Non sapeva neppure ballare
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Anteprima del libro
Non sapeva neppure ballare - Antonio Paviglianiti
Indice
Introduzione
Meno di un secondo
Niente più gli apparteneva
La prima speranza
Laura
Rabbia e rancore
Vita nuova
Stefano
Fottuta paura
Come un bambino
Il buio
Tornare a vivere
Riflessioni
Di nuovo a casa
NOTE DELL’AUTORE
Antonio Paviglianiti
NON SAPEVA NEPPURE BALLARE
ISBN | 9788827842867
Questo libro è stato realizzato con PAGE di Youcanprint
Youcanprint.it
A mio padre e mia madre
loro insieme....
si che sapevano ballare
"È scritto in modo indelebile
nel nostro cuore
e un giorno, come per miracolo,
inizia a respirare
per sorprenderti e sorprendere"
A.P.
Introduzione
Oramai la nostra esistenza è guidata non più da rapporti umani ma da rapporti con umani attraverso strumenti che scandiscono la nostra vita quotidianamente, rendendoci sempre di più esseri singoli che interagiscono attraverso il proprio smartphone.
È lui che detta i nostri ritmi: possiamo stare senza cibo, senza bere ma dobbiamo avere in mano il nostro amato strumento al quale deleghiamo tutta la nostra vita, i nostri segreti, le nostre idee, i nostri limiti e le nostre perversioni.
Ho vissuto questo fenomeno fin dagli albori e vi assicuro che nessuno avrebbe mai immaginato quanto il nostro vivere, pensare, agire, sarebbe stato traviato da una scatolina che all’inizio ci sembrava enorme, pesante e troppo voluminosa da portare con sé.
La tecnologia si adoperò per farla diventare sempre più piccola, e più la possedevi piccola e più eri alla moda. Fino al giorno in cui un visionario americano inventò il primo smartphone che era stato creato, a suo dire, per rendere migliore la qualità della nostra vita.
L’idea non era male, direi geniale, ma sono sicuro che neppure lui ˗ che da molti anni guarda la sua creatura crescere dall’alto dei cieli ˗ avrebbe potuto immaginare che a distanza di poco più di dieci anni, quello strumento che doveva migliorare la nostra vita si sarebbe trasformato nella nostra stessa vita.
Da quel momento ci fu un cambiamento di rotta radicale, dalla ricerca di quello più small si passò all’ossessione di doverlo avere più big. Ossessione che noi ragazzi del ‘68 abbiamo sempre avuto per qualcosa che non ha nulla a che fare con la tecnologia.
La legge di mercato detta le sue leggi e anche stavolta furono sfornati smartphone sempre più grandi, più tecnologici e più invasivi.
Se oggi chiedete a un ragazzo di cosa ha bisogno nel suo quotidiano, una fetta molto più grande di quello che immaginiate vi risponderà: una connessione.
Giornalmente assistiamo alla metamorfosi di questo fenomeno sia che siamo su un treno, in una sala d’aspetto o in un ristorante, non c’è luogo al mondo dove ogni singolo individuo, una volta seduto, non tiri fuori lo strumento che oramai è diventato la sua protesi, perché gli dà sicurezza e lo fa sentire protetto. E non c’è alcuna distinzione fra maschi e femmine, adulti e adolescenti, mamme e padri, fidanzati e sposati: tutti si tuffano dentro quello schermo.
Ho visto persone far aspettare il cameriere per l’ordinazione solo perché dovevano rispondere a un messaggino, o, per lo stesso motivo, saltare la fermata del pullman; ho visto mamme ignorare le proprie creature o peggio innervosirsi se il proprio bambino le disturbava; ho visto gente parlare non al cellulare ma con il cellulare. Fino ad arrivare a vedere esseri umani di ogni età cercare i Pokemon in giro per le città, non ammirando più le bellezze architettoniche ma avvicinandosi alle stesse solo perché qualcuno ha detto che così è più facile catturare i mostriciattoli; inoltre ho visto anche persone che, una volta riuscite nell’impresa, esultavano e non vedevano l’ora di condividerla su qualche piattaforma social.
Venti anni fa si andava a un concerto per ascoltare dal vivo l’artista che attraverso la musica ci donava sensazioni forti, a volte persino devastanti… mi viene da pensare ai Beatles, quando spesso il personale medico era costretto a intervenire per risolvere situazioni critiche provocate da forti emozioni.
Chi capitava accanto a noi al palasport diventava quasi sicuramente un nostro amico. Di sicuro ci si abbracciava, si saltava insieme, si cantava insieme, si piangeva insieme. Facevamo ore di fila per accaparrarci i posti più vicini al palco, per essere accanto al nostro idolo e non perderci alcun particolare dello spettacolo.
Oggi nessuno più si gode un concerto. Siamo tutti con lo smartphone in mano per registrare la canzone, canzone che abbiamo già da mesi nel nostro MP3.
Ma quella è diversa; ignoriamo chi ci sta accanto, non ci ricordiamo se è maschio o femmina e posiamo sempre meno gli occhi sul palco. I giochi di luce e fumi, i musicisti che accompagnano l’artista, i ballerini e la coreografia, li vediamo a casa, solo dopo aver scaricato il video.
Fateci caso: nessuno guarda più il palco che ha a due passi, ma tutti lo guardano attraverso il display.
E questo succede anche allo stadio durante una partita di quello che è lo sport nazionale: paghi profumatamente per avere lo stesso risultato che avresti a casa.
C’è qualcosa che non funziona? Verrebbe da chiedersi: dove abbiamo sbagliato?
Ricordo quando veniva demonizzata la tv accesa mentre si pranzava o si cenava. I più tradizionalisti la pretendevano spenta e molti l’accendevano perché ˗ e questo resta un mistero ˗ all’ora di pranzo viene trasmesso il notiziario e, con la tv accesa, la famiglia intorno alla tavola commenta le notizie che arrivano dal telegiornale.
Oggi i notiziari sono diventati dei veri e propri bollettini di guerra e non è raro che, mentre assaporiamo una specialità culinaria, ci vengano trasmesse immagini cruente che fino a poco tempo fa facevano parte solo della fantasia di un regista horror.
I tg iniziano quasi sempre con storie di bambini dilaniati dalle bombe: ma noi continuiamo tranquillamente a mangiare, e non solo, c’è anche chi accanto al piatto ha l’amato smartphone che emette in continuazione il suonino
e, fateci caso, lo sguardo passa dalla tv al telefonino alla pietanza con una velocità incredibile, e la mano dalla posata allo smartphone con la stessa velocità.
Non voglio fare il moralista né dire che non ho fatto parte di questi soldatini tecnologici, anzi, all’inizio ero il peggiore. Voglio dire però che stiamo esagerando irrimediabilmente. Abbiamo perso il gusto di metterci alla prova anche nelle cose più stupide.
Oggi basta un’applicazione che, ironia della sorte, è l’identica parola che i maestri, i professori di una volta, usavano per definirti volenteroso e desideroso di conoscere. Adesso dipendiamo tutti dalle app: c’è poi da aggiungere che se queste applicazioni non le sappiamo usare diventano micidiali.
Pensate: molto spesso l’arrivo di un messaggio su WhatsApp riesce a turbare la serenità di una coppia fino a farla arrivare a gesti estremi: tutto può nascere da un suonino
o una vibrazione emessa dal nostro smartphone.
Perdiamo la percezione della vita reale: è sufficiente un decimo di secondo perché la tua vita cambi radicalmente, sia che tu abbia un telefono alla moda sia che tu non sappia neppure ballare.
Meno di un secondo
Un lampo forte come un flash lo svegliò. Non riusciva né ad aprire gli occhi né tantomeno a muovere un solo muscolo. Avvertiva delle persone intorno a sé ma non ne sentiva le voci. Era come se non avesse più corpo, ma solo sensazioni. Cosa sta succedendo, dove mi trovo?
. Si sentiva galleggiare sospeso nell’aria, leggero come una piuma in balia del vento, e un pensiero assurdo attraversò la sua mente: il mio corpo è diventato un palloncino
.
Questo perché appena qualcuno, o qualcosa, entrava nel suo campo d’azione, lui lo avvertiva non