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Il silenzio della pietra: traduzione di Anna Lia Proietti
Il silenzio della pietra: traduzione di Anna Lia Proietti
Il silenzio della pietra: traduzione di Anna Lia Proietti
E-book141 pagine1 ora

Il silenzio della pietra: traduzione di Anna Lia Proietti

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Info su questo ebook

Nel 'Silenzio della pietra' la storia personale di Sude si intreccia con le vicendee le ferite ancora aperte della giovane repubblica di Turchia. Il gomitolo dei ricordi si dipana a partire dall'infanzia e dall'adolescenza in cui Sude è divisa tra due mondi familiari profondamente diversi, passando attraverso la scoperta delle origini armene del ramo materno, arrivando infine alla perdita dell'uomo che ama. Lentamente Sude assembla i tasselli della storia familiare, scontrandosi con il silenzio che avvolge la storia della persecuzione armena, con le sue deportazioni e le forzate conversioni. Via via che prosegue la ricerca la narrazione si fa più onirica, confondendo la realtà col sogno, l'immaginazione con l'incubo, in una atmosfera di crescente oppressione. Sullo sfondo di uno degli episodi più dolorosi della storia della Turchia, è il filo rosso della paura a intrecciare i destini dei personaggi.
LinguaItaliano
Data di uscita29 apr 2018
ISBN9788864792064
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    Anteprima del libro

    Il silenzio della pietra - Filiz Özdem

    I

    UN PROFILO NELLA LUCE DELLA LUNA

    E UN GIARDINO GIALLO

    1.

    Vago per una via che non esiste. La strada è lastricata di pietre levigate. Mi fermo in cima e la guardo andare avanti girando poi a destra. È un corridoio stretto tra la superficie gialla degli alti muri di pietra dei giardini. Il sole è allo zenit e fa sembrare le pietre più gialle di quello che sono. I muri, gli uni accanto agli altri, sembrano enormi buste tutte uguali. Senza indirizzo. E tutti hanno in un angolo, come un francobollo, lo stesso portone di legno a una sola anta.

    Si emana una luce intensa che assorbe il silenzio saggio e la memoria della pietra. La strada è vuota. Si ode appena il rumore di (miei) passi leggeri. Cammino come se mi muovessi nel nulla.

    Proseguo a destra. Spingo la terza porta, si apre cigolando su un cortile interno. Entro abbassando leggermente la testa. I muri che separano i giardini sono alti come quelli che danno sulla strada. A sinistra del cortile, un terrapieno abbastanza alto a cui si accede da una scala, sul terrapieno una piccionaia, un poco oltre la porta di casa; nel mezzo, c’è un pozzo. Nel pozzo abitano spiritelli che hanno un labbro che tocca terra e uno che tocca il cielo. Afferrano per i capelli le ragazze che si affacciano sul pozzo, le trascinano nel buio, le caricano sulle groppe dei cavalli e le portano nel loro paese sotterraneo.

    Nermin gira per il cortile. Lei di suo ha soltanto un nome e la solitudine. Gli occhi nerissimi sono affossati nel volto. Non si capisce se, come due noccioli di oliva sopra le occhiaie viola, guardano fuori oppure dentro di sé. I capelli sempre tinti di un nero intenso sono tagliati a caschetto sulle spalle. Per tutta la vita ha pulito, lavato, cucinato, fatto la spesa, guardato le sue sorelle sposarsi, ha cresciuto i loro figli, ma la sera ognuno tornava a casa propria. Per dodici anni ha imboccato il padre infermo, pulito la sua merda; una sera, Ahmet efendi, la cui voce era stata quasi dimenticata, era morto urlando. Anche sua moglie, che non gli aveva più rivolto la parola dal giorno in cui ne aveva scoperto la menzogna, era morta di lì a poco.

    Dal giorno in cui aveva tolto la parola al marito in poi, la madre aveva parlato incessantemente. Non stava mai zitta. Se Nermin o qualcun altro non era con lei, parlava da sola. Non passava neppure davanti alla stanza dove dormiva il marito. Dopo che era rimasto paralizzato aveva vissuto senza neppure più guardarlo in viso. Si è zittita soltanto il giorno che il marito è morto. Non ha più parlato. In pace, ha guardato dalla finestra i piccioni. Ha guardato Nermin aprire la porta della gabbia in fil di ferro e i piccioni rimanere dentro come se fosse ancora chiusa. Quando Nermin picchiava con un bastone i lati di ferro della gabbia, iniziavano a uscire pian piano fuori. Camminavano scuotendo la testa e si riunivano in gruppi di tre o cinque. Uno andava scuotendo la testa e l’altro gli girava intorno. Dietro, arrivava anche il terzo e il quarto. Uno razzolava per terra e ci si accovacciava. L’altro tubava sopra una pietra. Allungando la testa verso il gozzo, la schiena, le ali, la coda, pulivano le piume con il becco. Passeggiavano aprendo a ventaglio le ali e la coda e guardando indietro per vedere se qualcuno li seguiva. A volte si voltavano tutti insieme come se si mettessero in posa per una fotografia. Nermin agitava il bastone cercando di farli volare. Sia quando spiccavano il volo che quando atterravano, agitavano le ali con movimenti brevi, agili e vigorosi e tutto il cortile si riempiva del rumore delle loro forti ali. Quei momenti riempivano di gioia Belkıs hanım.

    Non appena riusciva ad afferrare un piccione, Nermin lo scagliava veloce verso l’alto. Di solito era sempre lo stesso piccione: quello tutto bianco con una striscia grigia sulle ali e sulla coda. Si librava, girava formando cerchi, ‘esse’ e ‘otto’, un momento rimaneva fermo, planava, poi sbatteva di nuovo le ali. Nermin lo richiamava indietro fischiando.

    Belkıs hanım mormorava una filastrocca: «Ho dato del miglio a un uccello, l’uccello mi ha dato un’ala».

    Verso sera Nermin, aprendo le braccia e piegandosi ora a destra, ora a sinistra, guidava i piccioni che razzolavano a terra verso il loro nido. Sabri efendi la osservava dalla terrazza della casa vicina, guardando la larga schiena di Nermin e i suoi fianchi stretti, arricciava il naso e diceva: «Ihhh». Attraverso gli occhi resi opachi dalla vecchiaia passava una luce, un tremore che avviluppava il corpo e faceva venire la pelle d’oca.

    Due piccioni rimasti fuori tubavano strofinando il becco.

    Adesso Nermin è sola in questa casa che puzza di morte. La vita è passata in un attimo e mentre si chiedeva cosa sono, cosa sarò, la giovinezza si è spenta. Quando la casa non puzzava ancora di morte, Nermin era ancora fresca, Belkıs hanım la trascinava di forza all’hamam, il bagno turco, il mercoledì, giorno in cui le sensali andavano a ‘selezionare’ le sue coetanee. Mentre le altre ragazze, formose, con colli tanto sottili che quasi lasciavano vedere l’acqua che inghiottivano, la pelle bianchissima, andavano in giro dondolando l’ombelico, Nermin si rifugiava accanto alle anziane dalle carni tremolanti che stavano completamente nude accanto alla fonte, le mammelle abbandonate sull’addome, le pieghe del ventre a coprire le parti intime, che si strofinavano la pelle con il guanto da bagno per togliere quella morta, si sciacquavano con acqua bollente e mormoravano: «Ohhh, ohhh», e sul corpo emergevano netti i segni del guanto. Per il disagio lei fissava lo sguardo sulla cupola: l’odore che saliva dai flussi sottili di acqua nei canali sotto le fontane che si riversavano verso il fondo dell’hamam – in cui si intravedevano, tra la schiuma di sapone, palline di sporco simili a vermetti neri che si confondevano a capelli neri, marroni, grigi, rossi di henné strappati dai pettini con i denti d’avorio fitti e sottili e con il dorso d’argento, batuffoli di peli depilati con la polvere di orpimento – le veniva da pensare che proprio quell’odore che le dava il voltastomaco, avrebbe potuto afferrarlo se avesse allungato una mano. Guardava con disprezzo tutte quelle canzoni, la vivacità, le fette di anguria rosicchiate, gli scherzi talvolta inopportuni, le civetterie, gli sguardi impudichi, l’odore degli schizzi del cetriolo che veniva addentato rumorosamente, le carezze fatte passandosi accanto, ragazza hai la pelle di seta, i fianchi le mammelle i colli, le braccia verdognole che alcune di loro mostravano senza riguardo, il successivo morso di köfte, polpetta, gli scherzi incomprensibili su quello che era successo la sera prima, quella sera, la sera successiva, tutta quella gioia femminile immotivata, i dolci morsicati, la smania sessuale che veniva allo scoperto. Sospirava, piegava la schiena in maniera che non era solita fare e ingobbendosi andava nel tepidarium, prendeva con la lingua semi di canapa che una delle donne le aveva messo nel palmo della mano e masticava piano piano, spezzandoli. Aspettava che questo capitolo di spugne schiumose, guanti strofinati, acqua gettata sulle pietre, chiacchiere frenetiche, spuntini avidi, golosità indescrivibile, avesse fine.

    Sebbene non mancasse di rispetto agli anziani, già da quell’età Nermin si mostrava risentita e offesa del fatto che il controllo sui giorni dell’hamam ce l’aveva sua madre e per questo non ricevette nessuno dei ‘benefici dell’hamam’.

    Alla fine, un giorno, la lotta tra lei e sua madre su come dovessero cadere le pieghe di una tovaglia, su come si piegassero le trapunte, su come si mettessero a posto i bicchieri, su quale biancheria potesse essere appesa accanto all’altra, su quando si dovesse aprire e chiudere ai piccioni, su quale giorno si andasse al mercato, su quando e che cosa si dovesse preparare da mangiare, su quale fosse l’ordine inviolabile con cui si riponevano le cose di casa, terminò a suo favore su un cuscino che lei e sua madre strattonavano da una parte e dall’altra. Belkıs hanım era stanca e si tirò indietro da ogni incombenza. D’improvviso Nermin ebbe tutto il controllo. Adesso rimaneva ancora aperta la questione di estendere alle persone il potere che aveva sulle cose. Le sorelle all’inizio accettarono con piacere la nuova situazione, in fondo si trattava di essere sollevate da responsabilità fastidiose e impegni noiosi. Ma alla fine il fatto che Nermin si aspettasse sempre gratitudine, che si impicciasse di tutto, che volesse essere sempre informata, a lungo andare divenne loro insopportabile. Quando si rese conto che le sorelle passavano scuotendo la testa impazienti, che dicevano va bene, d’accordo, ma poi facevano come pareva loro e cercavano di tenerla in disparte, Nermin divenne scontrosa. I nipoti a cui tanto si era dedicata diradarono le visite. Le conversazioni fatte a ogni loro venuta, con le stesse parole, gli stessi accenti e le stesse preoccupazioni, alla fine avevano allontanato anche loro. Quale risentimento si impadronì di lei, che ingrati! Piangeva di continuo. Trovava sempre qualcosa su cui piangere. Anche per la migliore delle notizie si immaginava uno scenario di disgrazie, la gente aveva una vita prospera e felice e lei si intristiva per loro. Questo suo continuo lamentarsi stringeva il petto delle sorelle.

    Rattristandosi per tutto, a Nermin non rimase niente al mondo di cui rallegrarsi. Il fazzoletto che teneva nella manica destra della vestaglia ormai non si asciugava più. Iniziò a compiacersi del proprio dolore in ogni suo dettaglio, a sentire solo le notizie che le facevano inumidire gli occhi. Non vedeva, perfino non sentiva, se qualcuno aveva partorito, se la figlia di un vicino si era sposata o se qualcuno era stato lodato ma si metteva immediatamente il fazzoletto e il soprabito per andare a casa di qualcuno malato, ad ascoltare i problemi di qualcuno che aveva subito un’ingiustizia, a piangere con la suocera che aveva litigato con la nuora che non le lasciava vedere il nipote, e se qualcuno moriva correva non appena aveva finito di preparare il riso con la carne. Di cuore. Di gran carriera.

    Ahmet efendi

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