Dove fugge la gazzella
Di Luca Perini
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Info su questo ebook
Padania ed è stato revocato il confino al Sud per i maggiori di cinquantacinque anni,
precedentemente esiliati per non pesare sulla società. Malgrado ciò, chi supera una certa età resta ai
margini del tessuto sociale, come Ale, che vive in uno scatolone per strada; e come Eros, suo amico
di lunga data, che parte per la savana africana in cerca di grandi risposte. I loro percorsi
s’intrecceranno di nuovo – assieme a quelli di peculiari personaggi – quando si metteranno alla
ricerca di Eléna e Noemi, scomparse nel nulla, il cui fantasma riecheggia forte nella loro esistenza:
riusciranno a scoprire cosa è accaduto alle due donne e a comprendere il grande filo conduttore che
lega i loro destini?
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Anteprima del libro
Dove fugge la gazzella - Luca Perini
Ringraziamenti
Un altro inizio
- Non ne posso più, padre. Sempre la stessa cosa. C’erano tante stelle che entravano dalla cupola, illuminando il vuoto. C’era la solita calma iniziale, subito seguita da un ritmo ossessivo di tamburi in avvicinamento, accompagnato dal mugghio straziante di un animale. Non riuscivo a staccare la schiena dal marmo, ma le mie braccia e le gambe sembravano libere. Libere ma sorde alle mie implorazioni. Lo so, è sempre tutto così strano. Fu dopo un improvviso silenzio che sentii sul viso una pioggia calda e viscosa. Da quel momento tutto mi apparve distintamente. Potevo sentire il respiro di una donna che mi osservava dall’alto. E le risa di una mummia bendata di nero che si affacciava da una delle otto porte. No, non ero in questa chiesa e, credo, nemmeno in questo mondo. Tutte le volte che lui arrivava con un coccodrillo al guinzaglio, tutte le volte che lasciava che le fauci del rettile si avvicinassero a me, finivo per svegliarmi e cercare disperatamente la luce.
- Vuol dire che è arrivato il momento, figliolo. È ora che tu vada.
Nuove professioni
Alle prime ore del mattino il gruppo di giovani Chagga si accalcava sotto la pioggia, con le maglie lacere e i piedi nudi.
- Tocca a me! Sono settimane che non mi prendi!
- I miei bimbi hanno fame!
- No, no! Maledetto, avevi promesso!
L’uomo, con una pertica ostile più lunga della sua ombra, indietreggiava sul piazzale di terra antistante il Marangu Gate. Nei suoi occhi, scintille di rivalsa e paura, a tratti persino pietà, in un gioco confuso e assordante.
- Vieni tu. E anche tu. Avanti, preparatevi.
- Perché loro?
- Bastardo, sei un bastardo!
Ancora una volta il completamento della squadra di portatori aveva il retrogusto di un atto mancato, l’odore acre della delusione.
- Lei resti qui, mentre preparano l’attrezzatura. – Ordinò l’inglese che già si apprestava a rientrare soddisfatto nella sua piccola agenzia di Arusha.
- Non mi muovo. – Rispose impassibile Eros, al riparo di un albero, mentre cercava inutilmente di asciugare le lenti degli occhiali.
- È impressionato? Non ci faccia caso. Sono ragazzi irruenti ma bravi. Molti di loro discendono da maestri delle acque. – Disse l’inglese con finta disinvoltura, quasi voltandosi, mentre attendeva che almeno qualche domanda potesse dare un senso al proprio ruolo.
- Cosa fa un maestro delle acque?
- Vuole dire, cosa faceva? – Sogghignò compiaciuto. - I nonni di questi ragazzi erano dei geni nella costruzione di canali, dighe e bacini, per servire campagne e villaggi con l’acqua della montagna sacra. L’intera vita dei clan sparsi qui attorno si è sempre basata sull’uso condiviso dell’acqua. Beh, fino a quando non sono arrivate le tubazioni.
- Mi lasci indovinare: la modernità ha rotto gli equilibri…
- Come sempre, da queste parti. Ora le campagne sono abbandonate al loro destino siccitoso e la sopravvivenza è diventata una lotta. – Sentenziò con il tono di chi non ha altro da aggiungere all’ovvietà.
Eros non era nuovo alle lotte tra poveri, vivendo oramai da sei mesi a Kibera, la più grande baraccopoli di Nairobi, con oltre un milione di abitanti assiepati in meno di dieci chilometri quadrati. Tuttavia percepiva il peso di appartenere a una ingorda modernità che aveva travolto tutto. Dietro le ampie falde del cappello del suo agente, qualcuno ancora si azzuffava per lui, eludendo i battiti delle sue ciglia bagnate e salendo su per i nervi ottici fino alla coscienza. Certo, avrebbe voluto fare qualcosa. Ma era immobile in un angolo, zuppo di pioggia, nella magra e residuale speranza di cogliere almeno il sorriso soddisfatto dei prescelti, per poter dimenticare la sofferenza degli esclusi. Mendicava soltanto un cenno di gioia, pur sapendo quanto alle cellule di ognuno costasse l’ascensione. Eppure i portatori sapevano sorridere, per natura, per incoscienza, o semplicemente per assicurarsi qualche capo d’abbigliamento tecnico al rientro.
Come un coloniale d’altri tempi, Eros iniziò a camminare, preceduto da una guida e seguito da un cuoco e due portatori, carichi di vettovaglie e di legna per cucinare. La salita prevedeva tre tappe di avvicinamento alla vetta, per facilitare l’acclimatamento.
- Oggi attraversiamo la foresta pluviale. – Disse dopo un po’ la guida.
- Non poteva chiamarsi diversamente. - Pensò Eros, avvolto da una leggera e persistente pioggia dai profumi muschiati, filtrata attraverso un tetto di vegetazione. Ma disse soltanto: Fantastico!
, carpendo forse per la prima volta in vita sua l’aspetto meno esotico di quella definizione.
- Orchidee. – Aggiunse poi la guida, mentre puntava la racchetta in direzione di una macchia rosa e rossa incuneata in una galleria di foglie e liane, interrompendo il concerto di passi e gocce.
Eros assentì ansimando, ma ben accorto che i piedi non si incastrassero nelle radici degli alberi, negli interminabili tornanti del sentiero di fango.
Prima di uscire dal lembo più alto di foresta e dalla coltre permanente di nubi, fece una sosta sotto degli alberi che lasciavano pendere delle leggere barbe di filamenti vegetali, che potevano sembrare eleganti sciarpe di seta o sinistre ragnatele. Uno dei portatori approfittò per fare amicizia.
- Prima volta qui? – Chiese il ragazzo, avvicinandosi.
- Sì, è la prima volta. Come ti chiami?
- Io? Del Piero. E tu? – Disse, sprizzando purezza dal bianco dei denti.
- Come sarebbe a dire, Del Piero? Non hai un nome africano?
- Sì, ma ora tutti mi chiamano così. Non è importante come mi hanno chiamato alla nascita.
- Ma è un peccato cambiare nome. - Disse Eros, non cogliendo la cortesia che il ragazzo gli stava facendo per rendergli la vita più facile, utilizzando tra i vari alias quello da lui ritenuto più appropriato.
- Nessuno dei miei clienti si ricordava il mio vero nome e allora ho deciso che così era meglio.
- Se sta bene a te… Io mi chiamo Eros.
- E’ un bel nome. Puoi cantare con quel nome. Sei Italiano, vero?
Il portatore, che sembrava fiutare l’amicizia, sfilò lo zaino dalle spalle e ci si sedette sopra per una pausa, favorita dal diradamento della pioggia. Vestiva una mantella verde, aperta sui maglioni bucati e diffondeva un odore di cuoio affumicato e umido misto a sudore.
- Sì, sono di Roma. Consoci Roma?
- Oh sì. Totti goal.
Eros quasi si commosse, pensando a quanto le distanze potessero annullarsi in un secondo. Gli venne la voglia di abbracciare il ragazzo, in parte già rapito dalla consistenza della sua pelle, elastica e soda. Ma disse solamente: Giusto!
, mentre, sfilato il cappuccio, si limitava a passarsi la mano tra i capelli per ravvivare i ricci bagnati e ancora vagamente rossi.
- Allora invitami a Roma.
- Ma io non vivo più lì. Ora abito a Nairobi.
- Anche Nairobi è bella. – Disse il ragazzo. - Voglio andare a Nairobi per cercare un bel lavoro. Magari posso lavorare per te.
- Credimi, non so se consigliartela. E’ una città molto grande. Ci abitano milioni di persone e sono quasi tutti senza un lavoro.
- Non ci credo. Come fanno a vivere?
- Già, come fanno? Beh, ecco, in un certo senso, un lavoro ce l’avranno anche. Ma sono dei piccoli lavori. Molto piccoli, sufficienti appena per sopravvivere. Solo pochi Yuan al giorno, che a Roma basterebbero per un paio di caffè.
Eros lasciò che il pensiero volasse per qualche attimo fino alla sua città adottiva, alle strade di una periferia decadente ma schietta, ai suoi amici tatuati, allo scooter smarmittato
, agli oggetti tecnologici di cui era sempre dotato. Fu solo un istante, un volo radente che lo sorprese nell’atto di fuggire nella prateria romana, senza voltarsi indietro.
- Dei miei amici mi hanno detto che a Nairobi si possono fare mille lavori. Lì c’è mercato, capisci? Se hai una cosa da vendere, qualsiasi cosa, o se sai tagliare i capelli o costruire un tavolo, trovi tantissimi clienti.
- Ma devi anche spendere per procurarti da dormire e da mangiare e, se sei sfortunato, vivere in piccole baracche di metallo circondate da rifiuti, assieme a tante altre persone. Non so se sia meglio che stare qui in mezzo alla natura.
- La sai una cosa, Eros? In mezzo alla natura forse ci state bene voi vecchi. A noi giovani viene voglia di stare tutti assieme. Pensa quante ragazze ci sono a Nairobi!
- Su questo non posso darti torto. I giovani si divertono ma giocano con la propria vita. Molti si ammalano e muoiono.
Si vergognò quasi della sua deriva cupa. Il contrasto con lo spirito gioioso del portatore era stridente, anche se giustificato dalla voglia di riprendere la marcia.
- Sempre la stessa storia. Lo so che c’è l’AIDS. Ma tra tante ragazze proprio a me devono capitare quelle malate?
- C’è una buona probabilità, dato che due su tre sono sieropositive.
- Amico, sei fuori di testa? Io mi cerco ragazze vergini come le stelle. Qui nel villaggio è normale. Ho già una moglie e due bambini in salute.
- Mi fa piacere, ehm, Del Piero. Sei uno fortunato. Senti, che dici, riprendiamo a camminare?
- D’accordo, ma quando scendiamo mi regali la giacca e il cappello?
- Io non scendo con voi. Io resto su.
Tristezza addio
São Luís, 2 Febbraio
Nuovamente sola.
Decido oggi di iniziare questo diario. È buffo, non avevo sentito il bisogno di scrivere nemmeno da adolescente, quando il mondo mi travolgeva come un fiume in piena. Non avevo preso la penna in mano nemmeno negli anni dell’università, quando combattevo le mie battaglie per ideali di giustizia o successivamente, in tutto il mio lungo pellegrinaggio nell’universo maschile. Forse ero troppo impegnata a vivere. Forse non avevo tempo per fermarmi nel flusso continuo degli eventi. Ma ora rimpiango di aver sotterrato troppo in profondità molti ricordi, che avrebbero potuto tenermi compagnia nella mia futura vecchiaia.
Dato che mi sento, anzi sono, ancora piena di energie, non voglio più perdere l’opportunità di fissare alcuni momenti di questo straordinario e mutevole passaggio.
Comincerò da oggi, perché ancora una volta mi trovo a dover decidere il mio prossimo passo in totale libertà.
Da meno di un mese mi sono trovata dall’altra parte dell’oceano, in Brasile, per un nuovo capitolo della mia vita, dopo i due anni di anticamera della morte, spesi in Enotria massaggiando aspiranti cadaveri. Il destino mi ha offerto un altro treno da prendere e io non mi sono fatta pregare, accettando di partire con lui.
Il mio orso grigio, un concentrato di cultura primitiva nella testa di un bambino cresciuto solo apparentemente, l’esasperazione del macho sottomesso al fantasma materno, cento chili di tenerezza. Peccato che Salvo non abbia retto a sé stesso. Mi ha lasciato per il nulla. Ha preferito il richiamo della cenere a quello della mia carne. E forse rinascerà scoiattolo o koala nella prossima vita. Ma io non sarò lì a consolarlo perché planerò con le mie immense ali su nei cieli.
Gli sono state fatali le grandi lenzuola. I lençóis, come dicono qui. Non già il mio letto, ma la distesa di chilometri di dune di sabbia bianca, inframmezzate da laghetti di acqua dolce, che si stendono come drappi ad asciugare verso l’oceano. Le colline semoventi, modellate dal vento, lo hanno attratto più del caldo umido del mio corpo, sotto le pale lente del ventilatore del nostro nido a Rua Portugal. Diceva che avrebbe camminato per due giorni e sarebbe andato a rotolarsi giù da quelle dune candide come la neve per tuffarsi nelle acque del Lagoa Azul. Mi consola che ci sia riuscito. Un po’ meno che non abbia potuto farne ritorno.
Ma chi ha avuto, ha avuto, ha avuto...e chi ha dato, ha dato, ha dato...
Vista Colosseo
Svegliato di soprassalto dai tonfi sordi e dalla sensazione di essere sobbalzato su un canotto lungo un fiume in piena, Ale si sentì ruotare su sé stesso nella semioscurità. Riuscì appena a percepire, nella confusione del risveglio, urla di giovani miste a risa, prima di veder spuntare la suola di uno stivale dalla parete di cartone. Lo stesso stivale, estratto con violenza, riapparve a qualche decina di centimetri dal precedente foro, che lasciava ora entrare la luce del sole, aprendo un varco più esteso. Riuscì carponi a indietreggiare fino ad aprire la parete d’ingresso e trovarsi fuori circondato da cinque adolescenti con accenti da periferia urbana ed espressioni di scherno.
- Gliela spacco io la