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Matilda non c'è più
Matilda non c'è più
Matilda non c'è più
E-book331 pagine5 ore

Matilda non c'è più

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Info su questo ebook

Il ritorno al paese natio, unico scenario possibile per definire il proprio passato, dare un senso al proprio presente e ridisegnare il proprio futuro. Il ritorno per scoprire, insieme alle proprie origini, un legame mai di fatto reciso. Matilde ritorna a Storano, paesino sperduto tra i monti lucani, dopo una lunga assenza. Deve fare tre telefonate a tre persone che hanno condizionato tutta la sua esistenza: una madre di troppo, un carnefice di troppo, un amore di troppo. È arrivato il momento di tirare le somme e fare i conti con la sua vita, una vita spesa nell’attesa di riprendersi la rivincita su un destino segnato dai rancori e dal dolore. Ma è anche il momento di reagire e trasformarsi da vittima predestinata in protagonista, riappropriandosi di quella serenità rincorsa per troppo tempo. Fa da sfondo un meridione ancora abbarbicato alle proprie tradizioni e non solo, ai propri limiti e non solo, alle proprie maldestre rivendicazioni e non solo. Ma un meridione pronto a dare in cambio di un gesto, una parola, un sorriso. Storano lo rappresenta tutto. E lo rivendica tutto!
LinguaItaliano
Data di uscita20 nov 2017
ISBN9788869631504
Matilda non c'è più

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    Anteprima del libro

    Matilda non c'è più - Rosa Maria Colangelo

    Rosa Maria Colangelo

    MATILDA NON C’È PIÙ

    Elison Publishing

    Proprietà letteraria riservata

    © 2017 Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    elisonpublishing@hotmail.com

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    ISBN 9788869631504

    L’autrice

    Nata a Roma, vive e lavora a Milano. Insegnante, counselor, mediatrice familiare. Ha pubblicato una raccolta di poesie; il racconto RINASCITA sulla propria esperienza di malattia dal quale è stato tratto parte dello spettacolo teatrale … e ancora danzo la vita… una storia d’amore, coraggio e speranza; la raccolta di racconti MILANO – ROMA ANDATA E RITORNO, terza al premio letterario Città di Castello; seconda al premio In primis con il romanzo LO SPECCHIO, pubblicato in seguito da Montag editore; vincitrice del premio della critica al concorso di cinematografia sguardi altrove; pubblicato in e-book il romanzo ROSA D’INVERNO, Cavinato editore; pubblicato in data 17-10-2015 racconto sul corriere delle sera nella serie amori moderni.

    A mio padre e mia madre!

    Il ritorno al paese natio, unico scenario possibile per definire il proprio passato, dare un senso al proprio presente e ridisegnare il proprio futuro.

    Il ritorno per scoprire, insieme alle proprie origini, un legame mai di fatto reciso.

    Matilde ritorna a Storano, paesino sperduto tra i monti lucani, dopo una lunga assenza. Deve fare tre telefonate a tre persone che hanno condizionato tutta la sua esistenza: una madre di troppo, un carnefice di troppo, un amore di troppo.

    È arrivato il momento di tirare le somme e fare i conti con la sua vita, una vita spesa nell’attesa di riprendersi la rivincita su un destino segnato dai rancori e dal dolore. Ma è anche il momento di reagire e trasformarsi da vittima predestinata in protagonista, riappropriandosi di quella serenità rincorsa per troppo tempo. Fa da sfondo un meridione ancora abbarbicato alle proprie tradizioni e non solo, ai propri limiti e non solo, alle proprie maldestre rivendicazioni e non solo. Ma un meridione pronto a dare in cambio di un gesto, una parola, un sorriso. Storano lo rappresenta tutto. E lo rivendica tutto!

    I

    Signò, dovete scende?

    Aprii gli occhi e fissai con stupore il volto chino su di me. La pelle bruciata dal sole e increspata da mille rughe, la bocca indecentemente aperta in un sorriso sui pochi denti marci che emanavano un respiro fetido, gli occhi gialli e acquosi. Infastidita mi girai verso il finestrino per prendere aria. Tornai lentamente a guardare l’interno della corriera: altri occhi mi fissavano con le pupille dilatate, simili ad animali in agguato. Mi sentii braccata da quegli sguardi, inchiodata a quel sedile di skai senza possibilità di fuga. Mi alzai di scatto e allontanai con una mano il tizio che continuava a fissarmi con sorriso beffardo e un grumo di saliva rappresa agli angoli della bocca. Mi ero addormentata proprio nell’ultimo tratto! La corriera frenò con un rumore di ferraglia facendomi perdere l’equilibrio e mandandomi a sbattere contro lo schienale del sedile difronte. Tor si svegliò anche lui per la brusca frenata e saltò giù dal sedile abbaiando furiosamente. Le porte sgangherate si aprirono con un tonfo sordo, ricordando quelle di una galera più che di una corriera.

    Signò, scendete qua? chiese l’autista, un tipo sui cinquanta, tarchiato, l’aria stanca e annoiata e un marcato accento paesano.

    Sì, grazie.

    Io vi conosco, voi siete Matilda, vero? Sono passati tandi anni ma non vi siete cambiata. Io sono Giuseppe, Giuseppe Lardino… del banco di dietro… mi passavate sempre le traduzioni di latino… vi ricordate?

    Peppe? Ma sì, Peppe! Non dovevi andare via? Avevi uno zio in America mi pare… Peppe… quello degli scherzi scem… scusa, sì insomma, un po’ così… e continui a chiamarmi Matilda

    E che non è un nome usato assai qui da noi; è un bel nome per l’amor di Dio, ma noi c’abbiamo i soliti nomi, che volete! E poi una a o una e non cambia molto, no? Eh, si fa presto a dire parto. Mica tutti sono come voi… come te, ti posso dare del tu vero? Volevo andarci in America, eccome, ma poi… ora c’ho tre figli… e quelli chi li mandiene se non si lavora… scemo sì, ma mica stupido!

    Già… peccato! Così niente America…

    Niende America purtroppo. Ti fermi un poco?

    Sì, credo di sì… un mese…

    Allora lo dico a Concetta che sei tornata… sai come sarà condenta di vederti. Magari ti viene a trovare uno di questi giorni, non ti disturba, vero?

    No, figurati… Non conoscevo questa Concetta, ma stanca com’ero avrei potuto promettere di tutto. Afferrai la valigia, la borsa, il guinzaglio con il cane, salutai a mezza voce e scesi stando attenta a non farmi trascinare giù per i gradini da Tor. Nessuno si era mosso, nessuno mi aveva aiuta a tirare giù la valigia dal portapacchi, neanche avevano fatto finta di provarci. Tutti erano rimasti muti e immobili a fissarmi curiosi. Le porte si richiusero alle mie spalle con un altro tonfo sordo e la corriera ripartì, lasciandosi dietro una nuvola di fumo nero e un intenso odore di olio bruciato. Mi pareva di vederli quelli rimasti su precipitarsi da Peppe per chiedere chi fossi, da dove venissi e tutto il resto.

    Posai la valigia a terra e rimasi a fissare la grande casa di fronte. Per strada non c’era anima viva. Il paese sembrava deserto, eppure sentivo occhi curiosi spiarmi da ogni finestra. Me li sentivo addosso pungere come spilli. Qui a Storano era insolito vedere arrivare una forestiera da sola, e per giunta con la corriera. Dal fondo della strada un cane randagio, sdraiato tra due cassonetti colmi di spazzatura, alzò pigramente la testa e mi fissò con aria incuriosita anche lui, scodinzolò appena e si riaccucciò, ignorandomi definitivamente. Anche Tor lo ignorò, immaginai più per stanchezza che per reale disinteresse: in genere correva dietro a qualunque cosa si muovesse. Dall’altro lato della strada la vecchia fontana, quasi del tutto prosciugata già quarant’anni fa, assolveva ancora al suo compito lasciando scorrere il suo rivolo d’acqua incessantemente. Le donne venivano a lavarci le verdure e a riempire le bottiglie da tenere in fresco. Tornai a guardare la casa di fronte. Una grande casa su tre piani brutta e tetra, con grandi finestre simili ad orbite vuote e la facciata, dipinta di un orrendo verde marcio, scrostata in più punti. All’ultimo piano c’era la terrazza, un tempo colma di piante e fiori e adesso desolatamente spoglia. Chiusi gli occhi e per un attimo i rumori, gli odori, i sapori dimenticati tornarono prepotenti, travolgendomi come un’onda anomala, e come essa possente nella loro forza evocativa. Li riaprii sentendomi sopraffare da quella marea di sensazioni. Aprii la bocca a cercare aria da ingoiare per non soffocare. Il petto si gonfiò e il respiro mi dilatò narici, gola e pancia tutto insieme. Un brivido mi percorse la schiena nonostante il caldo.

    Ero a casa.

    Non ci tornavo più da dieci anni, da quando era morta mia madre.

    Avevo vissuto in paese fino a vent’anni poi ero scappata via. Scappai come scappan tutte da queste parti: con l’abito bianco e un marito a fianco. Poi ti accorgi che avresti potuto fare a meno dell’abito, del marito, della fregatura. L’incanto proprio delle giovani spose ben presto divenne disincanto, dissolvendosi davanti alla consapevolezza di un marito che non era quello sospirato; e così scappai dalla nuova prigione, da sola questa volta. L’abito bianco lo tengo ancora, quel marito non più. Ho trascorso i successivi trent’anni in cerca di una qualunque altra fregatura che potesse dare un senso alla mia vita: un amore, un’illusione, un ideale. Un dolore. Un odio. Mi andava bene qualunque cosa pur di rimanere viva.

    Dal giorno del matrimonio ero tornata altre tre volte a Storano: sempre per funerali, sempre per pochi giorni e quasi di nascosto ogni volta. La prima volta fu in occasione della morte di zia Teresina, la seconda per la morte di mio padre e sei anni dopo per quella di mia madre. Fu in quest’ultima occasione che richiusi tutto quanto in fretta e furia e scappai ancora, definitivamente credetti allora. Non mi importava sapere che fine avrebbe fatto la casa o come l’avrei ritrovata un domani, ammesso che ci fossi mai tornata. Volevo solo allontanarmi il più presto possibile da quelle mura ostili che non avevo mai sentito mie.

    Adesso non c’era più nessuno ad attendermi. Questa consapevolezza mi lasciò per un attimo confusa. Negli anni addietro avevo trovato sempre qualcuno pronto ad accogliermi: che aveva aperto le imposte per fare aria, riscaldato le camere, riempito il frigo, acceso lo scaldabagno, messo a letto lenzuola fresche di bucato… Mi si fermò il fiato insieme al battito del cuore, fu un attimo. Deglutii il nodo che avevo in gola, attraversai la strada deserta trascinandomi dietro valigia e cane e imboccai il vicolo che conduceva all’ingresso della casa. Raggiunsi il portone, posai la valigia sui gradini, liberai Tor dal guinzaglio e frugai nella borsa in cerca delle chiavi. Feci un lunghissimo respiro e mi scrocchiai con forza le dita.

    Ok Matti, è tutto sotto controllo! sussurrai con convinzione.

    Infilai la chiave nella serratura e provai a girarla ma non successe nulla, il portone non si aprì.

    Cazzo, cosa c’è adesso?

    Riprovai, cambiai chiave, ritornai alla prima, eppure era quella giusta, ne ero sicura.

    Incominciamo bene Tor, speriamo almeno che Antonietta sia in casa?

    Tor seduto sui gradini mi guardava rassegnato.

    Non ne puoi più neanche tu eh? Hai ragione, è stato un viaggio massacrante, aspettami qui.

    Mi avviai verso il portone di fianco. Antonietta era la vicina alla quale avevo lasciato la custodia della casa in tutti questi anni e che si era fatta carico di ogni necessità con scrupolosa dedizione: amava la mia famiglia come fosse stata la sua, in special modo mia madre che considerava a tutti gli effetti una seconda madre, dopo che aveva perduto la sua a soli dodici anni. Era cresciuta in casa nostra fino a quando si era sposata, affiancando Giovanna nelle pulizie domestiche e diventando la mia bambinaia a tutti gli effetti. Sapeva del mio arrivo ma non del fatto che avessi deciso di anticiparlo di due giorni.

    Arrivata sotto casa sua suonai ripetutamente il campanello e contemporaneamente la chiamai più volte ad alta voce. Nel silenzio, lo stesso silenzio di sempre in quelle ore del pomeriggio, la mia voce riecheggiò amplificata e fastidiosa. Dopo alcuni istanti una testa grigia e arruffata si affacciò da una delle finestre.

    O signorì siete già qua? Vi spettavo per domani l’altro sa, è successo qualcosa?

    No, niente Antoniè, ho solo anticipato di un paio di giorni. Non riesco ad aprire il portone con le mie chiavi, hai cambiato la serratura?

    Aspettate poco poco che mo’ vengo io signorì. La finestra fu richiusa e nel vicolo tornò il silenzio. Mi sedetti sui gradini con il muso di Tor posato sulle ginocchia e i suoi malinconici occhi fissi nei miei: vedrai, ti piacerà questo mortorio, non è poi così male, sai? Ci sono un sacco di tuoi simili e puoi fare belle amicizie. Magari ti trovo una bella randagina che ti tiene compagnia eh, che ne dici? Questa è la patria dei randagi, mica sono tutti fortunati come te, che credi! E poi un mese passa presto non temere.

    Di lì a poco Antonietta comparve sul portone di casa, scese i pochi gradini trascinandosi sulle gambe vistosamente incurvate e mi raggiunse respirando come un mantice. Si ostinava a chiamarmi signorina nonostante i miei due matrimoni e non c’era verso di farle cambiare idea. La guardai con attenzione e cercai di ricordare quanti anni potesse avere, non ero mai riuscita a definirne l’età: sessanta, settanta? Prima o poi glielo avrei chiesto e comunque ne dimostrava tanti. Me la ricordavo da sempre così: il viso deturpato da una serie di cicatrici post foruncolosi, la schiena e le gambe deformate dall’artrite e mille altri malanni di cui si lamentava di continuo.

    O signorì come sono condenda di vedervi dopo tutti questi anni sa, come state? E il viaggio tutto bene? Avete avuto la lettera? Ve l’ho mandata due mesi fa vabbè che qui le poste fanno schifo… tutto fa schifo in questo paese!

    Si sollevò sulle punte dei piedi e mi si arrampicò addosso per baciarmi sulle guance. Puzzava di aglio e origano, era sudata e a stento frenai l’impulso di pulirmi.

    Tutto bene Antoniè, e tu?

    Come mi vedete signorì, che volete l’età i dolori i penzieri sa ma non ci lamendiamo, e questo caldo poi non lo sendite? Non ce l’abbiamo mai avuto un caldo così qua, dicono che abbiamo toccato i quaranda, io poi grassa come sono lo sendo tando, ma forse a Milano state pure peggio eh? Parlava, ansimava e sudava tutt’uno, senza prendere fiato e asciugandosi di continuo la fronte e gli angoli della bocca con un fazzoletto di stoffa che doveva aver visto tempi migliori.

    È un peccato per la terra sa, fa sembre così, piove quando non ci serve e c’è la sìccita quando ci vuole l’acqua, per noi è un vero guaio, abbiamo solo la terra noi e se ci tradisce pure lei… Giovanni non ce la fa più e quella figlia mia non ci aiuta a niende… si è messa in testa che deve fare la… come si dice… la… la… stilista… sì inzomma quelli che fanno i vestiti, ma no la sarta che mo dico io guadagnasse pure benino, nossignore lei li disegna i vestiti e poi un’altra ce li cuce… che giro dico io! Rise scuotendo il petto abbondante. Guardandola così, tutta sudata e affannata, mi resi conto che il caldo era davvero esagerato per questo posto anche se eravamo già a metà luglio. Il paese era situato a più di mille metri d’altitudine e le temperature estive non avevano mai superato i trenta gradi, se ricordavo bene. Gli inverni invece erano sempre stati impietosi e rigidi e numerose volte eravamo rimasti isolati, sepolti sotto metri di neve in attesa di rifornimenti. Per noi bambini quelle nevicate rappresentavano un gran divertimento perché si saltava scuola, perché ci si rotolava nella neve fino a diventare anche noi dei veri e propri pupazzi di neve e perché si festeggiava quella pioggia estemporanea di pacchi che volavano giù dagli elicotteri deputati a rifornirci. Molti di quei pacchi cadevano sul nostro terrazzo poiché casa nostra era una delle più alte del paese e una delle poche ad avere un terrazzo grande. Noi poi si provvedeva a distribuire i pacchi a tutto il vicinato: mamma ne consegnava uno ad ogni famiglia e la gente la ringraziava manco fosse lei la benefattrice di quella distribuzione. Era pur vero che c’era chi ne arraffava quanti più ne poteva, incurante di coloro che rimanevano senza. Mamma invece ci aggiungeva anche del suo perché a noi non faceva difetto l’abbondanza, vuoi per il tipo di lavoro che faceva mio padre, vuoi per le agiate condizioni economiche nelle quali versavamo.

    Mio padre (babbo, come mamma voleva che lo chiamassi perché faceva molto cittadina toscana!) faceva il rappresentante di commercio di generi alimentari; in paese lo chiamavano u vinntore, un mestiere d’oro negli anni sessanta e settanta, che ci permetteva di condurre una vita comoda con le vacanze al mare tutti gli anni, i viaggi nelle città d’arte, i week end in giro; e ancora la domestica e la bambinaia (Antonietta appunto), l’autista (papà non aveva mai imparato a guidare nonostante il suo lavoro), la segretaria e il ragioniere (quel figlio di puttana di mio cugino!). In virtù delle condizioni economiche e delle origini di mio padre (nonno Alfonso era il medico condotto del paese e nonna Lena maestra), eravamo conosciuti in tutto il paese; come pure era nota la generosità di mio padre che lo aveva portato a prestare soldi a chiunque ne avesse avuto bisogno, senza mai averne sollecitato la restituzione. E molti si erano scordati di saldare i debiti, compresi i vari notabili che più di una volta erano ricorsi al suo aiuto.

    Durante l’adolescenza invece incominciai a detestare il clima impietoso di Storano e tutta la neve del mondo che mi impediva di uscire per vedere Enrico, costringendomi a rimanere tappata in casa per giorni. Rintanata in soffitta leggevo montagne di libri volando da un amore all’altro e scrivendo poesie da sfigata, nelle quali parlavo di amori tormentati o di suicidi salvifici. Aspettavo così il disgelo, e non solo quello climatico.

    E tuo marito e Laura come stanno?

    Stanno bene loro, grazie a Dio, Giovanni sta in campagna ora, si coglie un poco di verdura sa e Laura sta a casa del fidanzato, finalmende si sposano fra due settimane e stanno aggiustando le ultime cose… ve l’avevo scritto che si sposano sì? Ma che stupida! Certo che sì se siete venute apposta per fare la commara, che onore signorì, e penzare che non ci credavamo quando c’avete detto di sì, ci penzavamo a uno scherzo e invece… si prende a Rocco il figlio di Totore mangiafico, così lo chiamano ma forse voi non lo conoscete, è un bravo ragazzo e ci vuole tando bene… e non sapete dei soldi che se ne vanno sa, i panni i mobbili la vesta bianca che se l’ha disegnata lei stessa bella assai e le bamboniere, la festa… vabbè che facciamo tutto quando a metà per uno… e che bella casa che si sono fatti proprio come volevano loro, ma tando che ve lo dico a fare che poi la vedete con gli occhi vostri; a proposito di casa è venuta Laura a pulire ieri, gliel’ho detto mi raccomando pulisci bene che la signorina ci tiene, mo aspettate poco poco che vengo a vedere io se è tutto quando a posto. Un lungo respiro le restituì un po’ di fiato.

    Lascia stare Antoniè, ora ho solo voglia di riposarmi, sono stanca morta. Magari ti chiamo domani, speriamo solo di aprire questo dannato portone. Avrei avuto tempo l’indomani per dirle che qualche giorno prima di partire avevo saputo di non poter fare da testimone alla sua Laura, perché ero divorziata, e la chiesa non permetteva ai divorziati di avvicinarsi ai sacramenti; la qual cosa mi aveva lasciata del tutto indifferente in verità, se non fosse stato per il fatto che rinunciandoci avrei dato un dispiacere ad Antonietta. In compenso le avrei lasciato l’illusione che fossi davvero venuta solo per il matrimonio di sua figlia.

    Non dite così signorì questa è una casa benedetta sa, vostro padre era tando una brava persona un vero galanduomo e vostra madre poi… una sanda… che Iddio ce l’abbia in gloria, certo che è la vostra chiave che non va sa, c’ho fatto cambiare la serratura l’anno passato che quella vecchia era tutta arruzzinuta. Così dicendo infilò una chiave nella serratura e il portone si apri agevolmente.

    Avete visto signorì? Ora vi lascio questa sa così vi state certa che aprite e dopo me ne fate fare un’altra con comodo vostro.

    Spalancai il portone con un piede e Tor si precipitò su per le scale, aveva riconosciuto il posto.

    Vi porto sopra la valigia.

    No, lascia stare, è pesante.

    No no ci mancherebbe voi siete stanga del viaggio, è un viaggio lungo lo so mi ricordo quando che sono stata da mia sorella a Torino sa che non si arrivava mai, ci abbiamo messo un giorno sano, vabbè che voi siete venuta con l'aeroplano ma io non ce la faccio ad andare su quel coso, non sia mai, c’ho anche il cuore che non mi funziona bene…. Ridacchiò come fosse una nota di merito anche questo malanno e continuò ad elencare tutta una serie di altri acciacchi che la tormentavano. Oddio, quando Antonietta incominciava con le sue lamentele non la smetteva più!

    La porto su io Antoniè e se ho bisogno ti chiamo. Mi abbracciò ancora arrampicandosi al mio collo e andò via trascinandosi a fatica sulle gambe curve.

    Provai una stretta al cuore: povera Antonietta, così brutta da sembrare una caricatura con la faccia cosparsa di cicatrici, il naso schiacciato, la bocca smisuratamente grande sui pochi denti ancora rimasti e una manciata di capelli grigi scarmigliati sulla testa. Ma decisamente la sua bruttezza era direttamente proporzionale alla sua bontà e disponibilità. Constatazione questa che faceva a pugni con la teoria di un signore che riteneva che le persone brutte fossero anche cattive. Tutte! Mi raccontò la sua storia alla fermata dell’autobus, sotto una pioggia battente mentre s’aspettava la 64. Disse di avere ottant’anni, un figlio deficiente (a suo dire) e una nuora brutta e cattiva come il peccato! Per qualche tempo dopo la morte della moglie il vecchio aveva abitato con il figlio e la nuora nella villetta di sua proprietà, ma ben presto la donna incominciò a fargli ogni tipo di dispetto, fino ad arrivare a rovesciargli tè nelle lenzuola per dimostrare al marito che suo padre si pisciava addosso e necessitava di essere ricoverato. Il figlio deficiente abboccò e rinchiuse il padre in un ospizio. Qui il vecchio incontrò un’infermiera rumena ‘bella come il sole e buona come il pane; uscì dall’ospizio e andò a vivere in uno degli appartamenti di sua proprietà con la sua fata che rispettava come una figlia, e alla quale decise che avrebbe lasciato tutte le sue ricchezze. La ragazza non sapeva niente di questa sua decisione, come non lo sapevano quel disgraziato di suo figlio e quella strega di sua nuora. E rideva il vecchio, assaporando lo stupore di tutti al momento della lettura del testamento.

    Lei è così bella, e sicuramente è anche molto buona visto come è stata ad ascoltarmi con pazienza. Arrivò la 64. Negli anni avevo cercato di trovare conferme a quella strampalata teoria: e sì, qualche volta mi era capitato di aver incontrato gente brutta e cattiva, come mi era capitato il contrario, nel puro rispetto dell’ordine naturale delle cose!

    Sorrisi a quel ricordo, respirai profondamente ed entrai nel portone: una zaffata d’aria dall’odore indistinto mi assalì. Ma non era un cattivo odore: era un odore familiare di cose note seppur non definite, che avevano solo bisogno di tempo per essere individuate e collocate in uno spazio e in un tempo propri. La memoria degli odori è tenace! Chiusi il portone alle mie spalle con un colpo di sedere e guardai la rampa di scale che avevo di fronte: diciassette gradini, se non ricordo male; presi la valigia e incominciai a salire: uno, due, tre… Tor mi aspettava in cima alla rampa ansimando e scodinzolando, quindici, sedici, diciassette! Posai la valigia sul pianerottolo e tirai su la tapparella del balcone, scostai la tenda e passai un dito sui vetri impolverati: se Laura aveva pulito così il resto della casa eravamo a posto! Aprii la porta a vetri ed uscii sulla soglia. In giro non si vedeva ancora anima viva e il caldo era sempre tremendo. Il cane che avevo lasciato tra i due cassonetti era lì, scheletrico e immobile come una carcassa.

    Chissà se continuavano a spiare da dietro i vetri? Mi sembrò di veder muoversi una tenda oltre le gelosie accostate della casa di fronte. Cercai di ricordare chi viveva in ciascuna di quelle abitazioni, di richiamarne alla mente i tratti, i nomi, ma ero troppo stanca per il benché minimo sforzo ed era passato troppo tempo per trovare tutto immutato, compresa la mia memoria.

    Rientrai ed andai in cucina in cerca di un contenitore per far bere il cane; sotto il lavello ne trovai uno di plastica, lo riempii d’acqua e lo sistemai in un angolo del lungo corridoio, Tor arrivò correndo e si tuffò di testa nella ciotola schizzando intorno come al solito. Alzai lo sguardo e con occhi stretti rimasi a fissare la porta che dava sul retro della cucina, il cuore saltò un battito, mi scossi.

    Nella camera da letto la luce filtrava attraverso la tapparella abbassata creando quell’atmosfera irreale che ricordavo bene: nella penombra fasci di luce e polvere, simili a sottili lame d’acciaio, si alternavano posandosi sui vecchi mobili intarsiati, sulle pareti, sul pavimento a disegni esagonali, riportandomi indietro nel tempo. Una stretta improvvisa mi compresse il petto: era una sensazione vecchia e mai dimenticata di paura e di attesa. Rimasi immobile aspettando l’attacco di panico che non arrivò neanche questa volta. Aveva avuto ragione la dottoressa Zanardi: avevamo debellato definitivamente anche questo mostro. Scacciai via con un gesto di stizza il residuo di paura e tirai su la tapparella inondando di luce la camera.

    Per tutta la vita avevo detestato questa casa.

    Mi ci ero sempre sentita a disagio: ospite e mai padrona. Non era mai stata mia, in nessuna occasione, neanche quando morì mia madre e rimasi l’unica proprietaria. Una enorme casa estranea, ostile, tetra. Fredda e buia come una galera.

    Tutto qui dentro era sempre stato tenuto chiuso: tapparelle, finestre, porte. Cassetti e armadi chiusi ermeticamente a chiave, luci spente e lei, mia madre, su tutto con il suo mazzo di chiavi pesante, rumoroso. Guardiana indiscussa di un desolato anfiteatro. Ma stranamente, proprio adesso che era così vuota e silenziosa la sentii per un attimo viva: il sole che filtrava discreto, la polvere sospesa a mezz’aria, gli intarsi imbiancati dei mobili, le foto ingiallite erano le stesse cose dalle quali ero fuggita trent’anni prima, ma che giorno dopo giorno avevano accompagnato la vita di coloro che erano rimasti; fu un attimo, ma avvertii una

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