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Il Mondo nelle Mie Mani
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E-book149 pagine2 ore

Il Mondo nelle Mie Mani

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Info su questo ebook

Vivere sospesi tra mare e terra crea mondi e sottomondi legati tra loro da un invisibile filo di ricordi, che un giovane marittimo porta con sé in ogni terra e persona incontrata, intrecciando volti e ridisegnando mappe. Ogni nuovo imbarco è, dunque, un’esplorazione che il protagonista compie in se stesso e che lo condurrà, attraverso i marosi della vita, verso il viaggio più intenso che si possa desiderare.
LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2018
ISBN9788833461663
Il Mondo nelle Mie Mani

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    Anteprima del libro

    Il Mondo nelle Mie Mani - Francesco Prandi

    scherzi

    Capitolo primo

    L’American Bar

    Quando varcai il cancello dell’arsenale per avviarmi verso la stazione, ebbi chiara la sensazione di essere stato scippato, di avere subito un furto di due anni.

    Ero partito che ero poco più di un ragazzo e mi ritrovavo grande. Di tempo per pensare ne avevo avuto fin troppo. A volte la testa mi doleva per l’affollamento di idee, piani, progetti che nascevano, si inseguivano, mettevano radici o morivano nella mia mente, sempre un po’ troppo su di giri.

    Ma poi maledicevo il mondo che mi teneva prigioniero, mi impediva di agire, mi costringeva all’attesa.

    Adesso il momento era giunto, ero libero, sì, ero libero!

    Finalmente potevo cominciare a volare.

    Una pioggerellina fastidiosa mi condusse sotto un porticato, dove stazionava un crocchio di marinai che discutevano, un po’ troppo animatamente, di calcio. La disputa riguardava la possibile coesistenza tra Lojacono e Sormani nella stessa formazione. Chissà perché i marinai, allora, parlavano solo di calcio e di fica. Oggi, invece!…

    Li guardai con aria assai schifata; freschi di naia, ignoravano come il tempo li avrebbe cambiati, specialmente se un Comandante fifone decideva, in navigazione, la famigerata guardia quattro-quattro, cioè quattro ore di servizio e quattro di riposo, invece della più umana quattro-otto.

    Mi sentivo leggero. Smisi di guardarli altrimenti correvo il rischio di levitare. Avevo finito di tribolare: il mondo era mio, mi stava aspettando, dovevo solo allungare le mani.

    La pioggia diradò e io ripresi il cammino.

    Dopo un po’ mi ritrovai davanti all’American Bar, direi quasi per istinto, come i cavalli. Sbirciai dai vetri appannati, ma non vidi nessuna delle fanciulle che ci davano, anche se pagate, gli unici momenti di tenerezza di quella fredda stagione, restituendoci un po’ del calore della nostra giovinezza. Entrai lo stesso.

    Molti di noi, imbarcati sull’Alicudi o il Filicudi – le due navi con le corna, navi posamine, posacavi e recupero relitti – la sera facevano sosta in quel bar. L’equipaggio delle due navi era sempre lo stesso: mentre una era in armamento, l’altra era ai lavori. Non accadeva mai di vederle andare per mare tutte e due insieme.

    Ero entrato in quel bar, per la prima volta, una sera di novembre di quindici mesi prima. Come al solito diluviava e il mio giaccone poteva star dritto anche senza padrone. Me lo tolsi per metterlo ad asciugare da qualche parte, ma non c’erano sedie, tavolini, attaccapanni o altro dove poggiarlo.

    – Ehi biondino, sistemalo qui, – disse una fanciulla, alzandosi dalla sedia dove stava comodamente adagiata, venendo a mettersi al mio fianco, con i gomiti sul bancone. Deposi il giaccone e il berretto sulla sedia vuota e ritornai accanto a lei.

    Ordinò due Stravecchi Branca e me ne offrì uno, sbattendomi gli occhi in faccia, scandagliandomi come un fondo marino frastagliato. Mi fissava senza fare una piega, a pochi centimetri dal mio orecchio destro, quello più sensibile per intenderci. Cercavo di darmi un tono guardando dritto verso lo specchio dietro il bancone, sorseggiando e aggrottando la fronte.

    La barista, una specie di Vispa Teresa, mi fece l’occhietto e io, come un cretino, glielo rifeci. Per trarmi d’impaccio ordinai due Fundador, il brandy principe del traffico di liquori della Marina Militare. Se ne vendevano all’esterno chilometri di casse. Conoscevo dei Capi (Sottufficiali) che si erano fatti la casa a casse di Fundador e sigarette americane. Uno era imbarcato con me; possedeva una splendida villa ad Agropoli e non aveva alcuna difficoltà ad ammettere la provenienza dei suoi guadagni.

    Quel brandy non mi piaceva granché, ma mi faceva impazzire il nome. Che fantasia hanno questi andalusi!

    La barista svampita ce li porse con un gridolino e un altro occhietto, questa volta, però, rivolto a tutti e due.

    La fanciulla con i capelli di rame, lunghi e ondulati come le dune di Sabaudia, che mi respirava sull’orecchio destro, alzò il suo calice e mi invitò a un insolito brindisi:

    – Brindo a questa vita merdosa e a te biondino del cazzo.

    Abbozzai un sorriso, mi accesi una sigaretta, facendo scattare la Zippo con una sola mano e, senza esitazione, le puntai gli occhi addosso. Lei, cambiando improvvisamente espressione, mi chiese a bruciapelo:

    – Le hai diecimila lire per andare in Paradiso?

    Trasalii e mi sentii avvampare, chinai la testa e ingurgitai l’ultimo goccio.

    Così era proprio lei: Lina, la puttana più ambita dai marinai di La Spezia. Ne avevo sentito parlare fin dai primi giorni del mio arrivo; era la più appetita, ma non tutti potevano averla. Diecimila lire erano un’enormità per quei tempi e, pertanto, per una moltitudine di solini azzurri rimaneva un sogno proibito. Per lei molti erano finiti in ospedale o in cella.

    Ci dividevano solo i bicchieri. Per un attimo mi sembrò di perdermi nei suoi occhi verdi, intensi, nel suo profumo di rosa bulgara e, senza accorgermene, abbassai il suo bicchiere con il mio, avvicinandomi fino a sfiorarle le labbra.

    Con un guizzo da cobra mi morse il labbro inferiore, scoppiando, poi, in una risata aspra, nervosa. Afferrando una pelliccia di chissà che cosa con una mano e ghermendo il mio braccio sinistro con l’altra, mi trascinò fuori. Il freddo umido mi ricordò di rientrare a prendere il giaccone e il berretto.

    Dopo tanto tempo mi sentivo di nuovo bene. Mi stringeva la mano con forza e, tirandomi in avanti, mi costringeva a camminare a passo sostenuto. Le brillavano gli occhi, era proprio contenta: pensava alle diecimila lire che presto avrebbe incassato e che erano gli ultimi soldi rimastimi. Me li aveva dati mia madre prima di partire per La Spezia, raccomandandomi di tenerli bene da conto. Il calore della sua mano, piano piano, si irradiò su tutto il mio corpo, discendendo fino agli arti e arrampicandosi fino ai capelli. Avevo voglia di arrivare, tutti i miei muscoli erano allertati da un desiderio incontenibile.

    Lei mi lanciava occhiatine di sbircio, sorrisetti e gridolini. Mai percorso mi parve più lungo. La pensione stava vicino al mercato della frutta, verdura e altro, dove c’erano i cartelloni dei film in programmazione nei cinema di La Spezia.

    La donna che stava alla ricezione ci accolse con un ghigno che un tempo doveva essere stato un sorriso cordiale. Si fece dare la chiave numero tredici.

    Quando la porta della stanza si chiuse e cominciò a spogliarmi con gesti delicati ma esperti, ad accarezzarmi con sublime maestria, la frenesia raggiunse l’acme, procurandomi uno sbalorditivo aumento delle palpitazioni e un irrefrenabile attacco di libidine: stavo bruciando. Mi aveva promesso di farmi raggiungere il Paradiso; non fu di parola, ma mai inganno fu più dolce: con la petit mort mi mandò oltre ogni cielo, al di là di tutte le delizie. Ero sommerso da un’orgia di colori, da un’esplosione di grida, affogavo in un lago di miele dorato.

    Poi lei accese la luce e cominciò a rivestirsi. Mi tirai su e, seduto sul letto, rimasi a guardarla con occhi sognanti, dove trovano rifugio i pensieri in fuga dal desiderio assopito.

    Il lampadario blu, stile veneziano, che pendeva dal soffitto, la investiva in pieno, avvolgendola con la sua luce fiabesca.

    – Io vivo in questa pensione e questa è la mia stanza, non so perché ti ci ho portato, non la uso mai per lavorare. Ti ho sentito impazzire e cantare nel coro degli angeli, mi è piaciuto, mi è piaciuto molto. Se vuoi rimanere io torno verso l’una, e… spero di trovarti qui, – mi disse, mentre mi lasciava per ritornare al bar a caccia di nuovi clienti.

    Mi allungai di nuovo sul letto. Non volevo pensare, così mi concentrai sugli effetti multiforme di luce turchese che il lampadario rifletteva sul soffitto. Decisi di restare. Dopo pochi minuti spensi la luce e mi girai su un fianco, tentando di dormire.

    Al buio mi apparve ancora più bella. La vedevo al bar mentre fumava, creando cerchi perfetti che si alzavano, annuvolando tutto in alto; rideva, mostrando l’avorio dei suoi denti; parlava con le altre fanciulle e il suono della sua voce ammaliatrice incantava i topolini tutt’intorno; lanciava occhiate su prede ormai inermi. Vedevo la sua bocca larga e invitante, appesantita da un rossetto troppo rilucente; il suo nasino appena un po’ all’insú e quello sgarro di un blu livido sulla guancia sinistra, che le dava un’aria ambigua e misteriosa, da noir francese; i suoi grandi occhi, verdi come l’uva spina, adombrati da folte e lunghe ciglia castane; i suoi morbidi capelli ramati, solcati da onde leggiadre, agitarsi con repentini colpi di testa. La vedevo scegliere la preda, iniziare la manovra d’attacco, stordirla con il suo incedere flessuoso, condurla, mano nella mano, nella sua tana. La vedevo nuda, sospirare allacciata a un altro.

    Mi alzai di scatto, mi rivestii in fretta e schizzai all’aperto come un asmatico in debito di ossigeno.

    L’aria fresca attenuò i battiti del cuore. Respiravo, respiravo profondo.

    Arrancavo mollemente senza alcuna direzione, sapevo solo che non volevo ritornare a bordo. Un campanile lontano rintoccò la mezza.

    Ero talmente assorto nei miei pensieri, sarebbe più corretto dire al pensiero di lei, che, quando urtai contro due che procedevano in senso inverso al mio, chiesi scusa senza neanche alzare la testa, continuando per la mia strada.

    Avevo fatto appena pochi passi quando avvertii una tremenda botta alla nuca, che, facendomi barcollare, mi spinse in avanti.

    Non so quanta distanza percorsi in quello stato, ma con grande sforzo riuscii a non cadere e, proprio quando stavo per raddrizzarmi, mi scontrai contro un palo di cemento armato. Mi afflosciai sotto quel lampione come un palloncino bucato.

    – Ma quantu vivisti? Isti a truzzari contru u palu da luci, ca ‘ncora trema, ah-h-h!

    – Ammazza che sbronza! S’è annato a scontrà contro er palo da luce, l’ha quasi scheggiato.

    – Tieni stronzo, bevi questo tè caldo, ti farà bene.

    Le orecchie mi ronzavano come assalite da una nuvola di zanzare. La testa la sentivo come se stessi portando un cesto pieno di pallini di piombo.

    E che dolore! Sentivo pizzicarmi il cranio con degli spilloni. E quella voce di donna, dove diavolo l’avevo sentita?

    Quando riuscii a tenere gli occhi aperti per più di due secondi di fila, mi ritrovai sdraiato su un marciapiede, con un nugolo di marinai intorno e la testa adagiata nel grembo di una donna che odorava di rosa bulgara, seduta accanto a me con una tazza in mano.

    Non riuscivo a capacitarmi. Cosa diavolo era successo? Perché stavo intontito lì per terra e cosa ci faceva Lina accanto a me?

    – Ti sei ripreso, stronzo! Invece di una borsata in testa ti meritavi una coltellata. Bevi questo tè caldo, ti farà bene, – spingendomi la tazza in bocca. Bevvi a piccoli sorsi e, dopo qualche secondo, resuscitai.

    – Ah-h-h, ma chisti sugnu cosi di cori! Jamuninni a buoddo ca è megghiu! – esclamò un marinaio lì intorno.

    E così rimanemmo soli sotto quel lampione.

    – Ma quanto sei stronzo! – mi ripeteva come un disco incantato, accarezzandomi i capelli e scuotendo lentamente la testa.

    Io ormai avevo rinunciato a capire e, inebetito, le chiedevo scusa.

    – Te ne sei andato senza pagarmi, è grave ma si può capire. Non

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