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In punta di piedi d’estate
In punta di piedi d’estate
In punta di piedi d’estate
E-book408 pagine5 ore

In punta di piedi d’estate

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Info su questo ebook

Gemma decide, dopo sei anni di assenza, di tornare a trascorrere le vacanze estive nella villa in campagna dell’amica Elena.
La Grande guerra ha lasciato dietro di sé un paese dilaniato; la Spagnola, imprevedibile corollario, ha compiuto anch’essa un massacro. I Rossi hanno occupato le fabbriche, nei latifondi masse di affamati si sono impadroniti dei campi, lo spettro della Rivoluzione russa incombe mentre Agrari e Industriali armano bande di facinorosi ad arginare la spinta rivoluzionaria. Il re tace. Giolitti ha perso lo smalto. I sindacati soffiano sul fuoco.
La grande villa, in questo contesto socio-politico, si configura come un microcosmo di individui ed emozioni, un tessuto vivente essa stessa coi suoi spazi interni ed esterni che accolgono i passi, i gesti, i pensieri, le risate, i canti, le riflessioni, le lacrime e i cicalecci dei suoi abitanti. Sprazzi di felicità si alternano alla malinconia e anche la perfidia riesce a insinuarsi tra le sue stanze; amori contrastati, amori rubati, amori vincenti, amori alla luce del sole ondeggiano nelle penombre ambrate degli ambienti domestici o nell’accecante riverbero della campagna bruciata dalla calura. E anche la Natura sembra talvolta intervenire ad accompagnare o commentare situazioni e stati d’animo.
Due mesi estivi che paiono dilatarsi in una stagione senza fine. Il ritmo narrativo sembra adeguarsi con una sorta di rispetto e premura a personaggi, situazioni e stati d’animo, concedendosi pause riflessive e momenti lirici, senza trascurare l’immediatezza del dialogo e del confronto. E neppure, qua e là, una nota di umorismo. Il fondamentale immobilismo che sembrerebbe caratterizzare il mondo descritto viene pertanto smentito dalla virulenza di emozioni che muovono i personaggi, dai dialoghi fitti, talvolta un sovrapporsi di voci, dagli interrogativi che artigliano le coscienze.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2020
ISBN9788832927290
In punta di piedi d’estate

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    Anteprima del libro

    In punta di piedi d’estate - Emilia Giorgetti

    perduta.

    Personaggi

    In Villa

    Giorgio e Elena, i padroni di casa

    Rachele, Sara, Maria Alessia (Mascia), Giovanbattista (Giò), Pietro, Elisa (Lilli), Alice (Cecetta), i loro figli

    Paolo, Trise e Giovacchino, fratelli di Giorgio

    Bianca, moglie di Giovacchino

    Tullio e Giulio, figli di Bianca e Giovacchino

    Amelia, sorella di Elena

    Rodolfo, suo marito

    Lapo e Diana, figli di Amelia e Rodolfo

    Tata Giulia, la bambinaia

    Gemma, amica storica della famiglia

    Franz, compagno di Gemma disperso in guerra

    Finimola, cameriera

    Prima, cuoca

    Giuseppe, cugino di Giorgio

    Floris, sua moglie

    William e David, figli di Floris e Giuseppe

    Angela, cugina di Giorgio

    Giacomo, suo marito

    Sandra e Adelaide, figlie di Angela e Giacomo

    Don Fabio, amico di famiglia, curato del paese

    In campagna

    Angelo, mezzadro di Giorgio

    Nunzia, sua moglie

    Rosa, Ascanio e Duccio, figli di Nunzia e Angelo

    Paolo, mezzadro di Giorgio

    Assunta, sua moglie

    Bianca e Gerolamo, figli di Assunta e Paolo

    Iolanda, madre di Paolo

    A Villa Arditi

    Conte Gualtiero

    Contessa Ginevra

    Ettore, Rosalba, Diego e Claudio, figli dei conti Ginevra e Gualtiero

    Ottavio, fratello di Ginevra

    Prefazione

    Ambientato alla fine della Prima guerra mondiale in una villa di campagna circondata da campi, viti, olivi e giardini, il romanzo ha la durata di un’estate.

    Dopo sei anni di assenza fa ritorno per le vacanze estive Gemma, grande amica di Elena, la proprietaria della villa. Si sono conosciute ai tempi lontani del collegio, e ora Elena è la moglie di Giorgio e madre di sette figli.

    Intorno alla famiglia ruota una serie di personaggi, familiari e servitù, contadini che lavorano nei campi della proprietà insieme alle loro famiglie e agli animali, il prete, i nobili di una villa vicina, ma soprattutto i parenti che arrivano in campagna per sfuggire all’afa estiva.

    È una fantasmagoria di personaggi, in mezzo a schiamazzi di bimbi, a passeggiate nei boschi, a merende sui prati, alla pesca nel rio, a uscite a cavallo, a eventi di ogni genere e spessore, sacri e profani, che dilata i due mesi estivi tanto che si perde la nozione del tempo. Ogni personaggio si staglia tra gli altri come una figura a tutto tondo: c’è chi ama lo studio e la ricerca, chi il buon cibo e il vino, chi parla con gli uccellini. E ci sono due infaticabili cuoche a sfamare la tribù.

    Gemma, che porta con sé il dolore di una perdita che non ha ancora accettato, è trascinata dai ritmi di quella casa. Lei osserva, registra, partecipa. La pace della campagna, il verde, l’amicizia sincera, la varietà delle giornate, i lunghi momenti di riflessione e di confronto, ne fanno lentamente una persona aperta alla vita e a nuovi incontri.

    Intanto nascono amori, alcuni sofferti e contrastati, ma si vivono anche situazioni di disagio: la cognata Bianca, anche se ospite, è sempre pronta all’attacco; si recupera il passato individuale e la Storia comune. La grande tavola del salone vede crescere di giorno in giorno il numero degli ospiti, per la gioia di Elena che ama ricevere. Un angolo di pace e di benessere.

    Ma le tensioni sociali del dopoguerra sfociate negli scioperi, la paura del comunismo con le sue idee di eliminazione della proprietà privata, le violenze crescenti perpetrate da bande di facinorosi neri, toccano i nostri personaggi e li portano a porsi domande su quale sia la strada da seguire.

    Romanzo attraversato da amore e dolore, In punta di piedi d’estate ricostruisce il linguaggio e lo stile di vita di una famiglia borghese inizio secolo, scandisce le opere e i giorni nel ripetersi dei riti, nel rispetto delle regole della buona educazione, aperto comunque alla sorpresa e all’attesa; si allarga e sosta sul paesaggio recuperando colori, voci, profumi, riuscendo a ricostruire, volutamente andando controcorrente con la scelta linguistica, il ritmo e l’atmosfera dei romanzi dell’Ottocento.

    Marisa Cecchetti

    Prologo

    Conosco Elena da oltre vent’anni, più della metà della nostra vita. Giunse al collegio che mi ospitava un anno dopo la morte della sua mamma. Una bellezza acerba, occhi attenti e guardinghi, morbidi, parlanti. Entrare in contatto con regole e dinamiche estranee e rapportarsi con ragazze abituate ad appropriarsi dell’intimità altrui, con chi cercava sudditi, non amici, non dovette riuscirle facile. Come scoprii più tardi, lei era stata abituata alla dolcezza, e forse non aveva mai ricevuto un rimprovero a casa, anche perché la sua indole la portava al dialogo e alla comprensione; perciò le rivalità, le lotte di potere che agitavano fino alla meschinità educande ed educatrici graffiarono la sua sensibilità durante il primo anno di permanenza in collegio, fino a isolarla.

    Quanto a me, ero una veterana, ormai quasi immune alle prepotenze e alle angherie. Anzi: mi ero costruita una bella corazza e vivevo in un confortante isolamento. Ma siccome sono un’ottimista, e anche una sognatrice, e allora lo ero ancor più, non avevo mai disperato di incontrare una persona con cui condividere i pensieri. Insomma: ciò che le ragazze del collegio chiamavano amicizia, e che io non conoscevo.

    Mi dedicai a studiare Elena. Silenziosamente e a lungo la osservai, perché mi incuriosiva quel suo essere diversa dalle altre. Come parlava, come si muoveva, come si comportava. Attivai le antenne a percepirne i suoni segreti: esaminavo i suoi occhi, in cui viaggiava sotto una vigile compostezza una marea impetuosa di sentimenti, il movimento ricorrente delle sue mani a stringersi sul cuore, i quasi impercettibili cambiamenti di umore. E finii col leggere nel suo isolamento un così sconfortato bisogno di affetto e di parole che decisi: saremo diventate amiche. La sua solitudine, del resto, rifletteva la mia.

    Amiche adolescenti e amiche ancora.

    Per chi ha sperimentato una amicizia vera non occorrono parole per descriverla, sebbene ogni amicizia, per forza di cose, si nutra, si accresca, si rinsaldi in modi diversi. Ma l’essenza è quella: è la certezza della fiducia reciproca, è il respirare insieme.

    Adesso Elena è moglie e madre di ben sette figli, mentre io né mi sono sposata, né tantomeno ho avuto figli.

    Questo calessino sulla strada polverosa mi sta portando da lei, là in quella villa in campagna dove trascorre da quando si è sposata i mesi estivi.

    Da parecchi anni non ci vediamo, era da poco iniziato quel massacro, la guerra, perché io sono una girovaga, gitana lei mi chiama, o pellegrina, mentre Elena è serenamente sedentaria e abitudinaria. Ma la corrispondenza, fittissima, ci ha tenute legate e informate.

    Ho trascorso nella sua casa di campagna molte estati, ho visto nascere e crescere quasi tutti i suoi figli e con profondo compiacimento ho accertato nel tempo di quale amore reciproco siano capaci quella moglie e quel marito.

    Adesso, lo ammetto, sono emozionata. Di rivederli, certo, e ritrovare dopo tanto tempo e i tanti accadimenti il tepore e la certezza dell’amicizia; ma c’è qualcosa in più, che affiora alla coscienza proprio ora, ora che la città è lontana e dai bordi della strada ciottolosa han cominciato a snodarsi i filari delle viti, ad affacciarsi i cipressi. Negli occhi, nelle narici, perfino nel palmo delle mani, insomma ovunque i sensi arrivino, mi scopro a ravvisare un’identità dimenticata, sepolta da eventi e anni di lontananza, ed è l’essenza della campagna che emerge con l’urgenza di un bisogno: quei profumi, nuovi e diversi a scandire le ore della giornata; la luce dell’alba che irrompe dalla finestra quando i passeri ti svegliano col loro chiasso; le mosche, i tafani, le serpi, le rane, e la mucca che grida quando figlia, e l’asino testardo col suo raglio discordante; le ragnatele intessute da un ramo all’altro come ricami nel folto della selva; il fieno increspato dal vento, il giallo solare del granturco messo a essiccare sul muro scrostato; la campana del villaggio che guida i ritmi secolari delle famiglie e il rincorrersi delle lucciole sui campi di grano, il frinire dei grilli e il chiasso ipnotico delle cicale e la luna pura e mutevole sulla cresta dei salici; il sole che spacca le zolle e la riconoscenza del contadino per la pioggia, la sua paura quando grandina.

    E sentirti parte di un tutto, mai sola.

    Prima parte

    Quando dal pesco cade un petalo,

    io partecipo a una fugace eternità.

    Non appena avvistai la curva a gomito che la strada disegnava vicino all’ansa del fiume, e che tracciava un confine ideale fra la via maestra e il percorso verso la villa, avevo il cuore in gola e impigliate negli occhi immagini del passato. Curiosamente erano i particolari a ripresentarsi, le minuzie, le sfumature; come mi fossero restate nell’anima, cicatrici buone, minuscole orme segnaletiche capaci di riaccompagnarmi sui percorsi vissuti. A cominciare da quelle roselline rosse a mazzetti, piccole e folte, profumatissime, che sembra quasi sboccino e si sviluppino con la vocazione a colonizzare tutti i vecchi muri spolverati dal tempo, lì in campagna, ed erano la prima macchia di colore, abbracciata al muro di cinta, che si presentava al visitatore. Il tetto aranciato della chiesina, a ridosso del cancello d’entrata, col suo volo di cornacchie quando veniva suonata la campana, brandelli di stracci neri inseguiti dal vento. La curva elegante dei cipressi che accompagnavano alla villa. Il profumo di pane stagnante sui forni e nelle aie dei contadini, mescolato al sentore di stalla. Iolanda china nell’orto, il suo sorriso sdentato. Il cagnolino di Angelo di guardia al cancello. Il calore dei mattoni sotto i piedi nudi sulla terrazza, al calar del sole. La fluorescente testimonianza del passaggio di una lumaca sul muro dell’orto in una notte di luna. I suoni ondivaghi percepiti nel dormiveglia, quando il buio dà voce alla selva.

    Forse sono proprio i particolari a fermare, attimo dopo attimo, il mosaico complessivo nella memoria.

    A quest’ora li trovo di certo nella chiesetta, mi dissi, abitudinari come sono avranno mantenuto la consuetudine di invitare il sabato don Fabio a recitare il rosario nella cappella, poi di sicuro lui si fermerà a cena… e quanto mangia quel prete! Deve aver patito tanta fame da ragazzo. E sorrisi.

    Il cancello era aperto.

    Feci depositare i bagagli all’interno del muro di cinta, pagai il vetturino e mi guardai intorno.

    Nessuno. Neppure il cagnolino.

    Beh, eccomi qua. Un momento, ho bisogno di un momento per me, sola, a dipanare le emozioni.

    E intanto mi guardavo intorno nel timore che la realtà si scontrasse col ricordo; ma le immagini, via via, si sovrapponevano rassicuranti, come su carta copiativa, al paesaggio di cui serbavo memoria, nonostante notassi alcune novità.

    Hanno messo la ghiaia sul viale che porta alla villa, buona idea, e i cipressi, quanto sono cresciuti!

    E continuavo a volgere lo sguardo qua e là, colpita dall’aspetto di quella campagna, inalterata e costante, quasi possedesse una tenacia, un’ostinazione atavica a contrastare le trasformazioni convulse degli ambienti e paesaggi cui ero abituata.

    Ma tu guarda come tutto è sostanzialmente uguale, incredibile… le siepi di bosso qui ai lati, il filare dei cipressi, la casa di Angelo e Nunzia laggiù, circondata dai pergolati… uva fragola, sì, e la casa di Paolo e Assunta, col suo profumo di pane; e i campi, curati come un giardino. La villa non la vedo; allora invece si scorgeva già dal cancello, ma ormai è nascosta dai cipressi. Oh, una presenza umana finalmente! Quell’omino nel campo che falcia l’erba deve essere Angelo, sì è proprio lui. E il ragazzo accanto al carretto chi sarà? Non può essere che Rocco.

    Presi dalla borsetta un fazzoletto profumato e me lo passai sul collo sudato, poi cercando di non far rumore sulla ghiaia mi avvicinai alla cappella e sbirciai fra i tasselli di vetro bianco e rosso a losanghe della finestrella. Nell’instabile gioco di luce che creavano presero dapprima forma i contorni, poi le fisionomie.

    Eccolo, quel profilo da rapace che potrebbe indurre in errore chiunque. Ma in realtà è solo un profilo, una casuale combinazione di tratti: naso adunco, labbro superiore volitivo, un mento pronunciato ed energico. Del rapace Giorgio ha ben poco, basta guardarlo quando sorride, pensavo. Impettito e serio, la fronte corrugata, sembrava concentrato su una preghiera interiore.

    Alla sua destra Elena, le mani intrecciate in grembo, colpita in quel momento dal balenio rossastro che il minuscolo rosone riverberava. Una mossa leggera a farsi scudo con la mano, il naso che si arricciava. Le labbra piene restavano semiaperte nel mormorio delle preghiere.

    Colsi a poca distanza da lei il movimento in avanti di una testa, poi di un corpo che cercava forse una posizione più comoda ed ecco comparire Paolo, gli occhi socchiusi e lo spirito predisposto ad assurgere ai mondi angelici, come sempre; e al suo fianco Trise, ingobbita sulla corona del rosario a mormorare giaculatorie.

    Le ragazze! Quella è Rachele, la dolce Rachele.

    Dietro genitori e zii Rachele sedeva composta tenendo fra le sue la mano di una bambina in un vestitino di pizzo rosa, guizzo di gioia nella monotonia dei colori spenti degli abiti delle sorelle.

    La piccola, l’ultima nata, Alice… lei sì che è una sorpresa, stava nel pancione di Elena quando sono partita.

    Il mio sguardo errava con sempre maggiore curiosità sulle altre figure che sbucavano dalla penombra. Una sorpresa dietro l’altra.

    Possibile? Già così grandi? Vediamo, quella è certamente Sara, perdiana, quanto somiglia alla madre, stesso profilo, identica linea del collo, un cigno. È bellissima! Birbona, si è messa a bisbigliare nell’orecchio di… Mascia, certamente. Irriconoscibile, è quasi una donna. Non riesco a vederla in viso, ma che cascata di capelli!

    E mentre Mascia e Sara continuavano il loro dialogo furtivo, una figurina accanto a loro appariva attenta a captarne qualche briciola.

    Lilli, ah, Lilli il maschiaccio!

    Nelle sue lettere Elena mi raccontava, fra il preoccupato e l’allegro, di questa bambina che sembrava quasi a disagio nella sua dimensione femminile e correva sempre appresso ai fratelli e ai loro amici.

    E Lilli la curiosa, l’investigatrice!

    Quest’ultima informazione me l’aveva invece fornita Paolo, col quale scambiavo qualche lettera ogni tanto, cui era assegnato il compito di seguire i nipoti negli studi, e che spesso rimaneva stupito dalle domande e dallo spirito critico della nipotina.

    I maschi della famiglia, eccoli là in ultima fila.

    Giò! Caro, dolce Giò come sei cambiato, eri una botticella da piccolo e ora sei un giovanottino smilzo con un pomo d’Adamo che non finisce più!

    Proprio in quell’attimo Giò si volse nella mia direzione come mi avesse sentita, ma in realtà stava dicendo qualcosa al fratello. A Pietro, che gli rispose con una linguaccia.

    Come da copione! E mi trovai a sorridere. Quel bambino era la dannazione dei genitori: ribelle, spavaldo, temerario, un autentico somaro a scuola.

    " Per eundem Dominum nostrum..." Cantilenante la voce nasale di don Fabio si avviava alla conclusione.

    Una serie di amen dai toni diversi e il rumore di sedie e panche spostate.

    Ecco, le preghiere sono finite e ora escono…

    Uno sfarfallio nello stomaco, un senso di disagio. Qualcosa di simile a quando sogni una persona perduta e ti dibatti in una dimensione incerta, ambigua, disorientante, perché seppure tu viva quegli attimi con le emozioni di sempre, al contempo si palesa, con sotterranea perfidia, la consapevolezza della sua morte. E in realtà ero come strattonata tra passato e presente, quasi priva di una percezione concreta di dove mi trovassi.

    Ma c’era di più, c’era l’entusiasmo, la voglia di buttarmi fra le braccia di quella famiglia che amavo e insieme la trepidazione per il riverbero delle loro emozioni, aspettative, curiosità.

    Decisi di concedermi ancora del tempo e indietreggiai dietro un folto cespuglio di alloro. Celata dalle fronde vidi uscire di chiesa Mascia e Sara a passo svelto togliendosi il fazzoletto dal capo con gesto stizzito e proprio a pochi passi da me, ignare della mia presenza, fermarsi a parlare.

    Che caldo, oddio, ho tutti i capelli appiccicati! Mi sento una medusa!

    Una medusa? Che strano paragone, ma lasciamo perdere. Del resto anch’io non ne potevo più! Don Fabio recita le preghiere con una lentezza esasperante. Prega e suda, si asciuga il sudore e prega. Insopportabile!

    Eh, questa del rosario è una croce. E per giunta prima di cena, quando oltre agli amen senti qua e là i borbottii dei vari stomaci. Quello di zio Paolino poi gorgoglia in modo strepitoso, l’hai sentito?

    E ridacchiarono.

    Già. A volte mi chiedo se da grandi diventeremo anche noi bacchettoni come loro.

    Spero proprio di no. Ma che dicevi di Rachele? Ti sei interrotta bruscamente.

    Per forza. Non hai visto come ci stava ad ascoltare Lilli?

    Eh, quella lì è curiosa. Osserva tutto e non le sfugge niente.

    Insomma, per farla breve, sembra che Tullio vada via, suo padre gli ha trovato un buon posto in banca a Roma.

    No! Povera Rachè, e ora? Già quei due camminano sul filo del rasoio, se poi ci metti la distanza… Ma zitta, zitta! Stanno arrivando mamma e papà, avviamoci a casa così mi racconti tutto in santa pace.

    Le ragazze si allontanarono e io mi avvicinai lentamente alla porta della chiesa, annotando mentalmente quella prima novità, Rachele e Tullio.

    Dalla penombra emersero nella luce calda del sole calante Elena e Giorgio, a braccetto.

    Elena, Giorgio…

    Tanto rapide furono le diverse emozioni che si alternarono sul bel viso di Elena che non riuscii a decifrarle. E non le ricordo neppure. Ricordo solo il suo abbraccio e le lacrime che mi bagnavano il viso, sue e mie.

    Allora sei arrivata, sei qui, cara, cara amica mia.

    Al di là dell’abbraccio di Elena intravedevo il marito, fermo a pochi passi da noi, che ci osservava col suo mezzo sorriso. Intanto una piccola folla ci aveva circondate, i figli e le figlie, sui visi più che altro curiosità. E mi squadravano con l’impudenza della gioventù, in un modo che quasi mi imbarazzava. Ma era comprensibile, pensai, dal momento che erano trascorsi tanti anni da quando li avevo lasciati e la confidenza di un tempo era evaporata dai loro ricordi.

    Tu sei la zia che non ho mai conosciuto, vero? Fu la piccola Alice a spezzare il silenzio, dopodiché anche i fratelli e le sorelle si avvicinarono a salutarmi, ma con riserbo.

    Ragazzi fate largo! Gemma, lascia che ti abbracci, vieni qui, piccolo animaletto randagio. E Giorgio, facendosi strada tra i figli, mi strinse fra le braccia robuste ridacchiando. Percepii la sua forza, la sua virilità protettiva e per un istante, solo un brevissimo istante, provai un imbarazzante senso di invidia per la mia amica.

    Troppo tempo, davvero troppo tempo! mormorava.

    Sai come son fatta, ma poi torno sempre all’ovile.

    Come sempre discreto, Paolo attendeva in disparte che le emozioni si stemperassero e dopo che Elena e Giorgio ebbero concluso le loro effusioni mi si fece incontro zoppicando, le braccia tese.

    Ci sei mancata veramente, cara, ma ora siamo di nuovo insieme tutti quanti. Oh, quanti chiari di luna ci aspettano da qui in avanti!

    Si riferiva a una nostra consuetudine, persa nella memoria ma all’improvviso riaffiorante alla coscienza portandosi dietro un senso di pace: le lunghe serate sulla terrazza a guardare il cielo, a individuare e dare un nome alle costellazioni, a discutere della mutevolezza della luna e della disposizione dei pianeti e di cosa può nascondersi nel linguaggio degli astri; per arrivare ogni volta, inevitabilmente, a interrogarci sugli enigmi racchiusi nell’universo, a imbastire cocciutamente congetture ogni sera diverse sull’origine della vita, sul suo senso, sull’esistenza di un aldilà, fino allo sfinimento, alla rassegnazione. La mente umana, cara Gemma, non è in grado di gestire il concetto di infinito, dobbiamo sospendere il giudizio, era spesso la conclusione di Paolo.

    Risposi con tenerezza all’abbraccio di quell’uomo dal volto pallido e paterno, dall’intelligenza balenante, fisicamente gracile ma saldo e vigoroso nelle sensibili pieghe dell’animo. E non potei fare a meno di paragonare il suo abbraccio un po’ tremulo a quello robusto del fratello, acclarando una volta di più a me stessa come si può nascere da uno stesso utero ed essere assolutamente diversi.

    Paolo, ho un’infinità di argomenti da sviscerare con te, preparati!

    Lo immagino, Gemma, i tuoi viaggi… tu non sei una che si muove solo per diletto e i viaggi rappresentano un’immersione salutare in mondi sconosciuti. Ti ascolterò con vero piacere.

    Intanto ci raggiungeva Trise, portandosi appresso la sua timidezza, che mi strinse forte le mani. Negli occhi grigi brillava una dolce commozione che per me valse come cento parole affettuose, che del resto non sarebbe mai stata in grado di pronunciare.

    Fu poi il turno di don Fabio, appena appena uscito di chiesa sventolando un gran fazzoletto con cui si asciugava il sudore dal faccione pieno, tutto un sorriso. Venne verso di me preceduto da un ventre prorompente che non c’era qualche anno prima, e mi riempì di coccole e complimenti come fossi una bambina. La sua indole buona e semplice lo faceva forse sentire in dovere di mettermi a mio agio e io lo ricambiai con effusioni quasi infantili.

    Ma dove sono i tuoi bagagli? Elena si guardava intorno preoccupata.

    Al cancello, giusto l’indispensabile, ma domani arriverà il resto.

    I ragazzi corsero via e tornarono con valigie e cappelliere.

    E ora tutti a casa! Giorgio prese il braccio della moglie, lei il mio e ci incamminammo.

    Non potei fare a meno di notare lo sguardo compiaciuto di Giorgio mentre guardava i suoi campi. Sapessi, Gemma, come vorrei restare più a lungo qui… Poi, alla moglie: Ma guarda, Elena, guarda il sole come arrossa le nostre colline. È un’ora bellissima per far due passi insieme, e non ce lo concediamo quasi mai. Sembrava annusare come un felino l’odore della sua terra, sul volto una specie di malessere, forse malinconia.

    Per forza, stai sempre chiuso in negozio, là in città, e quando vieni ti inventi mille impegni. E le mucche, e i maiali, e la potatura degli ulivi, e gli innesti, e... Elena agitava le mani, esattamente come faceva da ragazza, per caricare i concetti.

    Lo so, lo so, la interruppe con impazienza il marito, andrei a caccia, starei coi miei figli e con te, mia diletta, ma non è un momento facile per noi al commercio, te ne ho già parlato. È necessaria la mia presenza, i commessi non possono sostituirmi, capisci bene. I gusti cambiano e bisogna adeguarsi, talvolta anticiparli, il che richiede impegno e tempo. E non dimenticare che la guerra ha impoverito tante persone, si vende poco, perciò bisogna inventarsi qualcosa che possa attirare l’attenzione. Per non parlare dell’aria che si respira! Si interruppe e si fermò. Elena e io facemmo altrettanto. Sembrava turbato e proseguì concitato: Risse quasi ogni giorno. E allora dai a sprangare il negozio, ad aspettare che finiscano i tafferugli. Con questo clima la gente non va più a spasso come un tempo, non si concede più il gusto di fermarsi a guardare i negozi, è circospetta, si rintana in casa. Sai Gemma, e rivolse a me il suo sguardo turchino, che due giorni fa proprio davanti al negozio c’è stata una zuffa tremenda? Urla, tonfi, gemiti. Qualcuno è corso a chiamare le guardie e indovina un po’ che gli hanno risposto? Che hanno impegni più urgenti. Giorgio tacque, come a inseguire e mettere a punto una riflessione. Talvolta mi sembra davvero che il diritto sia ormai lettera morta, che la facciano da padrone solo l’arbitrio e la prepotenza. È preoccupante, care ragazze mie, molto. Sembra proprio che questa stramaledetta guerra abbia inasprito tutto, e non solo qui da noi, anche in molti paesi europei. Tu sei stata in Inghilterra, no? Come vanno le cose lì?

    Veramente l’ultimo viaggio mi ha portata in Austria e ti posso garantire che se la passano male anche loro.

    Ma loro hanno perso la guerra! Noi la guerra l’abbiamo vinta, eppure… Via, andiamo a casa che comincia a esser tardi. Riprendemmo a camminare.

    Poco dietro di noi don Fabio adeguava per ossequioso dovere il passo a quello di Paolo, che sentivo chiedergli circostanziate delucidazioni su certi passi del Vangelo a lui poco chiari. Ma don Fabio doveva aver fame e le sue spiegazioni si fecero a ogni passo meno soddisfacenti, seguendo forse il buon prete più gli spasmi dello stomaco che i contorcimenti spirituali dell’anziano compagno di viaggio il quale, forse deluso dalle risposte affrettate, dette licenza al prete: Andate, don Fabio, andate avanti che io sono lento e voi giovane e in forze. Avrete sete e anche appetito, a casa troverete certamente un rinfreschino.

    E don Fabio non se lo fece dire due volte, allungò il passo, ci raggiunse e ci oltrepassò.

    Girai il capo per vedere come l’aveva presa Paolo e scorsi Trise che si affiancava al fratello con un sorrisetto sagace.

    E don Fabio?

    Eh, cara mia, il nostro parroco è interessante solo quando ha la pancia piena. E sorrise benevolo. Poi: Guarda quei due piccini come spiccano il volo!

    Pietro correva insieme a Lilli lungo i viottoli che si snodavano fra i campi, e gridava a pieni polmoni ogniqualvolta una nube di grilli si sollevava fra i suoi piedi mentre volava agile da una proda all’altra, quasi un grillo lui stesso. Saltava agli occhi quanto fosse catturato dal senso di libertà che la corsa nell’erba alta gli procurava, e la sorellina condivideva con lui quel modo esuberante e chiassoso di godersi la vita. Le rondini si abbattevano veloci dall’alto, nere strisciate nel tramonto, mentre gli occhi dei due bambini correvano selvaggi, insaziabili, per la campagna.

    Una lieve curva ed eccoci alla villa, che si offrì ai miei occhi nella sua eleganza misurata, la scalinata doppia che si apriva sull’arco delle cantine e culminava con la spaziosa terrazza sovrastata dalla cupola di gelsomino. L’ocra della facciata imprigionava in quel momento i raggi del sole morente quasi con prepotenza e riverberava sui coppi che ospitavano i limoni. Il vecchio glicine si sposava a rose vermiglie a incorniciare la porta delle cantine.

    Eccoci a casa, Gemma. Guarda, la riconosci? Elena mi strinse il braccio.

    È la stessa di sempre, non avete cambiato nulla e ve ne sono grata. La casa più accogliente del mondo!

    Mascia e Sara, che per essere arrivate per prime non mi avevano ancora vista, mi corsero incontro festose e prendendomi ciascuna una mano mi accompagnarono per l’ultimo tratto.

    Le due scale gemelle che portavano alla terrazza si popolarono e chi a passo lento, chi veloce, chi da un lato, chi dall’altro, i membri della famiglia salirono i gradini e si riunirono, intorno a me e a don Fabio, il consueto ospite del sabato sera, per un rinfresco prima di cena.

    Si attardavano mosche e vespe sotto il pergolato di gelsomino e il loro sussurro alato faceva da contrappunto alle chiacchiere dei convitati, allegri coi loro bicchieri in mano a respirare la brezza profumata che veniva da lontano, attraverso una foce fra le colline, veniva dal mare.

    Io osservavo in silenzio, ancora un po’ estranea. Sentivo di aver bisogno di qualche minuto in più prima di rituffarmi in quel mondo.

    Elena, posso fare un giretto in casa mentre voi continuate le vostre chiacchiere?

    Vuoi che ti accompagni? Desideri andare in camera? Ti vuoi riposare?

    No, ho solo voglia di riappropriarmi di queste stanze, delle atmosfere. Preferisco farlo da sola.

    Già, dimenticavo che fai sempre così, sei unica! Nomade ma nostalgica. Sembra quasi che al momento della partenza tu nasconda qualcosa negli angolini più segreti e quando torni li vada a ripescare. E mi batteva l’indice sul braccio.

    Forse è proprio quello che faccio.

    In effetti qualcosa di prezioso si lascia sempre quando partiamo, e al ritorno siamo spinti a cercarlo: un sorriso, una espressione, un sentimento.

    Lasciai la terrazza col passo lento di chi fa i conti con le emozioni, ma prima di entrare in sala indugiai sulla soglia per lanciare un’occhiata dall’alto ai campi coltivati raccolti nel perimetro verdeggiante dei vigneti, agli oliveti che raggiungevano la linea azzurrognola delle colline, poi mi insinuai senza fretta nella penombra della grande stanza che si estendeva da un lato all’altro della casa, coprendo tutto il primo piano.

    Era un vasto ambiente dai soffitti alti e le pareti decorate con leggeri affreschi floreali e lì si svolgeva prevalentemente la vita della famiglia.

    Sul lato più interno, in corrispondenza della porta che apriva sul corridoio delle scale che scendevano alle cucine e agli alloggi della servitù, la zona pranzo si palesava con un maestoso tavolo in legno di ciliegio intarsiato circondato dalle solide sedie chiamate pattone. Una credenza primo Ottocento mostrava serviti di tazze e bicchieri di pregio e alcuni ninnoli di porcellana cui Elena era morbosamente affezionata perché facevano parte della sua dote ed erano appartenuti alla mamma e a zie cui aveva voluto bene. A fianco della credenza si apriva la porta che conduceva all’ampio ingresso da cui si saliva al piano di sopra. Su un tavolo ovale, attorniate da vasi giapponesi sempre traboccanti di fiori, bottiglie di varie dimensioni e colori e vassoi con minuscoli bicchieri ambrati invitavano a un dopocena sereno.

    Nella zona opposta, verso la terrazza, il divano rococò dalla tappezzeria di un turchese scolorito era attorniato da poltrone nello stesso stile e da sedie imbottite dagli schienali scomodi, colonnine di un nero scrostato; tre tavolinetti da lavoro, di quelli apribili dall’alto, e un pianoforte a mezza coda stipato di fotografie completavano l’arredamento di quello spazio.

    Sfiorando con la punta delle dita le cornici dei portaritratti mi accomodai su una poltrona e lasciai vagare lo sguardo fra il pulviscolo ambrato. Alle pareti i soliti quadri con ritratti di famiglia si alternavano ad acquerelli di paesaggi campestri che non c’erano prima.

    Gli acquerelli di Giò! Elena ne parla sempre nelle lettere, ne è davvero orgogliosa, ma ha ragione: ha proprio una buona mano quel ragazzo! Speriamo la coltivi. Ah, i ventagli

    E mi tornò in

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