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Tutta colpa del vicino
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E-book257 pagine3 ore

Tutta colpa del vicino

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Info su questo ebook

I tipi come Tucker Moore non escono con ragazze come me.
I suoi scontatissimi addominali scolpiti sembrano essere stati forgiati dagli dèi, mentre io ho più curve di una strada di campagna.
Lui è un casanova che farebbe calare le mutandine a chiunque, invece io mi sento più a mio agio dietro l’obiettivo della mia macchina fotografica.
È il ragazzo della porta accanto, e la definizione per antonomasia di una pessima idea.
Non ho motivo di pensare a lui, e avrei dovuto scacciarlo dai miei sogni nel momento stesso in cui ha fatto capolino.
Avrei fatto meglio a non tentarlo; anzi, avrei dovuto soltanto confinarlo nella friend-zone.
Cosa che ho fatto, prima ancora che lui potesse pronunciare il fatidico “Solo amici”.
Non importa se passa più tempo a casa mia che sua, o se il suo sorriso mi fa venire le farfalle nello stomaco.
Si tratta soltanto di Tucker.
E prima di rendermene conto, ecco che diventa il mio migliore amico.
Per giunta, del tutto off-limits.
La nostra rovina è una gita fuori porta, e ho i bagagli così pieni che alla fine ho lasciato la lucidità a casa.
Perché Tucker sarebbe stato bene.
Ma io sarei finita nei guai con il ragazzo della porta accanto.
LinguaItaliano
Data di uscita23 feb 2022
ISBN9791220702515
Tutta colpa del vicino

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    Anteprima del libro

    Tutta colpa del vicino - Holly Renee

    1

    Voltai la pagina e strinsi forte il libro. Non importava quanto avessi sfogliato quelle pagine sgualcite, il cuore mi rimbombava nel petto ogni volta. Divorai una parola dopo l’altra, assaporando la storia, impaziente di arrivare al punto che conoscevo bene. Voltai la pagina tanto in fretta da farmela scivolare tra le dita, senza sbattere le palpebre, e immaginai il guerriero alato con estrema chiarezza. Aveva sollevato la spada, pronto a combattere per il suo amico, quando sentii riecheggiare un forte ronzio che mi fece sobbalzare.

    Mi guardai intorno, con il libro stretto al petto. Erano tutti intenti a fare il bucato. L’asciugatrice accanto a me era ancora in funzione, e quando vidi le mie mutandine di pizzo schiacciate contro l’oblò, che giravano in tondo come a dar spettacolo, inorridii.

    La lavanderia era pienissima, ma avevo completamente dimenticato dove fossi. L’odore del detersivo mi riempì le narici, rimpiazzando il profumo agrumato della pelle del guerriero che mi era parso di sentire in modo così inconfondibile fino a un attimo prima.

    Un bambinetto, che non avrà avuto più di tre anni, scorrazzava intorno alla mia sedia, sbattendo sorridente il suo giocattolo su ogni superficie possibile con un’aria da selvaggio. Sua madre sembrava non sapere cosa fare. Lo rincorreva, tenendo il bucato in equilibrio con una mano e allungando l’altra per acciuffarlo. Il bambino corse di nuovo verso di me, con un sorrisetto, e io lo immaginai come il potente guerriero della mia storia. Impossibile da domare.

    Quando mi passò accanto gli feci ciao con la mano, e lui all’improvviso si fermò. Mi fissò, il suo viso innocente incuriosito, e indicò il libro che avevo in mano.

    «Cheffai?» Sembrava averci messo due f, e sorrisi per quant’era carino.

    «Leggo.» Guardai sua madre che si era fermata dietro di lui, ansimando. «Tu che fai?»

    «Scappo dai mostri.» Fece un sorrisetto e poi si girò a guardare la madre.

    «Davvero?» Usai un tono sbalordito. «Sto proprio leggendo storie di mostri.»

    Lui inclinò la testa e guardò il mio libro. «Ti piacciono i mostri?»

    Scossi la testa. «No, ma mi piace leggere dei guerrieri che li combattono.»

    Gli s’illuminarono gli occhi e mi si avvicinò.

    «Se vuoi puoi sederti vicino a me, così ti leggo la storia mentre la tua mamma finisce di fare il bucato.» Guardai la madre per chiederle il permesso, ma mi fu sufficiente vedere l’improvviso sollievo nei suoi occhi. Si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio mentre il figlio si arrampicava sulla sedia accanto a me.

    «Grazie,» mimò la madre con le labbra appoggiando il cesto della biancheria sul tavolo di fronte a noi.

    Le sorrisi e aprii il libro a pagina uno.

    Il bambino ascoltava con molta attenzione quello che gli leggevo. I suoi occhi erano diventati grandi come due sfere mentre gli descrivevo i mostri del libro, e quando gli parlai della ragazza dai capelli d’oro arricciò il naso.

    Avevamo appena finito il primo capitolo quando sua madre si accovacciò di fronte a lui.

    «Sei pronto ad andare, Jonah?» Allungò le braccia e gli strinse i lacci delle scarpe, sul punto di slegarsi.

    «Stiamo leggendo, mamma.» Il piccolo mi sorrise e io ricambiai.

    «Lo so,» anche la mamma mi sorrise. «Ma è ora di andare al parco.»

    «Sììì.» Sollevò il pugnetto in aria e saltò giù dalla sedia in un baleno.

    Il bambino che ascoltava con attenzione la mia lettura era scomparso, rimpiazzato dal monello che scorrazzava in giro, pieno di energia.

    «Grazie mille,» gli occhi della madre seguivano ogni suo movimento. «Non sai quanto abbia apprezzato.»

    «Non ho fatto niente di che.» Distolsi lo sguardo e riposi il libro nella borsa.

    «Altroché, invece.» Mi guardò intensamente e io mi divincolai sulla sedia. «Ti ringrazio.»

    «Di niente.»

    Quando uscirono, mi avvicinai all’asciugatrice e tirai fuori la biancheria. Avrei dovuto piegare i vestiti sul momento, ma visto che ormai erano freddi sarebbero rimasti comunque stropicciati. Brooke, la mia coinquilina, si sarebbe arrabbiata, ma io non vedevo l’ora di arrivare a casa per finire il libro.

    Con il cesto sul fianco accennai un goffo sorriso all’uomo seduto vicino a me, poi presi la borsa e uscii. Se io e la mia coinquilina fossimo state due adulte responsabili, avremmo fatto riparare la nostra asciugatrice settimane fa. Ma essere adulte è difficile, e se per Brooke forse la cosa più importante erano i trucchi nuovi, per me era dilapidare lo stipendio in libri.

    La lavanderia era a pochi passi dal nostro condominio. Appena varcato il pesante portone di vetro, fissai l’ascensore. Era rotto da quattro giorni, e non avevo mai odiato tanto vivere al quinto piano.

    Mi sistemai il cesto sul fianco e aprii la porta del vano scale, iniziando il mio lungo viaggio verso casa. Ogni rampa aveva dieci gradini e io contavo ogni passo, come se stessi per arrivare al traguardo di una maratona. Di certo in cima ci sarebbe stato qualcuno con un biscotto di congratulazioni, o qualcosa del genere. Cosa non avrei dato per vivere nel libro che stavo leggendo: l’eroe avrebbe potuto semplicemente sollevarmi tra le braccia e portarmi in volo fino al quinto piano.

    Sbuffai a voce alta al pensiero di quanto fossi nerd, e non mi accorsi della persona che sfrecciava giù per le scale. Mi spostai appena in tempo, ma diversi vestiti freschi di bucato si rovesciarono sulle scale. Sembrava non venissero pulite da un bel po’ di tempo, così mi accovacciai all’istante e cominciai a raccogliere i panni a terra. Era come se la regola dei cinque secondi fissasse il limite di tempo per non beccarsi l’herpes.

    Neanche alzai lo sguardo sulla persona che aveva quasi causato una collisione fatale. Non avevo tempo da perdere. Ogni secondo che passava i vestiti erano a rischio batteri, e io non avevo alcuna intenzione di tornare alla lavanderia prima della settimana successiva.

    «Scusami tanto.» Un profondo accento del Sud distolse la mia attenzione dalla maglietta con la scritta Non fidarti dei Babbani che ero sul punto di raccogliere.

    «Non c’è problema,» esordii, ma non so cosa pronunciai davvero, perché quando alzai lo sguardo per poco non spalancai la bocca.

    Si mise a raccogliere i vestiti, i miei vestiti, e li sistemò nel cesto. Mentre io, come una specie di maniaca, lo fissavo rapita. Aveva la mascella squadrata e un accenno di barbetta incolta. I capelli, castano chiaro, avevano un aspetto impeccabile alla mi sono appena svegliato, mi sono passato la mano tra i capelli e ora sembro un model. Fremevo dalla voglia di passarci le dita per verificare se fossero tanto morbidi come sembrava. Aveva una maglietta bianca che gli faceva risaltare il petto scolpito e un paio di pantaloncini neri che mettevano in mostra i polpacci muscolosi.

    Lo squadrai dal basso verso l’alto, ma mi fermai di colpo nel rendermi conto gli penzolava qualcosa dalle forti dita callose. Quanto avrei voluto che fossero le mutandine di pizzo rosse di cui mi ero tanto vergognata poco prima! Ma al posto delle uniche mutandine sexy che possedevo, in mano reggeva, con sguardo interrogativo, nientemeno che la mia fidata e fedele panciera contenitiva della Spanx.

    Avrei voluto seppellirmi.

    «Che cos’è?»

    I miei occhi sfrecciarono dalle imbarazzanti mutande, con il potere di risucchiarmi la pancia quando perfino la mia forza di volontà a volte rinunciava, ai suoi ridenti occhi color cioccolato. Gli strappai di mano la panciera, sotterrandola in fondo al cesto. Intravidi le mutandine di pizzo rosse, probabilmente intonate al mio viso in quel momento, e le maledissi tra me e me per non essere intervenute nel momento del bisogno.

    Tra le pareti del vano scale riecheggiò una risatina profonda ed ebbi l’impressione che ci fossero almeno trenta persone a ridere di me.

    «Ehm...» Mi bloccai, non sapevo cosa dirgli. Di certo non gli avrei spiegato che cosa aveva trovato.

    Appena aprii bocca per rispondergli, gli squillò il telefono, il che mi salvò dal rendermi ancora più ridicola. Lui sventolò il cellulare nella mia direzione con un sorriso.

    «Be’, sembra che dovremo riprendere questa conversazione un’altra volta.»

    Ma neanche morta.

    Non lo dissi ad alta voce, però. Lo pensai e basta, guardandogli il sedere mentre lui correva giù per le scale e si allontanava da me. Man mano che sbatteva i piedi su ogni gradino, io aspettavo con pazienza di vedere se oltre ai muscoli che si contraevano e rilassavano si muovesse anche qualcos’altro. Quando girò l’angolo per scendere la rampa successiva mi guardò con un sorrisetto, e io mi resi conto che ero rimasta lì, con il mio cesto della vergogna, imbambolata a fissarlo.

    Mi voltai in fretta, la mano sui vestiti, facendo attenzione a non far cadere qualcos’altro, e mi diressi verso il mio appartamento. Immagino sia vero quello che dicono sugli incidenti: è più probabile che accadano quando sei a cinque minuti da casa, e infatti a me rimanevano circa sei scalini prima di essere al sicuro. Invece ero riuscita a coprirmi di ridicolo davanti a uno degli uomini più sexy mai visti prima.

    Entrai nell’appartamento come una furia e Brooke, distogliendo per un attimo lo sguardo dalla sua sessione di pedicure, mi guardò come se fossi pazza.

    «Brutta giornata in lavanderia?» Mi chiese prima di soffiarsi sulle unghie dei piedi appena smaltate di rosa.

    «Puoi dirlo forte.» Posai il cesto sul tavolino e mi buttai sul divano di fronte a lei.

    «Che è successo?»

    «Be’, tanto per cominciare la lavanderia era pienissima e mi ci sono voluti dieci minuti buoni per trovare una lavatrice libera, poi sono tornata a casa e le cose sono solo peggiorate.»

    «Perché?» Finalmente rivolse a me la sua completa attenzione, invece che alla pedicure.

    «Stavo salendo le scale, persa nel mio mondo, e a un certo punto un tizio mi è venuto addosso e ha fatto cadere a terra tutti i nostri vestiti puliti.» Il mio racconto era molto teatrale, con tanto di gesti plateali a imitare le varie direzioni in cui erano volati i nostri vestiti.

    Brooke si sporse verso di me. «Era figo?»

    Non ero affatto sorpresa dalla sua sparata.

    «Non so proprio come questo dettaglio possa essere rilevante, ma sì, era un figo incredibile.»

    «Com’era? Descrivimelo!» M’interruppe.

    «Sul serio, Brooke? Stavo cercando di raccontare una storia.» Feci finta di essere esasperata anche se non lo ero.

    «Scusa. Continua pure.» Sventolò la mano con un gesto da regina, dandomi finalmente il permesso di parlare.

    «Come dicevo, mi ha presa in pieno e i nostri vestiti sono finiti ovunque. Mi ha aiutato a raccoglierli.»

    «Che gentiluomo.»

    Le lanciai un’occhiataccia e lei fece finta di sigillarsi le labbra e di gettare la chiave alle sue spalle.

    «Dopo aver raccolto l’ultima camicia l’ho guardato e… aveva la panciera, la mia panciera,» dissi, indicandomi il petto, «che gli penzolava dalle mani.»

    A quel punto la bocca di Brooke si spalancò, e io rimasi scioccata dal fatto che non ne uscisse nulla.

    «Mi ha chiesto cosa fosse.» Dal tono della mia voce, chiunque avrebbe pensato che mi avesse chiesto una sveltina sulle scale.

    «E tu che hai detto?» Squittì Brooke.

    «Ho fatto quello che avrebbe fatto qualsiasi donna sana di mente. Gliel’ho strappata di mano e non ho risposto. Subito dopo gli è squillato il telefono e mi sono salvata da ulteriori chiarimenti.»

    «Oddio,» rise Brooke.

    «Già. Spero solo che non viva in questo condominio. Forse stava andando via dopo una notte di fuoco.»

    Brooke rise di nuovo e ricominciò a mettersi lo smalto sulle dita dei piedi.

    «Che c’è?» Le chiesi.

    «Spero tu abbia ragione, perché qua accanto si sono appena trasferiti due ragazzi super sexy,» disse indicando alla nostra sinistra, verso il muro che condividevamo con l’appartamento accanto, «e li ho invitati entrambi a cena, domani sera.»

    2

    Fu orribile addormentarsi quella notte. Mi giravo e rigiravo, pensando a quanto mi fossi resa ridicola di fronte al presunto nuovo vicino. Ancora speravo che stesse scappando via dopo una notte di fuoco, ma vista la mia solita fortuna era poco probabile. Di sicuro me lo sarei ritrovato seduto di fronte l’indomani a cena, mentre facevo del mio meglio per evitare di guardarlo.

    Tirai fuori il Kindle e mi lasciai trasportare dal mio fidanzato ideale del libro per distrarmi e prendere sonno. Davvero un pessimo piano, perché una volta iniziato a leggere non volevo più smettere. Era circa l’una di notte quando finalmente spensi il Kindle, la mattina dopo dovevo alzarmi presto per incontrare un cliente per un servizio fotografico.

    Mi svegliai con la suoneria della sveglia a tutto volume e diedi una botta al cellulare per zittirlo. Mi sembrava di aver dormito appena una decina di minuti, quindi ero ben decisa a sfruttare la funzione ritarda sveglia. Ma quella continuava a suonare, e dopo aver premuto ogni tasto possibile, alla fine aprii un occhio per vedere cosa cavolo ci fosse che non andava in quello strumento di tortura.

    La luce del cellulare quasi mi accecò nel buio pesto della stanza, costringendomi a chiudere di nuovo gli occhi, ma poi mi accorsi che lo schermo segnava le due e venticinque. Mi tirai su e mi guardai intorno. La musica era ancora a tutto volume, mi ci volle un po’ prima di capire che era Take Your Time di Sam Hunt. Per quanto mi piacesse, come canzone, di certo non volevo che mi svegliasse nel cuore della notte, a meno che non ci fosse Sam in carne e ossa a farmi una serenata.

    Le parole erano attutite ma il ritmo della canzone era nitido, vibrava contro la parete dietro la mia testa. Mi girai a guardare il muro e strizzai gli occhi, come se l’odio che provavo avesse il potere di far spegnere la musica senza che io dovessi uscire dal letto.

    Il pavimento era freddo, camminai verso la stanza di Brooke come uno zombie. La vedevo a stento attraverso la luce del corridoio che filtrava nella sua stanza, ma immaginai fosse stravaccata nel bel mezzo del letto matrimoniale, prendendosi tutto lo spazio. I primi tempi, quando siamo andate a vivere insieme, avevamo dovuto condividere il letto fino a quando non eravamo riuscite a permettercene un altro. Erano stati i mesi più difficili della mia vita. Non ero mai stata abbracciata così tanto. Ci eravamo innamorate dell’appartamento, e avevamo deciso che per averlo avremmo fatto a meno di tutto il resto, all’inizio. All’epoca ancora non sapevo che Brooke era una vera e propria monopolizzatrice di letti, né che avrebbe tentato di soffocarmi di abbracci nel sonno. Nell’anno in cui avevamo vissuto nell’appartamento ci eravamo impegnate ad arredarlo in uno stile che rappresentasse entrambe. C’era quindi un’atmosfera per metà super femminile e per metà nerd.

    «Cazzo,» esclamai sottovoce, sentendo qualcosa che mi si conficcava nel piede.

    Saltai su una gamba sola e guardai il piegaciglia per terra, che mi aveva fatto malissimo, neanche avessero dovuto amputare il piede. Avevo sempre pensato che quell’aggeggio fosse fatto per far soffrire le sue vittime, piuttosto che farle belle.

    Zoppicai fino al letto di Brooke e mi accasciai accanto a lei, facendola rimbalzare sul materasso. Non se ne accorse nemmeno. La musica si sentiva ancora a tutto volume, ma da quel lato del corridoio c’era molto meno rumore.

    «Brooke.» Le scossi la spalla e i suoi capelli biondi ondeggiarono.

    «Ehi,» la scossi più forte. «Terra chiama Brooke.»

    Neanche l’ombra di un movimento, fatta eccezione per mie spinte. Sembrava morta. Dopo aver saltellato sul materasso e averle fatto il solletico al piede, senza alcun risultato, mi diedi per vinta.

    Per un momento pensai di lasciar perdere la musica e di provare a tornare a dormire, ma appena rimisi piede in corridoio la canzone cambiò e cominciarono a sentirsi dei cori.

    «Ma dai, mi prendete in giro?» Mi dissi ad alta voce.

    Il suono di varie voci ubriache che cantavano il testo di una canzone che non riconoscevo mi spinse a passo di marcia fuori dal mio appartamento e verso quello accanto.

    Bussai alla porta e aspettai diversi minuti senza ricevere risposta. Cantavano ancora, e forte, non mi stupiva che non mi avessero sentito. Sollevai il pugno e bussai di nuovo, questa volta con violenza.

    La porta si aprì e il volume delle voci, che già mi era sembrato forte un momento prima, mi parve triplicare. Un ragazzo alto, definibile soltanto come un adone ambrato, mi guardava dall’uscio. I capelli castano scuro s’intonavano perfettamente alla sua abbronzatura. Non avrei saputo dire di che colore fossero i suoi occhi, talmente ero distratta dal sorriso calmo apparso sul suo bel viso.

    «Ciao, splendore. Piacere, Liam.»

    Mi tese la mano e fece scivolare la mia, molto più piccola e leggermente sudata, nella sua.

    «Sei qui per la festa?» Fece vagare lo sguardo sul mio corpo, in particolare sul mio petto. Seguii la sua traiettoria e m’irrigidii nel rendermi conto di avere ancora indosso i pantaloncini del pigiama di Harry Potter, che non lasciavano nulla all’immaginazione, e una canottiera bianca senza reggiseno che invece avrebbe lasciato immaginare certe cose a chiunque.

    Mi sistemai una ciocca di capelli nero corvino dietro l’orecchio e mi misi a braccia conserte.

    «No. Piacere, Kennedy. Abito qui accanto.» Strusciai i piedi, odiavo le discussioni. «In realtà sono venuta a chiedervi di abbassare la musica.»

    «Yo, Liam. Che succede?» Il profondo timbro del Sud mi fece distogliere lo sguardo dal sorriso di Liam, rivelando nientemeno che il ragazzo delle scale.

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