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La foto sbiadita: I racconti della Valle Jato
La foto sbiadita: I racconti della Valle Jato
La foto sbiadita: I racconti della Valle Jato
E-book162 pagine2 ore

La foto sbiadita: I racconti della Valle Jato

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Info su questo ebook

"La foto sbiadita" è una raccolta di racconti collocati nel periodo che va dal Primo Novecento fino a quasi i nostri fiorni. Il luogo da cui traggono vita è la Valle dello Jato, così nominata dal fiume che la attraversa, uno dei più bei paesaggi della Sicilia Occidentale.
Affreschi di vita quotidiana e tradizioni che non vanno dimenticate riprendono vita attraverso i personaggi. Le vicende sono diverse, ma il filo conduttore è unico: le problematiche di questa terra di incommensurabile bellezza e di grandi contraddizioni.
Storie di mafia, di emigrazione, di soprusi e di povertà, storie d'amore, di ribellione e di riscatto; storie vere che, come i tasselli di un puzzle, alla fine, ricompongono la rappresentazione di una realtà, quella siciliana, che ancora oggi fatica a liberarsi dagli stereotipi e dai retaggi culturali.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ago 2018
ISBN9788828368045
La foto sbiadita: I racconti della Valle Jato

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    Cunosco personalmente Spatafora Serafina,cunosco quasi tutti le'fuoi raconti! Per me e una grande scritice ioriginaria,che a un dono dall cielo,ma pure una forza interiore natta! Il suo amor ,anima gentilezza e la sua umanita,e inegalabile! Ho letto quassi tutte le suie raconti! ,Ho anche grand parte da lor conservati per ricordo di una inegalabile persona! Con rispeto e gratitudine,e ttotto Amore!, îĺ tuo Angelo dall Est!

Anteprima del libro

La foto sbiadita - Serafina Spatafora

Serafina Spatafora

La foto sbiadita

I racconti della Valle Jato

UUID: b6ce4d4c-967e-11e8-b813-17532927e555

Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

http://write.streetlib.com

Indice dei contenuti

Prefazione

Il giardino di Elisa

Il mare di Maria

La mia America

Papaveri rossi

La fuitina di Mastro Andrea

Il grano nel solaio

La foto sbiadita

Io che non ci pensavo

Il sogno di Onofrio Zorba

Come Alijai

Ringraziamenti

Prefazione

Serafina Spatafora, detta Fina, nasce da una famiglia di condizioni decorose di un piccolo paese della provincia di Palermo, San Giuseppe Jato, dove ancora risiede. Attaccatissima al padre, da cui la distanzian o quasi cinquant’anni e alla vecchia nonna paterna, da bambina ascolta da questi con straordinaria capacità di memorizzazione racconti di vita vissuta, che riguardano personaggi veri, luoghi e ambienti reali, di un passato ormai quasi del tutto superato da vicende della seconda guerra mondiale e dai rivolgimenti sociali ed economici, che a esse seguirono, e che influenzarono, anche se lentamente, i ritmi della vita del paese natio. Nella memoria della piccola Serafina i personaggi, le vicende, l’ambiente, descritti nei racconti della nonna e del padre si cristallizzano per emergere spontaneamente in età matura. Tali contenuti, narrati con straordinaria capacità di descrizione di sentimenti e di plastica ricostruzione di personaggi e di ambienti, ci rappresentano in forme semplici e spontanee, del tutto prive di ideologismi o culturalismi, sprazzi di vita vissuta, come se questa riemergesse intatta da un passato ormai lontano. L’uso di espressioni dialettali poste in bocca ai personaggi e la spontaneità dei loro gesti permettono al lettore di cogliere in movimento scene di vita vivaci e aderenti alla realtà. Riflessioni pensierose e senso di ironia bonaria verso la vita e i suoi eventi fanno capolino tra le pagine del racconto, ma non appesantiscono la narrazione, che si svolge sempre in forma lineare. La partecipazione fisica e sentimentale dei vicini di casa alle vicende dei personaggi, il mormorio della gente, i proverbi, la rappresentazione reale di usi e costumi creano una mescolanza armonica, che non è fuor di luogo definire corale. Queste pagine di narrazione sfuggono a qualsiasi catalogazione letteraria e, forse al di là delle intenzioni dell’autrice, assumono significato di documento storico di un passato non lontano.

Prof. Vincenzo Caiola

Docente di Lettere Antiche

Il giardino di Elisa

C’era una volta un giardino che a ogni primavera rifioriva in tutta la sua bellezza, e ancora più bello era in autunno, quando si colorava del rosso delle foglie che vanno a morire. In inverno, gli alberi spogli mostravano al mondo la loro nudità con l’orgoglio di chi sa che presto si rivestirà di nuovo splendore. D’estate era un’esplosione di fiori e di frutti che con i loro profumi inebriavano l’aria. Mai nessun giardino era stato curato con tanta devozione.

Elisa, era il nome della sua padrona che con esso viveva in simbiosi. Nobile d’animo e di rango fu colei di cui vi sto narrando. Era nata bella e bella restò sempre. Visse la giovinezza nella sua casa ricca di stucchi e di raffinatezze, protetta da tende di lino ricamato.

Ma un terribile giorno la fortuna, che con lei sembrava essere stata una fata buona, all’improvviso le voltò le spalle. Bastò poco e quello che sembrava essere il patrimonio solido di una famiglia stimata andò perduto. Se fu a causa d’investimenti sbagliati, per colpa di soci poco affidabili e disonesti o perché era scritto che ciò accadesse, questo io non l’ho mai saputo. Dopo il fallimento, case, gioielli, mobili furono messi all’asta. Decine di ettari di terreno furono lottizzati e svenduti. Del giardino di Elisa non rimasero che pochi metri quadrati, mentre tutto il resto moriva sotto i cingoli dei trattori. Gli aranceti e i limoni, che degradavano nella valle fino a raggiungere il fiume, furono abbattuti. I fichi d’india, gli alberi di pesco, di pere, di albicocche, carrube, di sorbe e di altri frutti di cui si è ormai persa memoria, furono distrutti per sempre. Anche il muro di pietra bianca che separava quel paradiso dalle case del paese, pietra dopo pietra fu smontato, e quelle pietre, che un centinaio di anni prima mani laboriose avevano intagliato, ormai diventate preziose, andarono a ingentilire le ville dei signori di città. Solo in un punto il muro non fu abbattuto, proprio dove faceva da stampella a una casa tanto misera che a esso si appoggiava per non crollare. Così come rimase al suo posto la cappella votiva che il nonno di Elisa aveva fatto costruire qualche anno prima in segno di devozione alla Madonna della Provvidenza, Patrona del paese. A ogni albero che veniva estirpato, a ogni pietra che veniva portata via il cuore di Elisa andava in pezzi. Dovette lasciare la grande casa, che si affacciava sulla via principale del paese, per trasferirsi nella modesta dimora del giardiniere che, costretto a cambiar padrone, rimase comunque suo devoto servitore. Della nuova condizione Elisa non si disperò mai. Le portarono via ogni cosa, ma la dignità, la sua e quella della sua famiglia, non venne mai meno.

«Non dobbiamo guardare indietro» le diceva suo padre. «Abbiamo perso tutto, ma ci rimane ancora questa casa e il necessario per vivere dignitosamente. Di questo ringrazio Dio ogni momento della mia vita. Il mio conforto è tua madre e tu sei la luce dei miei occhi.»

Sapeva che avrebbe dovuto affrontare tempi difficili ma non sapeva che presto una terribile guerra avrebbe sconvolto il mondo. Tutto il paese si aprì alla solidarietà verso chi in quel momento fuggiva dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale. Nella sua casa furono ospitati alcuni degli sfollati che arrivavano dalla vicina città. Fu durante quel periodo che tra gli ufficiali della locale Caserma conobbe l’amore della sua vita. Veniva da lontano, forse dall’Emilia, terra alla quale disse addio per restare accanto a lei. Si sposarono e presto Elisa diventò mamma. Era un maschio, ma l’esperienza difficile del parto la convinse a non avere più figli. Lo vide crescere in fretta il suo bambino e quando, diventato uomo, per realizzare i suoi sogni decise di andare via, in America, un pezzo del suo cuore lo seguì. Visse a lungo, perché doveva conoscere il bene e il male, la gioia e il dolore, la malattia e la solitudine, la ricchezza e la povertà. Però visse. Giorno dopo giorno, stagione dopo stagione il tempo le imbiancò i capelli e le regalò qualche ruga che potesse raccontarne la storia. Lottò per non lasciare fuggire via i ricordi e per quelle emozioni senza le quali la vita perderebbe di significato. E quando, in un mese di agosto infuocato il suo amore, ormai vecchio e stanco, s’incamminò lungo la strada del non ritorno Elisa, rimasta sola, non si arrese. Sempre più debole, un bastone diventò suo amico fedele e le permise, nonostante tutto, di continuare a prendersi cura del suo giardino, dal quale attinse la linfa per continuare a vivere.

Posso dire di averla sempre conosciuta sin da quando, io bambina, andavo a giocare nel suo giardino e lei, già donna e mamma, mi accoglieva con un sorriso. Portava i capelli brizzolati raccolti in un morbido chignon. Vestiva in modo semplice ma la sua persona rendeva speciale qualsiasi cosa indossasse. Passava i pomeriggi all’ombra del salice del suo giardino, tra fiori profumati e dai mille colori da cui traeva ispirazione per ricami variopinti su scialli di seta e arazzi preziosi.

Amava gli animali e loro le davano affetto e compagnia. Custodì con cura il nido che le rondini avevano costruito sotto il suo tetto e dove tornavano a ogni primavera. Non negò mai un boccone ai gatti che miagolavano dietro al cancello per attirare la sua attenzione, e una ciotola piena d’acqua era sempre a disposizione dei randagi.

L’ultima volta che la vidi mi raccontò del figlio e dei nipoti, delle poche lettere e di quelle foto che le permettevano di sentirli vicini. Poi si fece triste e mi parlò della sua solitudine.

«Quando mi sento triste mi siedo all’ombra di questo salice e aspetto che i ricordi mi vengano a trovare. Sbucano da ogni angolo e mi fanno sentire meno sola. Sembra di stare al teatro, il sipario si alza e la recita ha inizio. Ritornano i miei giochi di bambina. Case di bambola e servizi di porcellana in miniatura che un nostro amico inglese mi aveva mandato da Londra. Giochi privilegiati per una bimba sola, quando i ragazzi del paese giocavano con i bottoni che staccavano dai loro pantaloni. Rivedo i miei genitori, i miei nonni, i vecchi amici. I ricordi arrivano, liberi di fare e dire ciò che vogliono perché ognuno è attore di sé stesso e conosce la propria parte. A volte diventano invadenti e sono costretta a rimproverarli. Su, su, adesso tocca al mio giardino! Dico loro. E così la recita può continuare. Il bambù, mosso dal vento, crea una melodia dolcissima. Sotto l’oleandro, carico di fiori rosa che profumano di mandorle amare, si va a nascondere un topolino grigio e bianco per sfuggire al gatto del vicino. I corimbi delle lantane, rossi, gialli, fuxia e non so di quanti altri colori, fanno a gara con i colori delle farfalle che danzano sopra di essi. Salgono, scendono, risalgono per poi andare a succhiare il prezioso nettare di quei fiori gentili. Infine si allontanano inconsapevoli di essere un miracolo della natura. Al tramonto, i girasoli chinano il capo perché sanno che è giunta l’ora di dormire, mentre il cielo, carico di stelle, ospita uno spicchio di luna che, come una lucerna, illumina il mondo. Infine cala il sipario e io ritorno alla mia solitudine.»

Poi, indicando un punto preciso, vicino al cancello, continuò:

«guarda! Laggiù ho piantato bulbi di narciso. Non hanno bisogno di cure, basteranno la rugiada del mattino e il calore del sole a farli fiorire e a mantenere, anno dopo anno, la bellezza in questo luogo. E tu, se puoi, vienimi a trovare più spesso, così non avrò più bisogno di scomodare il passato per avere un po’ di compagnia.» Mi ero ripromessa di farlo ma non ce ne fu il tempo. Da lì a qualche giorno, senza fare troppo rumore, Elisa lasciò il suo giardino per sempre. Mentre andava via, qualcuno giura di aver visto goccioline di rugiada cadere dal pergolato come se piovesse. Non l’ho mai dimenticata, ed ho continuato a immaginarla in un giardino meraviglioso, intenta a ricamare fiori variopinti su scialli di seta.

Questa notte è venuta a trovarmi in sogno, in quella dimensione dove il tempo non esiste. Dove passato e presente si fondono e dove il futuro viene a dirci cose che spesso non comprendiamo. Stava seduta su un dondolo di velluto verde, circondata da una nuvola di narcisi gialli. Mi guardò e mi accorsi che i suoi occhi erano lucidi di pianto. Non ancora completamente sveglia, continuai a percepirne la presenza. Sentivo la sua mano nella mia, ma quando tentai di stringerla, tutto svanì. Mi svegliai e recitai una preghiera. Non prego quasi mai, per lei l’ho fatto.

E ora, con quella immagine impressa nella mente, mi trovo dietro le sbarre arrugginite e senza più colore del cancello del suo giardino. Una grossa catena, chiusa da un lucchetto, sembra voler nascondere al mondo quello che era stato un paradiso e adesso è solo incuria e abbandono. Sotto il salice spoglio, che forse a primavera tornerà a nuova vita, solo foglie secche che il vento ha spinto fino a coprire il vialetto che conduce alla casa. La porta è stata sprangata con due grosse assi di legno, ma anche se fosse stata spalancata, non sarei entrata comunque, per pudore di violare quello scrigno. Ricordo una casa, linda e ordinata, dove ogni oggetto, ogni quadro, ogni stanza custodiva la storia e la vita di Elisa. Attraverso i vetri di una finestra i raggi del sole fanno brillare in uno sfavillio di mille colori i cristalli di un lampadario messo lì a ricordare lo sfarzo di un tempo. Le grondaie arrugginite si sono riempite di felci e il nido al quale le rondini tornavano a ogni primavera è distrutto. Sul pergolato, la vite che regalava grappoli di uva bianca grandi e succosi è diventata un groviglio di rami secchi e contorti. Del gelsomino non c’è più traccia e il capelvenere, messo a dimora nell’angolo più fresco del giardino, si è trasformato in un ciuffo di paglia rinsecchito. Delle erbe aromatiche e del rosmarino non rimane più nulla.

Vorrei andare via, ma non posso. Vorrei aprire il cancello, entrare, rimettere ordine, ripiantare fiori e arbusti. Lo scuoto con forza, con rabbia, ma la grossa catena non cede. Impotente provo una grande tristezza. Una folata di vento, improvvisa, allontana dal cancello un mucchietto di foglie secche e da sotto i cocci di un vaso rotto fa capolino un narciso giallo. Basterebbe allungare una mano per portare via quel piccolo fiore che si sta affacciando alla vita, ma so che deve rimanere qui, dove stagione dopo stagione

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