta più paura dei loro genitori che di Hix e dei suoi agenti.

    E d’altro canto, in quella contea non si trattava di ragazzi che guidavano auto nuove, avevano l’ultimo modello di smartphone, indossavano vestiti firmati e si facevano di ecstasy o Roipnol per godersi di più la serata in città.

    Se si fossero messi nei guai, non avrebbero potuto aiutare nei campi.

    Quindi sarebbero stati castigati dal papà, o dalla mamma, in modo tale che Hix non li avrebbe più visti se non a un evento della scuola, dove si sarebbero comportati in maniera irreprensibile, tutto un sì, signore e no, signora, e li avrebbe visti aprire la portiera della loro ragazza per farla scendere dalla macchina.

    Si rendeva conto di quanto era folle sentire la mancanza della criminalità.

    Ma non era questo.

    Gli mancava sentirsi utile.

    Aveva quarantadue anni, ma si sentiva come un vecchio senza niente di meglio da fare che girare il cartello sulla porta perché non dicesse aperto, ma piuttosto sono andato a pescare.

    C’erano molti luoghi adatti alla pesca in Indiana e, se volevi fare le cose in grande, potevi andare su nel Wisconsin e prendere roba davvero buona.

    Hix odiava pescare.

    Non lo avrebbe mai detto da quelle parti, così come non avrebbe mai detto di non essere un grande fan della caccia.

    Guardava suo figlio giocare a football. In seguito, durante l’anno scolastico, l’avrebbe visto giocare come prima base nella squadra di baseball della scuola.

    Guardava anche sua figlia giocare a pallavolo, poi fare una pausa prima dell’inizio del campionato di calcio.

    E guardava la sua bambina ballare.

    Oltre a questo, adesso che non aveva più una moglie e aveva una famiglia una settimana sì e una no, sedeva alla sua scrivania e ascoltava i suoi agenti che gli chiedevano cosa fare con la signora Schmidt che accusava il suo vicino, il signor Christenson, di averle rubato i pomodori dal giardino. Si allenava in palestra. Si incontrava con i ragazzi all’Outpost per vedere una o due partite. E guardava un sacco di programmi orribili in tv.

    Il sabato precedente era andato al Dew Drop, giù sulla Country Road, al 65, e aveva ascoltato Greta cantare.

    Durante le pause tra le canzoni, dopo che le aveva offerto da bere, avevano chiacchierato.

    Quando aveva finito, l’aveva portata a casa.

    E dopo aveva fatto l’amore con lei.

    Non l’aveva scopata.

    Aveva fatto l’amore con lei.

    Era iniziato in modo diverso, bollente, forte, bagnato, disperato.

    Poi, per qualche motivo, era cambiato.

    No, non per qualche motivo.

    Lo sapeva il motivo.

    Le aveva mordicchiato l’orecchio e lei aveva voltato la testa per fargli spostare la bocca, e lui aveva visto il suo volto alla luce della luna.

    Era eccitata. Era una cosa sexy e a lui era piaciuto il fatto di averla fatta eccitare così.

    Ma sorrideva anche.

    Le piaceva quello che le faceva, come la faceva sentire, tutto quello che faceva e quello che sentiva.

    Ma anche, più semplicemente, le piaceva lui.

    E a Hix questa cosa era piaciuta.

    Non aveva più avuto una donna da quando Hope gli aveva detto che voleva che se ne andasse e, quando le aveva risposto che stava facendo un errore madornale per se stessa, i ragazzi, la loro famiglia, lui, loro e lei non aveva voluto sentire ragioni, se n’era andato. Durante l’anno di separazione, aveva sempre pensato che sarebbe tornata e non aveva avuto intenzione di mandare a farsi fottere questa possibilità.

    Ma anche se aveva avuto solo la sua mano e un sacco di bei ricordi, che riusciva a rendere ancora migliori nella sua mente, con Greta, non importava da quanto non fosse stato dentro una donna, ci era andato piano. Si era preso tutto il tempo del mondo. E aveva portato entrambi dove era stato con una sola donna in tutta la vita.

    Sua moglie.

    Ed era stato meglio di quanto fosse mai stato con Hope.

    Molto meglio.

    Al di là di qualunque cosa sapeva potesse succedere.

    E lui sapeva anche perché.

    Perché anche Greta, con la sua bellissima voce, i capelli stupendi, il bel viso e le curve sinuose, sapeva cosa le piaceva.

    Ma quello che le piaceva non era prendersi ciò che voleva.

    Era dare.

    E Hix questo non l’aveva mai provato. Non così. Non in modo così puro. Assoluto. Era lei che si eccitava nel darsi a lui mentre lui si eccitava donandosi a lei.

    Non gli era successo neanche una volta nel suo matrimonio. Neanche una volta in nessuna relazione.

    Lui dava.

    Lui non prendeva.

    Tranne che dai suoi ragazzi, che gli davano tutto ciò di cui aveva bisogno semplicemente respirando.

    Anche questo gli era andato bene. Aveva amato sua moglie ed era il tipo d’uomo che pensava fosse suo dovere impegnarsi al massimo per darle ciò di cui aveva bisogno, ciò che voleva, ciò che la rendeva felice.

    Non conosceva nessun altro modo, soprattutto perché con lui nessuno si era mai comportato diversamente.

    Finché non era accaduto.

    «Capo?».

    Quando Bets lo chiamò, Hix si rese conto di essere rimasto fermo immobile sulla soglia della porta.

    Merda.

    Andò verso la porta girevole, la oltrepassò e, come al solito con Bets, tenne il comportamento cui lei lo costringeva regolarmente con le sue stronzate.

    La guardò negli occhi solo lo stretto necessario per dirle: «Buongiorno».

    Poi percorse il corridoio tra le scrivanie mentre lei gli rispondeva: «Buongiorno. Passato un buon fine settimana?».

    Le passò accanto borbottando: «Sì».

    Ed era vero, per la prima volta in un anno e tre settimane.

    O almeno aveva passato un buon sabato notte.

    Finché non aveva rovinato tutto.

    Entrò nel suo ufficio, si avvicinò alla scrivania, ci buttò sopra il cellulare e ci girò intorno per schiacciare il tasto di accensione del computer.

    La scrivania era da un lato della stanza, con la schiena rivolta verso la parete oltre la quale c’erano le celle.

    L’aveva messa così perché non voleva che fosse di fronte alla vetrata. Avrebbe rammentato ai suoi agenti che li teneva d’occhio. Non la voleva neanche di spalle alla vetrata, e non perché non volesse dare le spalle alla porta; anche quel vetro era antiproiettile. Non voleva che i suoi agenti vedessero lo schermo del suo computer o lo osservassero a sua insaputa.

    Quindi era di lato. Loro avevano la loro specie di privacy, e anche lui.

    Era in piedi dietro la scrivania, sul punto di mettere il sedere sulla sedia, quando la voce di Bets arrivò dalla porta proprio di fronte a lui.

    «Ho saputo che sei stato al Dew Drop».

    Un’altra cosa che non gli piaceva delle piccole città nelle contee non molto popolose.

    Non avendo molto altro da fare, tutti si facevano gli affari di tutti.

    E non avendo molto altro su cui concentrarsi, gli affari di tutti erano di facile accesso.

    Ma per ciò che riguardava lui, per qualche motivo, anche prima che diventasse sceriffo, tutti avevano pensato che fosse affare loro. Lui, Hope e i loro bambini.

    Ed era ancora peggio che fosse Bets a bussare alla sua porta come prima cosa di lunedì mattina per parlarne.

    Merda.

    Ci siamo, pensò.

    Lei entrò e Hix represse un sospiro.

    «Io ci sono stata un paio di volte. È molto bello», osservò.

    Lui c’era stato solo una volta prima di quel sabato, anni prima, una sera che era uscito con Hope.

    E Bets aveva ragione. Il Dew Drop era bello. In mezzo al nulla, con un sacco di parcheggio perché intorno c’erano solo campi, l’edificio sembrava una baracca.

    Perché, ai vecchi tempi, era la baracca in cui i pochi afroamericani della contea di McCook e di quelle adiacenti, e le poche altre persone che le abitavano e la sapevano lunga, potevano andare ad ascoltare il jazz o il blues suonato e cantato da artisti di strada che non avrebbero mai perso l’occasione di suonare lì qualcosa nella speranza di farsi un nome.

    Per di più, non avrebbero mai perso l’occasione di dare al gestore del Dew Drop la possibilità di guadagnare abbastanza per coprire le spese.

    Nella contea di McCook le persone si rispettavano.

    Ma solo in pochi godevano del rispetto riservato a Gemini Jones.

    Gemini aveva ereditato la gestione di quella baracca da tre generazioni di antenati.

    E ai vecchi tempi poteva anche essere stata una baracca, ma adesso, entrandoci, si veniva accolti da eleganti luci rosa e blu, sgabelli semicircolari imbottiti, tavoli davanti al piccolo e intimo palco, con piccole lampade dai paralumi bordeaux e lunghe tovaglie rosa, drink serviti in calici o bicchieri da cocktail pesanti appoggiati su spessi tovagliolini blu marino. La birra era servita solo alla spina. E appena ti sedevi ti veniva messa davanti una piccola ciotola di mandorle e anacardi caldi.

    Se quel club fosse stato in una qualunque altra città in un qualunque altro Paese del mondo occidentale, sarebbe stato figo da morire e famosissimo.

    Invece era in mezzo al nulla nel Nebraska, ed era figo da morire. Ma la clientela era molto scarsa e quindi, per quanto fosse popolare e il pubblico non mancasse, non c’era mai la ressa che il club avrebbe meritato.

    «Sì, è bello», convenne Hix, senza sedersi e limitandosi a guardare Bets negli occhi.

    Lei fece un movimento con il corpo che, se portato a compimento, le avrebbe fatto spostare la punta dello stivale sul pavimento.

    Hix sospirò di nuovo.

    Bets parlò.

    «Ho sentito che c’è una nuova cantante».

    Okay, non erano ancora le otto del mattino e già non era una buona giornata.

    Ma anche se lo fosse stata, quella storia doveva finire.

    Quella storia era il fatto che Bets aveva una cotta per lui.

    Ce l’aveva da prima che sua moglie gli chiedesse il divorzio. Non appena aveva saputo che Hope lo aveva sbattuto fuori, era partita in quarta.

    Anche prima non era stata brava a nasconderlo. Ma quando si era convinta di avere un’opportunità, non si era più preoccupata di farlo.

    Veniva presa in giro dai suoi due agenti maschi (uno affabile, l’altro stronzo) ma era talmente ossessionata da quella illusione d’amore che ogni cosa le scivolava addosso.

    La sua altra agente, Donna, non vedeva la situazione di buon occhio.

    Non la prendeva in giro. Lanciava delle occhiatacce, poi prendeva Bets da parte e le faceva dei discorsetti e, quando non funzionavano, coglieva ogni occasione per ribadire come meglio poteva che Bets non stava facendo un favore alla sorellanza nelle forze dell’ordine.

    Hix aveva sperato che Donna, una veterana, sarebbe riuscita a fare ragionare Bets, che era una recluta. E nel frattempo aveva messo le cose in chiaro in ogni modo possibile senza essere uno stronzo.

    Non stava funzionando.

    E adesso Bets sapeva che era stato con Greta, e questo voleva dire che lo sapevano anche gli altri, cosa che non lo rendeva felice.

    Ma il fatto che fosse entrata nel suo ufficio come prima cosa, di lunedì mattina, per parlargliene con quel suo modo di fare irritante, lo rendeva ancora meno felice.

    Tutto ciò lo spinse a dire: «Va bene, agente, vediamo di andare dritti al punto».

    La vide irrigidirsi mentre la sua attenzione si concentrava su di lui.

    «Ho cercato di mettere le cose in chiaro senza essere brutale, per non ferirti», le disse. «Visto che proprio non vuoi capire, mi dispiace ma devo essere più diretto».

    «Hix…», iniziò lei, cominciando ad andare nel panico.

    «In questo momento, sono lo sceriffo», la interruppe.

    Lei sgranò gli occhi e lui la vide deglutire.

    Sapeva perché, ne conosceva tutti i motivi.

    Prima di tutto lui era lo sceriffo e non sentiva il bisogno di far mandare giù la cosa a forza ai suoi agenti. Loro lo chiamavano Hix. Lui li chiamava per nome. A meno che non fosse una situazione ufficiale in cui avevano bisogno di dimostrare ai cittadini l’efficienza e l’unità del dipartimento, le cose stavano così. Erano una squadra. Lui era il loro capo. Loro lo sapevano e non c’era mai stato bisogno di ricordarglielo.

    Almeno fino ad allora.

    Hix continuò.

    «Quello che desideri non accadrà mai per tre motivi».

    Alzò una mano, sollevando un dito per poi riabbassarla e continuare.

    «Uno: tu hai ventisei anni. Per età sei più vicina a mio figlio che a me. Io ho già vissuto quella parte della vita. Ho avuto una moglie. Dei figli. Una casa. Non so dove mi porterà questa nuova situazione, ma so che non mi riporterà lì. Ho già dato. Non rivivrò una situazione simile. Non metterò di nuovo su casa per farmi un’altra famiglia. Tu hai un futuro davanti a te e, se è quello che vuoi nella vita, dovresti trovare un uomo disposto a fare di tutto per te».

    «Io...».

    Lui le parlò sopra, e alzò di nuovo la mano con l’indice e il medio tesi e accostati prima di abbassarla di nuovo.

    «Due, e questo è più importante, Bets, quindi ascolta attentamente. Io sono il tuo capo. Sono lo sceriffo di questa contea. Tu sei una dei miei agenti. Questa cosa non può succedere».

    «Se...».

    Indicò il numero tre, interrompendola ancora una volta.

    «Tre, senza offesa, ma anche se tu non fossi una dei miei agenti, non lo farei. Come ho già detto, sei troppo giovane. Ci sono uomini a cui piace nuotare in uno stagno che avrebbero dovuto abbandonare un decennio prima, ma io non faccio parte di questa categoria. Senza contare il fatto che, di nuovo senza offesa, non sei proprio il mio tipo».

    Non lo era proprio, anche se era una bella donna. Capelli biondo scuro. Begli occhi castani. Un’aria vivace che gli faceva venire in mente una ex cheerleader.

    Non era una donna sfacciata. Sapeva essere una tipa tosta quando la situazione lo richiedeva e questo sì che piaceva a Hix. Così come apprezzava la sua diligenza e il suo senso del dovere. Faceva il suo lavoro, era spesso di buon umore e non portava i problemi personali al lavoro, se mai ne aveva. Anzi, proprio per questo gli sembrava che problemi non ne avesse.

    Avrebbe potuto guadagnarsi il rispetto dei colleghi se non avesse scodinzolato dietro al suo capo: era questo l’unico problema che portava sul lavoro.

    Ma non era mai sfacciata.

    E in quel momento lo era ancora di meno, mentre il suo sguardo si induriva e il viso si incattiviva.

    Non ne fu sorpreso. Le capitava con una certa facilità.

    Gesù.

    Bets.

    «Quindi il tuo tipo è una cantante di pianobar part-time vecchia, grassa e fallita che per la maggior parte del tempo fa la parrucchiera?», gli chiese beffarda.

    Greta, grassa?

    Si mise quasi a ridere.

    Non lo fece.

    Pensò che non sapeva che Greta facesse la parrucchiera.

    Per non parlare del fatto che fino a quel momento Bets lo aveva fatto irritare.

    Ora lo stava facendo proprio incazzare.

    «Devi capire che i miei gusti in fatto di donne non ti riguardano», tagliò corto.

    Lei strinse le spalle in una posizione difensiva, smise di fissarlo negli occhi e borbottò: «Non capisco perché mi stai dicendo queste cose, sceriffo».

    «Sì che lo capisci», le rispose con calma.

    Lei gli lanciò un’occhiata da sotto le ciglia e poi distolse di nuovo lo sguardo.

    Hix decise che era l’ora di finirla.

    «Adesso la finiamo con questa storia, Bets, dico sul serio. So che Donna ti ha fatto un discorsetto. E tu l’hai ignorato. Io non ti ho mai lanciato segnali di incoraggiamento, ma tu hai ignorato anche questo. Quindi adesso esci dal mio ufficio con le idee più chiare, agente. Se lo fai, è tutto a posto. Se dovessi avere il minimo sentore che non è cambiato nulla, ci toccherà fare un’altra chiacchierata, e questa non è stata molto piacevole per nessuno dei due. La prossima lo sarà ancora meno».

    Lei non rispose e non si mosse.

    «È tutto chiaro, Bets?», insisté.

    «Chiaro, sceriffo».

    Aveva il sospetto che non fosse così.

    Sospirò di nuovo.

    «Bene. C’è qualcosa che devo sapere sul fine settimana?», le chiese, riportando la discussione all’ambito professionale.

    «Non ne ho idea», rispose a denti stretti. «Non ero reperibile questo fine settimana».

    Detto ciò, per lei il discorso era chiuso, e glielo fece capire uscendo dal suo ufficio.

    Lui la fissò, poi sospirò di nuovo mentre si sedeva.

    Guardò il computer, mise le mani sulla tastiera e digitò la password.

    Lo fece pensando al fatto che Bets sapeva che era stato a Dew Drop e che se n’era andato con Greta.

    Se lo avesse saputo anche Hope, la loro conversazione quella mattina sarebbe andata molto peggio.

    Ma la domenica era giorno di riposo, forse anche per i pettegolezzi.

    Questo voleva dire che gli restava qualche ora prima che Hope lo venisse a sapere.

    A farlo andare fuori di testa era il fatto che, come suo recentissimo ex marito che non avrebbe mai voluto quel titolo, pensava gliene dovesse importare qualcosa.

    Ma per qualche motivo non gli importava.

    Proprio per niente.

    TRE

    Rassegnazione

    Hixon

    Afine giornata, Hix guidò fino a casa: per la prima volta da una settimana non vedeva l’ora di arrivare.

    O, per la precisione, guidò fino all’orribile appartamento che aveva preso in affitto con l’idea di potersi accontentare finché non avesse fatto ragionare Hope e fosse tornato alla sua vera casa; in quel momento, però, era l’unica cosa che poteva offrire ai suoi figli.

    Una cosa che doveva cambiare, e in fretta.

    Aveva fatto quel lungo viaggio ogni giorno per più di un anno, andando nella direzione opposta rispetto alla casa in cui aveva sistemato la sua famiglia e che era in uno dei pochi (ce n’erano solo tre) vecchi quartieri abbastanza grandi nella città di Glossop, capoluogo della contea di McCook.

    Aveva lasciato la sua ex moglie e i tre ragazzi in una vecchia casa elegante che era stata costruita poco prima dell’inizio del ventesimo secolo. Una casa che Hope aveva voluto ancora prima di andare al college. Una casa che gli aveva continuato a chiedere di comprare dopo che si erano trasferiti lì, anche prima che se la potessero permettere e che, comunque, non era in vendita.

    Quando era stata messa sul mercato, era stato un furto, ma Hix l’aveva comprata per lei.

    Era perfetta. Quattro camere da letto, due bagni e un gabinetto di servizio, con un altro bagnetto nel seminterrato, una grande cucina e una grande sala da pranzo. Il seminterrato era sistemato in modo che i ragazzi avessero un posto tutto per loro. Vicina al suo posto di lavoro.

    Il giorno in cui si erano trasferiti era stato il quinto più bello della sua vita, dopo il giorno in cui aveva sposato sua moglie e quelli in cui lei gli aveva dato i loro tre bambini.

    Greta viveva in una casa simile, grazie al cielo in uno degli altri quartieri.

    Era più piccola e la zona non era altrettanto vecchia, né altrettanto ricca, quindi il valore delle case non era molto alto. Ma era comunque elegante, con ampi vialoni alberati e case che erano state costruite prima del boom edilizio del dopoguerra e quindi erano tutte diverse, distinte, con il loro stile e il loro fascino.

    Non si addiceva a una splendida donna con un vestito di perline che cantava canzoni d’amore in una baracca di lusso. Quel tipo di donna viveva in una mansarda bohémienne o in un magazzino ristrutturato, anche se a Glossop non c’era niente di simile.

    Ma era una casa molto bella.

    Pensando a questo, mentre percorreva per la prima volta in assoluto quella strada per tornare a casa, voltò la testa per sbirciare all’interno della Casa della bellezza di Lou.

    Poi distolse lo sguardo, e non solo perché non voleva andare a finire nella corsia opposta.

    Perché la vide lì, a lavorare su una donna seduta sulla sedia più vicina alla vetrina.

    La Casa della bellezza di Lou, di Louisa Lugar, era l’unica scelta in città.

    Corinne andava lì. E anche Mamie. E la madre di Hope.

    E Hope.

    «Merda», borbottò sottovoce. Davanti ai suoi occhi scorrevano le immagini delle attività commerciali di Main Street.

    Ma la sua mente si nutriva dell’immagine della schiena di Greta, delle sue mani alzate mentre lavorava sulla donna seduta, della massa di capelli che le ricadeva sulle spalle.

    Mentre guidava, Hix sentì quei capelli tra le mani, sulle spalle, sul petto, sull’addome.

    «Merda», ripeté.

    Continuò a guidare e arrivò al complesso residenziale che faceva del proprio meglio per non essere l’orrore che era. Quattro palazzi, due fianco a fianco e di fronte agli altri due, quattro unità in ogni palazzo, due sopra e due sotto.

    Era pulito. Tenuto bene. Ma non accogliente.

    Quella di Hix era un’unità al piano di sopra, due camere, le scale per raggiungerla di fianco, per non ostruire l’unità sottostante. I suoi parcheggi erano di fianco al palazzo ed esposti agli elementi, e in inverno era una rottura. I parcheggi dell’unità sotto la sua erano davanti casa.

    Nel posto auto interno c’era la Camry Toyota argentata di Shaw, con l’adesivo dei Glossop Raiders sul lunotto che Hope aveva staccato da due macchine precedenti e che avevano tenuto da parte per quando Shaw avrebbe potuto guidare.

    I ragazzi erano a casa.

    Hix si concentrò su quello e non su Greta, i capelli di Greta, la sensazione che gli avevano lasciato addosso, lei che lavorava nel salone in cui andavano anche sua moglie e le sue bambine, o sul fatto che i suoi figli erano di sopra, in un appartamento orribile in cui Shaw aveva una camera tutta per sé, mentre le ragazze dovevano condividere il suo letto e lui doveva dormire sul divano, quando erano lì.

    Presto sarebbe finita. C’era un’agente immobiliare che stava facendo delle ricerche per lui e quella sera ne avrebbe messo al corrente i ragazzi.

    Avrebbe potuto vivere da qualunque parte nella contea.

    Ma al tempo stesso non poteva.

    I figli più grandi andavano alla scuola superiore di Glossop e Mamie alla scuola media.

    Quindi doveva restare a Glossop.

    Parcheggiò la Bronco, scese, si assicurò di averla chiusa e salì le scale.

    Non fece in tempo a entrare che Mamie gli fu subito addosso.

    «Papà!», gridò, cingendolo con le braccia e abbracciandolo stretto.

    Le appoggiò una mano sui capelli scuri.

    I ragazzi gli somigliavano tantissimo, tutti e tre. Capelli scuri. Occhi azzurri. Alti, snelli, con il busto lungo e le gambe proporzionate. Nessuno aveva i capelli biondo fragola e gli occhi verdi di Hope; niente busto più corto e gambe lunghissime per nessuno di loro, e le ragazze non avevano le sue curve.

    Mamie piegò la testa all’indietro e chiese: «Indovina?».

    Lui le sorrise, in piedi sulla porta ancora aperta. «Cosa, piccola?»

    «Madame DuBois ha detto che farò un assolo al prossimo spettacolo!».

    Madame DuBois: vero nome, Margaret Leach. Era uno dei tanti personaggi in città e gestiva una delle tre sole scuole di danza di tutta la contea, la più famosa, probabilmente perché era l’insegnante più teatrale e gradevole.

    Tutti la chiamavano Madame DuBois e Hix sospettava che nessuno l’avesse mai conosciuta come Margaret Leach da quando si era trasferita lì diciotto anni prima, dopo che suo marito era morto in un incidente stradale sulla I-65, fuori da Chicago, e lei, per lasciarsi quella tragedia alle spalle, aveva preso i soldi dell’assicurazione sulla vita e si era reinventata.

    Hix lo sapeva perché, prima di iscrivere la sua bambina al corso, aveva fatto delle ricerche su di lei.

    «Perché sei così emozionata?», le chiese Hix.

    La bambina sgranò gli occhi.

    «Perché sono emozionata per un assolo?», gli chiese di rimando, come se fosse uno scemo.

    Lui la spinse dentro per poter chiudere la porta, e disse: «Non mi sorprende che la ballerina più brava della scuola faccia un assolo».

    Fu allora che lei gli regalò un sorriso enorme.

    «Ciao, papà», lo salutò Shaw dal suo posto, seduto al tavolo da pranzo, in uno spazio minuscolo fuori dall’altrettanto minuscola cucina, un ambiente che poteva essere chiamato approssimativamente sala da pranzo.

    Suo figlio.

    Altrimenti noto come Mister Indifferenza.

    «Ciao, figliolo», rispose Hix.

    «Ehi, papà!», gridò Corinne, mentre andava dalla camera matrimoniale sul retro al bagno e chiudeva la porta.

    Corinne aveva una storia d’amore in corso con la stanza da bagno, soprattutto perché lo specchio lì dentro era quello con la migliore illuminazione e lei stava perfezionando l’arte di truccarsi il viso e sistemarsi i capelli in tutti i modi che riusciva a sognare o vedere nei tutorial su YouTube.

    «Ehi, tesoro», le gridò in risposta, vedendo che aveva chiuso la porta.

    Mamie lo lasciò andare e si avvicinò ballando a suo fratello mentre chiedeva: «Che c’è per cena? Le crocchette di pollo dell’Harlequin?».

    Traduzione: Mamie voleva le crocchette di pollo dell’Harlequin Diner e non si sarebbe accontentata di nient’altro.

    In questo era tutta sua madre.

    «Pensavo di cucinare», disse alla bambina, e sorrise al vederla storcere il naso.

    «Non sei granché come cuoco, papà», gli rispose.

    «Sì che è un bravo cuoco, Mamie», tagliò corto Shaw, come faceva sempre quando pensava che una delle sue sorelle stesse rompendo le scatole al padre.

    Era una cosa nuova. O abbastanza nuova.

    Andava avanti da otto mesi, più o meno.

    «Shaw», disse Hix sottovoce, mentre andava in cucina.

    «Sei bravissimo a cucinare», ribatté Shaw.

    Era una bugia.

    Faceva schifo in cucina.

    «Sa fare solo gli hamburger, i waffle e il pasticcio di tonno», si intromise Mamie, guardando Shaw, poi rivolse la sua attenzione a Hix. «Fai degli hamburger molto buoni, papà, e anche i waffle. Ma il tuo pasticcio di tonno fa schifo».

    «Mamie», la rimproverò Shaw.

    «Ha ragione, figliolo, fa davvero schifo», intervenne Hix.

    «Non c’è bisogno che lo dica», rispose Shaw.

    «Forse no, ma non l’ha detto con cattiveria. Penso che dovremmo sentirci tutti liberi di dire quello che pensiamo onestamente, a patto che non lo si faccia con cattiveria», replicò Hix.

    Prima di tornare ai suoi libri sul tavolo, Shaw gli lanciò un’occhiata, come a dire che era d’accordo con lui, anche se non gli piaceva ammetterlo.

    Hix andò in cucina.

    Dire che, da quando Hope aveva chiesto a Hix di andarsene, i suoi figli avevano attraversato tutta la gamma delle emozioni sarebbe stato un eufemismo.

    Shaw aveva iniziato quel periodo della vita incazzato... con Hix. Intrattabile e agguerrito, per mesi gli aveva rivolto a stento la parola e non lo aveva mai guardato negli occhi.

    Quando le cose erano andate avanti e Hix aveva lottato per la sua famiglia, suo figlio, non stupido ma attento e protettivo, aveva capito.

    Era diventato il paladino di Hix e i suoi rapporti con la madre si erano deteriorati.

    Hix aveva cercato di intervenire al riguardo, ma con sorpresa aveva scoperto che i suoi sforzi venivano respinti seccamente.

    Ma Shaw era il fratello maggiore di due ragazze, e in entrambe aveva visto le stesse emozioni, dallo shock, alla paura, passando per la disperazione e la mancanza di rispetto e infine la tristezza.

    Per non parlare del fatto che aveva visto suo padre attraversarle tutte allo stesso modo.

    Shaw aveva accumulato tanta rabbia, e poiché per lui era chiaro che sua madre ne era la causa scatenante, non era mai arrivato alla rassegnazione come Corinne e Mamie.

    Forse perché si era accorto che neanche suo padre era mai arrivato a quell’ultima fase.

    Hix lo doveva fare, per suo figlio. Perché suo figlio potesse ricostruire una relazione con la madre.

    Lo doveva fare, semplicemente, per i suoi ragazzi.

    E per se stesso.

    Quella era la sera giusta per iniziare a farlo.

    Una nuova casa.

    Adattarsi a ciò che avevano in quel momento.

    Accettare.

    E andare avanti.

    Lui e Mamie si misero al lavoro, non a cucinare un pasticcio di tonno ma a riscaldare un piatto pronto Tuna Helper con i piselli, una delle verdure che tutti i ragazzi sopportavano, e la bruschetta, perché i Tuna Helper erano accettabili, ma la bruschetta era il massimo.

    Li fece sedere tutti al tavolo da pranzo, perché adesso aveva solo la metà del tempo che avrebbe dovuto passare con loro per sapere cosa succedeva nelle loro vite, quindi sentiva il bisogno di concentrarlo e di sfruttarlo al meglio. Questo significava niente più pasti davanti alla tv come facevano quando i loro genitori stavano insieme.

    L’unica eccezione erano le domeniche, quando non facevano altro che oziare davanti alla tv o uscire tutti insieme per andare al cinema per poi tornare a casa e oziare nuovamente davanti alla tv. Era la giornata in cui mangiare schifezze, abbandonarsi alla pigrizia e godere della compagnia reciproca.

    Hope detestava questa nuova tradizione e ne aveva discusso ripetutamente con Hix per dirgli che voleva che smettesse. Non era una grande sostenitrice del dolce far niente. O del cibo spazzatura. Neanche per un giorno.

    Si poteva tranquillamente affermare che a Hope non importava se i ragazzi tolleravano o meno le verdure che metteva nei loro piatti. Loro le mangiavano perché lei diceva loro di farlo, e questo era quanto.

    A Hix non era mai piaciuto guardarla mentre forzava i bambini a mangiare cose che non gradivano. Shaw una volta era addirittura rimasto seduto a tavola fino alle dieci di sera, di fronte a una scodella di zuppa di patate fatta in casa ormai fredda, perché finché non l’avesse finita lei non gli avrebbe dato il permesso di alzarsi.

    Alla fine l’aveva buttata giù a forza, con conati di vomito a ogni boccone.

    Era stato a quel punto che Hix ne aveva avuto abbastanza.

    Ma avevano stretto un patto: non litigare davanti ai bambini su come allevare i figli. E nonostante le avesse fatto capire, non solo dopo l’incidente della zuppa di patate, che non era molto entusiasta del suo metodo per incoraggiare i figli a mangiare cose sane, lei tirava fuori la cosa quando erano davanti ai bambini.

    Quindi, visto che sua moglie non riusciva a rispettare le regole, poco dopo l’episodio di Shaw e della zuppa, e ignorando il fatto che la cosa faceva saltare i nervi a Hope, se uno dei ragazzi opponeva veramente resistenza Hix prendeva il piatto, buttava nel suo quello che non voleva assaggiare e poi mangiava tutto lui.

    A quel punto, Hope gli aveva fatto presente che voleva che smettesse di comportarsi così.

    Hix non smise, e lei iniziò a cucinare pietanze tollerate da tutti.

    Stando a quanto diceva Shaw, da quando il padre se ne era andato era tornata alle vecchie usanze.

    Spettava a lei decidere.

    A casa sua, per quel che valeva, c’era la domenica delle schifezze.

    E intanto pensava a Hope, che forse non era un granché ma lui l’aveva accettata così. E si chiedeva il perché di tutto il male che gli era piovuto addosso nell’ultimo anno e poco più. Fu Shaw a rompere il silenzio dopo che avevano iniziato a mangiare.

    «Posso uscire mercoledì sera?».

    Uscire quando il giorno dopo c’era la scuola?

    Guardò suo figlio. «No».

    «È un appuntamento per studiare», si affrettò a spiegare Shaw.

    «È un appuntamento per far finta di studiare e invece pomiciare perché i genitori di Wendy vi lasciano studiare nella sua stanza», lo stuzzicò Corinne.

    Oh, Gesù.

    «Allora no, cavolo», affermò Hix.

    Shaw smise di guardare male sua sorella e rivolse lo sguardo verso suo padre. «Non darle retta, papà. Wendy è una tranquilla».

    «Ho conosciuto Wendy. So che è una tranquilla. E ho incontrato i suoi genitori. Anche loro sono tranquilli. A quanto pare anche troppo tranquilli», rispose Hix. «Ma, tanto per fartelo notare, lo sai che siamo entrambi maschietti, vero?».

    Corinne ridacchiò.

    Mamie ridacchiò insieme a lei e Hix sperò con tutto se stesso che la sua piccolina non avesse capito a cosa alludeva, perché era già un problema che lo avesse capito la più grande.

    Sfortunatamente, Shaw non aveva capito.

    «Certo che lo so», rispose a denti stretti.

    «E immagino anche che tu sappia che ho avuto anch’io la tua età».

    Gli si accese la lampadina e abbassò lo sguardo sul piatto.

    Corinne ridacchiò di nuovo, ma Hix le lanciò un’occhiataccia e lei, con fatica, si ricompose.

    «Se vuoi, puoi farla venire qui. Potete studiare a questo tavolo», gli concesse Hix.

    «Fantastico», borbottò Shaw, ma non declinò l’invito.

    Questo voleva dire che era meglio che Hix desse un’altra occhiata a Wendy.

    E ai suoi genitori.

    «Non vedo l’ora di uscire con qualcuno», disse Mamie, e Hix perse tutto l’interesse per il suo Tuna Helper.

    Anche se lui avrebbe voluto che la figlia maggiore aspettasse di avere sedici anni, a Hope non dispiaceva che iniziasse a quindici, e Corinne non voleva proprio aspettare.

    Durante l’estate precedente aveva avuto i suoi primi cinque appuntamenti, con tre ragazzi diversi.

    Hix li aveva contati, come sapeva che avrebbe sempre fatto.

    Quindi, dato che ormai aveva superato la fase in cui aveva dovuto accettare che avesse il suo primo appuntamento, così come quelli che erano seguiti, non vedeva l’ora che arrivasse il momento in cui un ragazzo degno della sua approvazione le mettesse un anello al dito, così avrebbe potuto smettere di tollerare la fase appuntamenti.

    «Non è poi tutto questo spasso», Corinne informò la sorellina in modo autorevole.

    Al che, quel poco di Tuna Helper che Hix aveva ingerito iniziò a rimescolarsi nello stomaco.

    «Perché dici così?», le chiese.

    «Perché i ragazzi sono stupidi, papà», gli rispose con noncuranza.

    «In che senso stupidi?», insisté Hix.

    «Perché parlano sempre e solo di se stessi», rispose lei. «Quali film gli sono piaciuti. Che tipo di musica ascoltano. Quanto fa schifo uno skateboard. Bla, bla, bla». Tirò su un po’ di Tuna Helper, borbottando: «Chiedi a una ragazza qualcosa su di lei ogni tanto, no?».

    Questo lo fece sorridere.

    Ma si accorse che Shaw sembrava irritato.

    «Ne potresti parlare da sola, senza che lui te lo chieda, sai», suo figlio iniziò a difendere l’onore maschile, probabilmente, perché lui per primo non faceva domande personali alle ragazze.

    «E sembrare una cogliona piena di sé?», gli chiese Corinne.

    «Quella parola non mi piace per niente, tesoro», le fece notare Hix con calma.

    Senza battere ciglio, Corinne rielaborò: «E sembrare un’idiota piena di sé?»

    «Si chiama conversazione, Cor», la informò Shaw.

    «No, Shaw, conversazione è: "Mi

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1