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Il Virginiano
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E-book439 pagine5 ore

Il Virginiano

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Info su questo ebook

Il Virginiano è un giovane lavorante al ranch del giudice Henry, in Wyoming. Sulle prime, quando va a prendere il narratore alla stazione di Medicine Bow, sembra solo un cow-boy come tanti, alto, forte, incline agli scherzi.
L’arrivo in una vicina cittadina della giovane maestra Molly Wood sarà la spinta a cambiare. Mentre diventa sovrintendente del ranch, cerca di conquistare il cuore di Molly, che non è abituata al selvaggio West e intende respingere a tutti i costi il Virginiano.
Ma quando il cow-boy rischierà la vita in un agguato, e poi dovrà fronteggiare il suo nemico giurato Trampas in un’ultima sfida, la giovane si troverà davanti a una scelta di vita.
Trasposto più volte sul grande schermo, Il Virginiano è considerato il capostipite del genere western.
LinguaItaliano
Data di uscita15 gen 2020
ISBN9788899403850
Il Virginiano
Autore

Owen Wister

Owen Wister (July 14, 1860 – July 21, 1938) was an American writer and historian, considered the "father" of western fiction. He is best remembered for writing The Virginian and a biography of Ulysses S. Grant.

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    Anteprima del libro

    Il Virginiano - Owen Wister

    A THEODORE ROOSEVELT

    Avete visto alcune di queste pagine, ne avete lodate alcune, una è riscritta perché l’avete disapprovata e tutte, mio caro critico, vogliono ricordarvi l’immutabile ammirazione dell’autore.

    I.

    Appare l'uomo

    Qualcosa attraeva l’attenzione dei passeggeri, uomini e donne, perciò mi alzai, attraversai lo scompartimento e mi affacciai al finestrino: accanto ai binari sorgeva una palizzata. Tutto intorno, c’erano uomini che ridevano e dentro, in una nuvola di polvere, cavalli che s’impennavano, sgroppavano e scalciavano. Uno di questi cavalli aveva deciso di non lasciarsi prendere. Avevamo il tempo di osservare con comodo lo spettacolo nel corral perché il nostro treno faceva rifornimento d’acqua al serbatoio, prima di raggiungere la stazione di Medicine Bow. Eravamo anche in ritardo di sei ore e molto annoiati, desiderosi di una qualsiasi distrazione. Il pony nel corral era astuto e agilissimo, sorvegliava il suo antagonista con occhio attento, chiunque fosse. L’uomo fingeva di guardare il cielo o di parlare animatamente con un compagno, ma il pony non si lasciava ingannare, era decisamente un dritto. Non perdeva d’occhio il suo nemico, con una strana espressione che rendeva lo spettacolo divertentissimo. Poi la fune arrivava dall’alto, ma il cavallo era già in un altro punto del corral. A volte faceva un giro da solo, poi si infilava velocissimo nel gruppo e tutti insieme, come un banco di pesci scherzosi, partivano al galoppo, in una nuvola di polvere accompagnati dalle divertite imprecazioni dei cow-boy. Uno degli uomini che stava seduto sulla palizzata del corral balzò a terra coi movimenti ondulanti di una tigre, agile e disinvolto, come se i muscoli gli scorressero sotto la pelle. Avevo visto gli altri roteare la fune, alcuni all’altezza della spalla, ma non vidi il suo braccio sollevarsi o muoversi, forse teneva la fune in basso, contro la gamba, poi, come un serpente, il cappio volò in aria e raggiunse il bersaglio. Il nostro treno si mise lentamente in moto e uno dei passeggeri osservò: «Quell’uomo sa il fatto suo».

    Dovevo scendere a Medicine Bow: poco dopo salutai i miei compagni di viaggio e scesi, straniero nella Terra del Bestiame, e meno di dieci minuti dopo ebbi una notizia che mi fece sentire ancora più straniero.

    Il mio bagaglio era andato perduto, non si trovava a bordo del treno e probabilmente andava alla deriva chissà dove, lungo i tremila chilometri che avevo percorso. L’uomo del bagagliaio mi disse che spesso i passeggeri si perdevano per la strada, ma alla fine i loro bauli riuscivano a ritrovarli. Dopo avermi così rassicurato, si dedicò fischiettando alle sue faccende e mi piantò in asso tra casse e scatoloni, col mio inutile scontrino in mano, furente e smarrito. Guardai il cielo e la pianura, ma non vidi l’antilope balzare tra i cespugli di sage-brush né la grandiosa luce del tramonto del Wyoming. L’irritazione mi rendeva indifferente a tutto, pensavo soltanto al baule scomparso e stavo borbottando a mezza voce: «Che razza di buco è questo!» quando all’improvviso, dall’esterno, sentii dire con voce strascicata:

    «Vai via a sposarti di nuovo? Oh non farlo!»

    La voce era dolce, dall’accento del sud. Un’altra rispose subito, roca e querula:

    «Macché di nuovo. Chi dice che è di nuovo? E poi chi te lo ha detto, insomma?»

    E la prima voce rispose dolcemente:

    «Ma il vestito della domenica, zio Hughey. Grida nozze a gran voce».

    «Non scocciarmi!», strillò zio Hughey furente.

    E l’altra continuò nello stesso tono: «E i guanti non sono gli stessi che portavi per l’ultimo matrimonio?»

    «Smettila di scocciarmi! Smettila di scocciarmi!», urlò zio Hughey.

    Avevo bell’e dimenticato il baule; vedevo il tramonto e desideravo ascoltare quei due che parlavano in un modo che mi era completamente nuovo. Andai alla porta e guardai fuori.

    Appoggiato al muro, c’era un giovane gigante, snello, bello da non dirsi, col grande cappello spinto all’indietro, un fazzoletto rosso annodato al collo e una mano posata sulla cartucciera agganciata intorno ai fianchi. I calzoni e gli stivali bianchi di polvere dicevano che aveva percorso molti chilometri. La faccia abbronzata aveva il colore delle pesche e nell’insieme dava una sensazione di estrema giovinezza e di grande forza. Il vecchio, che le sue pacate parole rendevano così furente, era tirato a lucido e pettinato a perfezione, ma se fossi stato la sposa, avrei scelto il gigante, polvere e tutto.

    Non aveva ancora finito.

    «Ti sei appeso dappertutto gli addobbi nuziali!», osservò, con ammirazione. «E chi è questa volta la fortunata damigella?»

    Il vecchio vibrava per l’ira. «Ma se ti dico che non ho mai avuto una moglie! Adesso chiamami mormone, eh?»

    «Ma se…».

    «Chiamami mormone! Dimmi il nome di alcune delle mie mogli. Dimmene due. Dimmene una. Prova!»

    «La vedova di Laramie…».

    «Balle!»

    «Ma il dottore le ha ordinato all’improvviso un clima meridionale e…».

    «Balle! Apri bocca e gli dai fiato».

    «… e così tra voi ci si sono messi i suoi polmoni. E poi quasi ti sei sposato con Cattle Katy, soltanto…».

    «Te l’ho detto che apri bocca e gli dai fiato!»

    «… ma è finito che l’hanno impiccata».

    «E dove sarebbero queste mogli? Vediamole, le mogli! E piantala!»

    «Quella bambola di Rawlins, le hai dato il canarino…».

    «Mai sposata. Non mi sono mai…».

    «Ma ci sei quasi arrivato, zio! È stata lei che ti ha lasciato, ti ha scritto la lettera spiegando che si era sposata con un giovane giocatore di carte, proprio il giorno prima del vostro matrimonio e…».

    «Oh insomma, non sei altro che un bambino, non sei…».

    «E che non avrebbe mai, mai dimenticato di dar da mangiare al canarino».

    «Questo paese sta diventando pieno di marmocchi», dichiarò il vecchio indignato. «È la fine». Questa catastrofica dichiarazione parve soddisfarlo: socchiuse gli occhi e aspettò. Il suo tormentatore, con un’espressione di immutata serietà e con voce piena di sollecitudine, riprese:

    «E come sta quella disgraziata…».

    «Benissimo! Forza con gli insulti! Insulta una povera donna, ammalata, afflitta!»

    Gli occhi luccicarono di gioia bellicosa.

    «Insulti? Oh no, zio Hughey!»

    «Proprio così, insulti!»

    «Ma perché, ero così contento quando ha cominciato a recuperare la memoria. L’ultima volta che ne ho sentito parlare, dicevano che l’ha recuperata quasi tutta. Ricorda suo padre e sua madre e fratelli e sorelle e gli amici e la sua lieta infanzia e tutto quel che ha fatto, meno la tua faccia. La gente scommetteva che ci sarebbe arrivata, bastava darle tempo, ma immagino che dopo una malattia terribile come quella che ha avuto, è aspettarsi troppo».

    A questo punto zio Hughey tirò fuori un pacchettino. «Ecco quanto la sai lunga!», sghignazzò. «Ecco! Visto? Ecco l’anello che mi ha rimandato, visto che è troppo malridotta per un matrimonio. Non si ricorda di me, vero? Ah, ah! L’ho sempre detto che apri bocca per dargli fiato».

    L’uomo del Sud parlò con tono ancor più ansioso.

    «E adesso vai a portare l’anello alla prossima!», esclamò. «Oh, non andare di nuovo a sposarti, zio Hughey! A che serve essere sposati?»

    «A che cosa serve?», ripeté il promesso sposo, con sarcasmo. «Hmm, quando sarai grande la penserai in modo diverso».

    «Certo che penserò diverso quando avrò un’età diversa. Ho i pensieri adatti a ventiquattro anni e tu hai quelli di sessanta».

    «Cinquanta!», ululò zio Hughey, saltando in aria. L’altro assunse un tono desolato. «Ma come ho fatto a dimenticare che ne hai cinquanta», mormorò, «non lo so proprio! Sono dieci anni che continui a ripeterlo a tutti quanti!»

    Avete mai vista un cacatoa – il tipo bianco con il ciuffo in cima alla testa – gonfiarsi di rabbia? L’uccello drizza tutte le penne che ha sul corpo. Zio Hughey parve gonfiarsi vestiti, baffi e barba, e senza aggiungere parola salì sul treno diretto a est, che arrivava proprio allora nel momento giusto per liberarlo.

    Eppure c'era un motivo se non se n’era andato prima. In qualsiasi momento avrebbe potuto scappare nella sala bagagli o allontanarsi dignitosamente per aspettare il suo treno in solitudine, ma era evidente che quella schermaglia lo divertiva.

    Il treno ripartì verso est, lentamente, nella direzione dalla quale ero venuto. Lo guardai finché divenne piccolo nello spazio immenso, finché scomparve del tutto lasciandosi dietro soltanto un piccolo pennacchio di fumo, poi ripensai al baule smarrito e Medicine Bow mi parve un deserto… Come avrei fatto a trovare il ranch del giudice Henry? Come scoprire Sunk Creek in quell’immensa distesa di terra? Non vedevo torrenti o fiumi o altro. Il mio ospite aveva scritto che sarebbe venuto alla stazione, era tutto quello che sapevo. Ma non c’era. L’uomo dei bagagli non lo vedeva da tempo. Senza dubbio non avrei potuto raggiungere il ranch a piedi quella sera. Il baule… mi accorsi che guardavo ancora verso l’orizzonte, dov’era scomparso il treno e in quel momento vidi che l’uomo alto mi guardava con espressione seria, come aveva guardato zio Hughey durante la conversazione.

    Nel sentirmi osservato in quel modo, alla vista della mano sempre agganciata alla cartucciera, mi vennero alla mente certi inquietanti episodi narrati dai viaggiatori che erano stati da quelle parti. Ora zio Hughey se n’era andato, toccava a me, e magari sarei stato invitato a danzare al ritmo di pallottole ben centrate.

    «Immagino che sto cercando voi, signore», disse finalmente l’uomo alto.

    II.

    «Quando mi chiami così… sorridi!»

    Non risposi, perché ero incerto.

    «Immagino che sto cercando voi, signore», ripeté cortesemente.

    «Io cerco il giudice Henry», dichiarai.

    Venne verso di me e mi accorsi che non era veramente un gigante, non misurava più di un metro e ottanta. Accanto a zio Hughey mi era sembrato un gigante, ma negli occhi, nella faccia, nell’andatura aveva qualcosa di possente che chiunque, uomo o donna, avrebbe sentito.

    «Il giudice mi ha mandato a prendervi, signore», spiegò, con la sua cortese voce del sud e mi porse una lettera. Il suo aspetto esteriore faceva pensare a un carattere estremamente serio, ma poiché avevo assistito al divertente battibecco pensavo di conoscerlo abbastanza, di conoscere per così dire il suo segreto… e mi sentii a mio agio. Era un vero piacere trovarmi in compagnia di un robusto sconosciuto che invece di spararmi ai tacchi mi consegnava con molta cortesia una lettera.

    «Siete della vecchia Virginia, immagino», dissi.

    Rispose lentamente: «Avete immaginato bene, signore».

    Nonostante la freddezza, continuai in tono cordiale: «Ce n’è molta di gente stramba come zio Hughey da queste parti?»

    «Sì, signore, un bel mucchio di gente stramba da queste parti. Il treno ne sbarca di continuo».

    A questo punto rinunciai. «Vorrei che il mio bagaglio fosse arrivato con me», dissi e gli spiegai l’accaduto.

    Non parve sconvolto per il mio disappunto e si limitò a dire: «Lo aspetteremo in città».

    Quel che avevo visto della città, mi sembrava decisamente orribile: avrei preferito dormire nel ranch del giudice.

    «È troppo lontano per arrivarci stasera?», domandai.

    Mi guardò perplesso.

    «Questa valigia», spiegai, «contiene tutto quel che mi è indispensabile, posso fare a meno del baule per un paio di giorni. Se si potesse partire subito…».

    «Sono quattrocentottanta chilometri», disse il Virginiano e mi scrutò di nuovo, poi aggiunse: «La cena dev’essere quasi pronta». Prese la mia valigia e io lo seguii in silenzio, sbalordito.

    Mentre camminavamo, lessi la lettera del giudice, poche righe gentili: era desolato di non essere potuto venire di persona. Stava preparandosi a partire, ma un impegno improvviso lo aveva trattenuto. Mandava in sua vece un uomo di fiducia che si sarebbe occupato di me e mi avrebbe accompagnato a destinazione. Mi aspettavano tutti con ansia. Niente altro.

    Ero sbalordito. Come calcolavano le distanze in quel paese? Parlavano tranquillamente di andare in città e voleva dire… non sapevo ancora quanti giorni di viaggio. Chissà che cosa intendevano per passiamo a salutare. E quante miglia erano veramente lontano? Rinunciai a interrogare l’uomo di fiducia, visto che le mie domande, fino a quel momento, non avevano ottenuto molto successo. Non aveva intenzione di farmi ballare, però mi teneva a distanza. Perché? Che avevo fatto per provocare il suo velato sarcasmo a proposito della gente stramba che scendeva dal treno? Era venuto a prendermi, doveva badare a me e lo avrebbe fatto, portandomi anche la valigia, ma io non potevo scherzare con lui. Quel figlio della prateria, bello e sgrammaticato, aveva messo tra di noi una barriera di fredda cortesia. Una persona raffinata non avrebbe saputo far di meglio. Perché? Lo guardai e finalmente capii: se mi avesse trattato in modo confidenziale durante i due primi minuti del nostro incontro, me ne sarei risentito; perché pensavo di potermelo permettere? Il mio atteggiamento puzzava di superiorità e in quell’occasione lui si era dimostrato più gentiluomo di me.

    Tra la stazione e il ristorante pensai parecchio, poi cominciai a osservare sbalordito lo straordinario luogo nel quale il destino mi aveva scaraventato.

    La città, come la chiamavano da quelle parti, mi piaceva sempre meno. Ne ho viste molte sparse dappertutto, lungo la frontiera dalla Columbia fino al Rio Grande, dal Missouri alle Sierras, puntolini sopra un pianeta di nuda polvere, squallide, identiche, desolate: baracche, bottiglie vuote e immondizie. Sembrava che le avesse sparse così il vento, in attesa di tornare a riportarsele di nuovo, ma sporcizia e squallore erano immersi in una luce straordinaria, come quella del primo mattino della creazione; sotto il sole e le stelle, le notti e i giorni erano puri e meravigliosi.

    Medicine Bow, la mia prima esperienza, contava ventinove edifici in tutto: un deposito di carbone, un serbatoio d’acqua, la stazione, un emporio, due ristoranti, una sala per il biliardo, due officine, una stalla e alcuni stabilimenti di genere discutibile e molti avevano una falsa facciata in modo da sembrare alti due piani. Erano circondati da cataste di barattoli vuoti, ma sulla soglia di ognuno di essi cominciava un mondo di luce cristallina, una terra senza fine, uno spazio immenso dal quale avrebbero potuto uscire Noè e Adamo.

    Un tale uscì barcollando da una porta e salutò il Virginiano allungando la mano per afferrargli il cappello. Il mio compagno si scostò con un movimento agile e felino e in quel momento capii che era l’uomo del corral.

    «Come va, Steve?», esclamò con gioia.

    Steve mi guardò e distolse lo sguardo; tutto qui, ma bastava: non mi ero mai sentito tanto estraneo in vita mia.

    «Appena arrivato?», domandò al Virginiano.

    «Da mezzogiorno. Aspettavo il treno».

    «Torni fuori stanotte?»

    «Credo domani».

    «I letti sono tutti presi», disse Steve. Questo era a mio beneficio.

    «Oh santo cielo», dissi.

    «Ma immagino che uno dei viaggiatori vi lascerà una parte di letto». Steve si divertiva alle mie spalle. Aveva la sua sella e le coperte e non gli servivano letti.

    «Viaggiatori, eh?», disse il Virginiano.

    «Due ebrei che trattano sigari, un americano con lo sciroppo per la consunzione e un olandese, gioielleria».

    Il Virginiano depose la mia valigia. «Stasera volevo un letto», disse.

    «Bè», suggerì Steve, «l’americano ha l’aria di quello che si lava più spesso».

    «Non m’interessa».

    «Immagino di sì, quando li vedi».

    «Oh, dicevo un’altra cosa. Volevo un letto tutto per me».

    «Allora te lo devi fabbricare».

    «Scommetto che avrai quello dell’olandese».

    «Scegli uno che non abbia paura. Scommetto una bevuta che quello dell’americano non te lo prendi».

    «Affare fatto», disse il Virginiano. «Avrò il suo letto senza storie. Da bere per tutti».

    «Sicuro che mi freghi», disse Steve, ridendo. «Quando ti dai da fare, sei un figlio di puttana. Be’, ci vediamo! Devo badare ai ferri del mio cavallo».

    Mi aspettavo di vederlo morto due secondi dopo, poi capii che quel termine usato così era una forma di complimento. Che avrebbe fatto il Virginiano?

    «Volete lavarvi, signore?»

    Eravamo sulla soglia del ristorante. Mise dentro la valigia. Nella mia ignoranza credevo di trovare nell’interno il luogo nel quale lavarmi.

    «È qua fuori, signore», mi informò con serietà, ma con forte accento del sud come faceva sempre quando si divertiva.

    Mi indicò una specie di truogolo pieno di acqua schiumosa e uno straccio dall’aspetto scoraggiante. Il Virginiano lo afferrò e lo fece girare tutto sul rullo: neanche un centimetro asciutto o pulito. Si tolse il cappello e affacciò la testa nell’interno.

    «Signora», disse, «il vostro asciugamano è troppo popolare».

    La donna uscì. Era graziosa. Lo guardò per un attimo, guardò me con ostilità, poi disse:

    «Di solito, uno al giorno, ma quando è gente schizzinosa…» Tolse l’asciugamano sporco e ne sistemò uno pulito.

    «Grazie, signora», disse il cow-boy.

    La donna lo guardò ancora una volta e, senza aggiungere parola, tornò dentro.

    Presi il secchio vuoto che c’era nel truogolo e andai a riempirlo al pozzo, poi mi ripulii come meglio potevo. Non era gran che, ma dovevo accontentarmi, almeno per il momento. Entrai e andai a sedermi a tavola.

    Mangiammo roba in scatola, manzo salato e bevemmo uno strano caffè con latte condensato; e non ho mai visto tante mosche. Non mi arrischiai a parlare, perché in quel paese non andavo a genio a molti. Chissà che cosa, gli abiti, il cappello, l’accento, non so, mi rendevano antipatico a prima vista.

    L’ingresso del Virginiano provocò un breve silenzio. Aveva fatto miracoli al truogolo. Salutò con un cenno del capo alcuni cow-boy e sedette a mangiare in silenzio, ma il silenzio non è l’elemento adatto a un viaggiatore di commercio: un pesce può vivere fuori dell’acqua più a lungo di quanto non possa star zitto un esemplare di quella specie. L’olandese osservò il Virginiano, serio e silenzioso, poi giunse all’imprudente conclusione di averlo capito.

    «Buona sera», disse con brio.

    «Buona sera», rispose il Virginiano.

    «Appena arrivato?»

    «Appena arrivato».

    «Gli affari vanno bene, eh?»

    «Oh, mica male». Il Virginiano prese dell’altro manzo.

    «Lavorare col bestiame fa venire appetito, eh?»

    Il Virginiano bevve un po’ di caffè. La graziosa padrona andò a riempirgli la tazza senza che glielo chiedesse.

    «Mi pare che ci siamo già incontrati».

    Il Virginiano gli lanciò una breve occhiata.

    «Vero o no? Certo che ci siamo visti da qualche parte. Guardatemi. Siete stato a Chicago, eh? Guardatemi bene. Ve lo ricordate, da Ikey, no?»

    «Direi proprio di no».

    «Ma dico io! Lo sapevo che vi ho visto a Chicago! Quattro o cinque anni fa. O magari sono due. Per me il tempo non è niente. Ma una faccia non la dimentico mai. Sissignore. Noi due ci siamo conosciuti da Ikey, sicuro». Questa importante comunicazione venne fatta a tutti noi. «Ma guarda un po’, com’è piccolo il mondo!», riprese, compiaciuto. «Incontri uno una volta e poi è sicuro che lo ritrovi di nuovo. Proprio vero. Mica sono chiacchiere».

    Il Virginiano non gli badava; continuava a mangiare tranquillamente, mentre la padrona andava avanti e indietro tra la cucina e la sala da pranzo. Poi viaggiatore riprese:

    «Sissignore! Ikey è dalle parti dei magazzini, ci vanno tutti quelli che trattano bestiame e sanno il fatto loro. Ecco dove. Saranno magari tre anni. Il tempo per me non vuole dire niente. Ma le facce! Non me le scordo mai. Adulti o bambini, maschi o femmine, una volta che li vedo non me li levo più dalla memoria, neanche me li pagassero cinque dollari la faccia. Uomini bianchi, però, niente da fare coi negri e i cinesi. Ma voi siete bianco». Si rivolse di nuovo al Virginiano con questo eccezionale complimento. Il cow-boy aveva tirato fuori la pipa e la stava strofinando senza rispondere, ma l’altro riprese, implacabile.

    «Lo capisco subito quando uno è bianco, mettetelo dove volete, da Ikey o qua fuori nella pianura». Spinse un sigaro verso il Virginiano.

    «Li vendete?»

    «Merce di prima qualità, amico. Avana, quanto di meglio in fatto di tabacco per cinque cent. Prendetelo, accendetelo, provatelo, guardatelo bruciare. Ecco». Gli porse un mucchietto di fiammiferi.

    Il Virginiano gli gettò una moneta da cinque cent. «Oh no, amico mio! Da voi no! Per via di Ikey. Non vi dimentico. Visto? Vi ho riconosciuto subito, anche da lontano. Visto? Proprio così. Certo che ci siamo incontrati a Chicago».

    «Può anche essere», disse il Virginiano. «Certe volte non faccio il difficile».

    «Accidenti», esclamò l’olandese divertito, «sono proprio deluso. Speravo di vendergli qualcosa».

    «Niente da fare per il mio reparto», disse l’americano. «Per me è troppo solido. Ci ho rinunciato a prima vista».

    Era l’americano al cui letto mirava il cow-boy, un uomo sensato che aveva parlato meno dei suoi colleghi. Pensavo di sapere già chi avrebbe dormito nel suo letto, ma mi interessava moltissimo vedere come sarebbe accaduto.

    Il Virginiano guardò amabilmente la sua vittima e disse qualcosa a proposito delle medicine, che c’era da guadagnare parecchio, se uno ci sapeva fare. La vittima ne fu lusingata: nessuno tra quelli che sedevano al tavolo aveva avuto l’onore di essere notato. L’americano rispose e i due si misero a chiacchierare. Il Virginiano era già all’opera secondo il suo piano strategico. Mentre alcuni di noi stavano ancora mangiando, Steve tornò, si affacciò sulla soglia della sala da pranzo, osservò il Virginiano che conversava con la sua vittima e disse: «Ho perso!», e richiuse la porta.

    «Che cosa ha perso?», domandò l’americano.

    «Oh, non dovete badargli», rispose il Virginiano con voce strascicata. «È uno di quei mattacchioni che si divertono ad andare in giro e aprire e chiudere porte. Si dice che è innocuo. Bene», aggiunse, «io andrei a fumare. Non è permesso qui dentro?» Si rivolse alla padrona con particolare gentilezza. La donna scosse la testa e lo seguì con gli occhi mentre usciva.

    Rimasto solo, meditai per un po’ sulla sistemazione per la notte e passeggiai, fumando un sigaro per consolarmi. Decisi di andare a dare un’occhiata al dormitorio del quale Steve aveva parlato. Si trattava di uno stanzone con quattro o cinque letti e niente altro. E quando guardai quei letti, il disappunto di non averne uno nel quale dormire diminuì in modo considerevole. L’idea di stendermici da solo non era davvero una tentazione, non parliamo poi di starci in due, come si usava in quel paese…!

    «Oh, sono arrivati prima di noi!» Il Virginiano mi apparve al fianco.

    Annuii.

    «Si sono già piazzati», aggiunse.

    In quel dormitorio bisognava fare come si fa in treno per assicurarsi il posto. Sui letti, a mo’ di prenotazione, giacevano un indumento o un altro oggetto. Mentre stavamo a guardare, i due ebrei entrarono, aprirono e sistemarono le loro valige, poi apparve un impiegato della ferrovia che se ne andava a letto ancor prima che si facesse buio. Tolse gli stivali, mise pantaloni e panciotto sotto il cuscino, poi attaccò subito a russare.

    «L’uomo che ha il magazzino è mio amico», disse il Virginiano. «Starete quasi comodo sul banco. Avete coperte?»

    Non avevo coperte.

    «Cercate un letto?», domandò l’americano che entrava in quel momento.

    «Sì, cerca un letto», rispose Steve, dietro di lui.

    «Mi sembra uno spreco di tempo», disse il Virginiano, guardando pensoso da un letto all’altro. «Non sapevo che dovevo passare qui la notte. Be’, non sarà la prima volta che dormo seduto».

    «Questo è mio», disse l’americano sedendosi. «La metà basta e avanza per me».

    «Siete troppo gentile», disse il cow-boy, «però non ci penso neanche a scomodarvi».

    «Ma no! L’altra metà è vostra. Mettetevi subito a letto, se ne avete voglia».

    «No, non vado subito a letto. Meglio che ve lo tenete tutto per voi».

    «Sentite un po’», insistette l’altro, «se prendo voi, non corro il rischio che mi capiti qualcuno che non mi garba molto. Qui questa faccenda del dormire è una lotteria».

    «Be’», disse il Virginiano e la sua esitazione era veramente magistrale, «se la mettete così…».

    «La metto proprio così. Siete pulito! E vi siete anche fatto la barba. Vecchio mio, cacciatevi sotto quando ne avete voglia! Io aspetto ancora».

    Suonò falso, per la prima volta: non avrebbe dovuto dire vecchio mio. Fino a quel momento lo avevo considerato un uomo cortese che desiderava fare un piacere, ma quel vecchio mio, stonava. Puzzava troppo della sua professione; il modo insinuante, la cordialità di celluloide che passa per avorio in città non funzionavano con i figli della prateria. Vivono più vicini alla natura e capiscono.

    Il Virginiano accettò pacificamente il vecchio mio, doveva fare il suo gioco.

    «Accidenti, vi ringrazio proprio tanto», disse. «Tra un poco approfitto della vostra cortese offerta».

    Ero meravigliato. Poiché l’occupazione costituisce legge, mi sembrava il momento adatto per impadronirsi del letto, ma il cow-boy aveva un piano di campagna che non richiedeva occupazione. E poi, andare a letto prima delle nove, proprio l’unica sera in città dopo diverse settimane, con tutte le risorse a disposizione era un’idea piuttosto squallida. Tutti insieme ci avviammo verso il magazzino dove presi accordi per la sistemazione. Era il luogo più pulito di Medicine Bow e sarebbe stato un bel negozio dappertutto, con merce di ogni genere. Il proprietario, una persona molto educata, disse che dovevo considerarmi a casa mia e mi offrì tutti e due i banchi. Dalla parte salumeria c’era una forma di formaggio troppo grossa e puzzolente, perciò scelsi l’altro banco, dove il proprietario stese un paio di grosse imbottite, senza altre condizioni oltre a quella di togliermi gli stivali perché le imbottite erano nuove, pulite e in vendita. Non avevo più preoccupazioni per quella notte, potevo pensare alla famosa scommessa.

    Credo che Steve fosse più incuriosito di me. Il tempo volava, bisognava concludere e andare a bere. Steve, appoggiato al banco, osservava il Virginiano, ma rivolse la parola a me, mentre l’altro ascoltava.

    «La prima volta in questo paese?»

    «Sì».

    «E vi piace?»

    Credevo che mi sarebbe piaciuto molto.

    «Che cosa ve ne pare del clima?»

    Lo trovavo ottimo.

    «Però fa venire sete, eh?»

    Era quel che aspettava il Virginiano, che però, come Steve, si rivolse a me.

    «Sì», disse, «sete quando si è ancora nuovi, poi ci si fa il callo».

    «Credo proprio che lo troverete ancora più arido di quel che aspettavate», disse Steve.

    «Se siete abituato così», disse il Virginiano.

    «Ci sono parti del Wyoming», riprese Steve, «dove si va avanti per ore e ore senza vedere una goccia d’acqua».

    «E se continuate a pensarci», disse il Virginiano, «sembrano giorni e giorni».

    Steve, a questo punto, rinunciò e gli diede una pacca sulla spalla, ridendo. «Figlio di…»

    «È ora di berne un paio», disse il Virginiano. «Offro io, Steve, ma ho proprio paura che ti tocca aspettare ancora per un po’».

    E così cominciarono a parlare direttamente, dopo aver discusso nella quarta dimensione, usando me come telefono.

    «Si gioca a carte stasera?», domandò il Virginiano.

    «Poker», rispose Steve. «Sconosciuti».

    «Mi va proprio di giocare per un po’. Dici che è gente sconosciuta?»

    E poi, prima di uscire dal magazzino, fece una breve toilette per prepararsi al poker. Una preparazione semplice; tolse la pistola dalla fondina, l’esaminò e se l’infilò nella camicia, poi abbottonò il panciotto. Per gli altri fu come se si fosse solo pettinato, ma non per me. Poi i due amici uscirono, mentre ripensavo all’epiteto che Steve aveva usato nel battere sulla spalla del Virginiano.

    I viaggiatori avevano concluso i loro affari col proprietario e chiacchieravano in gruppo accanto alla Porta. Il Virginiano uscì.

    «Ci vediamo dopo, vecchio!», disse l’americano, rivolto al probabile compagno di letto.

    «Oh sì», rispose il compagno di letto e se ne andò. L’americano strizzò l’occhio ai suoi colleghi, con espressione di trionfo. «È a posto», osservò, sollevando il pollice verso il cow-boy. «È facile. Basta conoscerlo, per lavorarselo. Tutto qui».

    «E qual è la vostra idea?», domandò l’olandese.

    «L’idea è questa: non prenderà niente da me o da voi, ma parlerà male di noi con tutti gli ammalati che trova. Non ho mica finito con lui. Dite», e si rivolse al proprietario, «come si chiama?»

    «Chi?»

    «La donna che gestisce il ristorante».

    «Glen. Signora Glen».

    «Mi pare nuova».

    «Sta qui da circa un mese. Il marito lavora sui merci».

    «Mi sembrava di averla già vista. Una bellezza».

    «Hum! Sì, il genere di bellezza che preferisco nella moglie di un altro e non nella mia».

    «Ah si marcia così, eh?»

    «Be’, sembra di no. È arrivata qui con questa reputazione, ma c’è stata una delusione generale».

    «Allora non le sono mancate le richieste?»

    «Mancate? Li conoscete i cow-boy?»

    «E li ha delusi? Magari le piace suo marito».

    «Hum! Be’, come si fa a capirle quelle che non aprono bocca?»

    «A proposito di treni merci», cominciò il viaggiatore e ascoltammo l’aneddoto che ebbe molto successo col suo pubblico, ma quando ne attaccò un altro, me ne andai in silenzio.

    Lasciai il gruppo intento alle barzellette sporche e andai alla ricerca del saloon, un luogo molto tranquillo e pulito. Non avevo mai visto birra a un dollaro il quarto, ma a parte il prezzo, non potevo lamentarmi. Nel bar, con le bottiglie in fila, la testa d’alce imbalsamata, i tavolini, un tale faceva scivolare le carte da una cassetta, un altro preparava i gettoni, un terzo toglieva carte da sotto un mazzo e un solenne vecchio zotico accatastava monete sulle carte già scoperte.

    «Perché non sei rimasto in Arizona?», disse una voce in fondo alla sala.

    Parole innocenti ma quando risuonarono, gli occhi di tutti si volsero verso quell’angolo. Non udii la risposta e non vidi chi aveva parlato, poi colsi un’altra frase.

    «Be’, l’Arizona non è posto per dilettanti».

    I due giocatori accanto a me si voltarono e io provai il desiderio di andarmene.

    Cinque o sei giocatori sedevano intorno al tavolo rotondo nell’angolo. Vidi Steve e il Virginiano, le altre erano facce nuove.

    «Non è posto per dilettanti», ripeté la voce e in quel momento lo vidi, un uomo dall’aspetto sgradevole come il tono delle sue parole.

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