Nati in via Madre di Dio: Un'indagine per Pagani e Marino
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Anteprima del libro
Nati in via Madre di Dio - Alessio Piras
NOTA DELL’AUTORE
Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti o esistenti è da considerarsi puramente casuale. La storia di Aldo, Antonio, Giobatta e Roberto è un’invenzione dell’autore, che, per altro, è fin troppo giovane per conoscere i meccanismi interni della Resistenza partigiana. Ogni deviazione dalla realtà è puramente funzionale a esigenze narrative. I dati storici riguardanti la Seconda Guerra Mondiale a Genova sono stati tratti da diversi libri presenti alla Biblioteca Berio del capoluogo ligure, i cui bibliotecari ringrazio per l’appoggio e i consigli. Alcune situazioni di guerra sono frutto dei racconti di mia nonna Maria, dalla quale, forse, ho ereditato il piacere della narrazione.
Un ringraziamento particolare ad Andrea Acquarone per la traduzione delle parti di dialogo in genovese.
Ringrazio mia moglie, Laura, che come sempre si ostina a starmi vicino nonostante i miei infiniti difetti. Ringrazio mio nonno, Renato, che mi ha insegnato ad amare Genova.
Barcellona, 8 agosto 2016
Prologo
– Quindi tu condisci gli gnocchi con il pesto – affermò perentorio Gaetano guardandomi storto con quei suoi occhi neri e acquosi.
– Certo! Se poi lo gnocco è casalingo, il pesto viene assorbito e si va posare nell’impronta lasciata dalla forchettata. Tu, scusami, con cosa li condisci?
– Minchia, con la salsa di pomodoro! Bella densa e dolce, due tre foglie di basilico fresco, un filino-ino-ino-ino di olio extravergine e vedi che trionfo dei sensi.
Gaetano Milazzo era un gruista siciliano, gourmet e forchetta di prima classe. Ci eravamo conosciuti alla friggitoria Carega di Sottoripa, tre giorni dopo il mio arrivo da Barcellona, a febbraio del 2014. Stavo ancora scrivendo la storia di Lorenzo Marino¹, un giovane professore che avevo incontrato in Spagna e con cui avevo parlato un’intera notte. Ero teso e avevo bisogno di ritrovare un po’ di quiete in un luogo che di quieto non ha nulla. Strano l’essere umano nel dar vita a paradossi continui. Scelsi quella friggitoria perché per me significava casa: ci andavo fin da bambino, con mio padre; lui mangiava frittelle di baccalà mentre io mi divertivo con i bianchetti, che ora non fanno più per via dei blocchi biologici imposti da Bruxelles. Non faceva nulla: mangiai polpo e patate accompagnati da un paio di bicchieri di bianco; in piedi, giacché tavoli in quel posto non ce n’erano e si gustava il pasto tutti al bancone. La clientela era di tutti i tipi: dal giovane studente di Lettere in pausa pranzo alla vecchia nonna che inevitabilmente ti raccontava che quella Genova stava sparendo. Non era difficile parlare con il tuo vicino, normalmente un perfetto sconosciuto che non avresti più rivisto. Per fortuna non fu il caso di Gaetano Milazzo, il gruista che mi tenne un’ora a parlare di gnocchi, salsa e pesto.
Era molto deciso, ma riuscii a scalfirlo e a invitarlo a pranzo. Volevo che provasse i miei gnocchi conditi con il pesto fatto con il basilico del balcone dell’appartamento di mia sorella, in piazza Stella, dove vivevo provvisoriamente. Lei era dovuta andare in Perù, per lavoro, mentre io avevo bisogno di un appoggio in città, visto che la casa di famiglia nel piccolo borgo di Sassello non era agibile e, poi, era troppo distante da Genova, città che non avevo intenzione di lasciare un momento per almeno dodici mesi.
Il pranzo con Gaetano venne a lungo rinviato, tra un imprevisto e l’altro, fino a metà giugno. Decidemmo per una domenica, suo giorno di riposo. Feci la spesa il sabato, il sole splendeva solitario nel cielo che era di un azzurro intenso, quello che si mostra al termine di un paio di giorni di tramontana, la spazzina della volta celeste. Forse per questo decisi di uscire dalla città vecchia e arrivare fino in piazza Scio, dove aveva sede uno dei mercati rionali più forniti di Genova. Stavo contrattando il prezzo di un’orata da fare al forno, quando sentii picchiettare sulla spalla: mi voltai e si palesò il volto di Lorenzo Marino, con quell’aria nostalgica che avevo già intravisto a Barcellona. Teneva per mano Mary.
– Ma sei proprio tu?
– Eh già, caspita non ci vediamo da febbraio! Mary, sei splendida – mi sorrise e fece un cenno con la testa scuotendo i lunghi capelli castani. Un gesto che mi riportò alla memoria un ricordo che pensavo ormai sepolto da tempo: Raisa, la donna della mia vita.
Raisa era nata sulle sponde di un mare che per un certo periodo avevo navigato, un mare ancora più chiuso del Mediterraneo, sua propaggine nel cuore dell’Europa orientale, il Mar Nero. E neri erano i capelli di Raisa che mi aveva avvolto in una rete dalla quale non volevo scappare: al contrario dell’acciuga che lotta strenuamente per tornare in acqua e respirare, io nella rete di Raisa mi sentivo a casa. Pensai di lasciare tutto per lei e per tutto intendo l’unica cosa che ero convinto di possedere: il mare. Ma poi le cose precipitarono e lei sparì nel nulla lasciandomi boccheggiare, disperatamente tentai di aggrapparmi alla mia rete, ai suoi lunghi capelli neri, di rimanere impresso nei suoi occhi piccoli e profondi, ma fui respinto dalla muraglia inespugnabile innalzata dalla sua famiglia, di origine gitana, non ricordo se Sinti o Rom, che era contraria alle unioni miste. Mi arresi solo dopo che i suoi fratelli mi fecero assaggiare il sapore dei loro bastoni spaccandomeli sui denti. Fu come un’illuminazione: mentre mi pestavano capii che minacciavano Raisa, convinti che non potessi capirli. Lei mi aveva insegnato qualche rudimento della sua lingua e negli anni avevo navigato con diversi ragazzi rumeni e gitani. Decisi che l’avrei lasciata perdere, non per me, ma per lei. Andai a Istanbul e da lì mi imbarcai con l’intenzione di trascorrere in mare la maggior parte della mia vita. Erano passati cinque anni, non ero più tornato sul Mar Nero, né ad Istanbul, dove avevo conosciuto Raisa. Di lei non avevo saputo più nulla ed ero convinto di averla dimenticata, ma quel gesto inaspettato di Mary la fece riaffiorare fino a farmi sentire sulle labbra il sapore della sua pelle.
Rimasi incantato qualche secondo.
– Che hai amico?
– No, solo un déjà vu. Come state ragazzi?
– Bene, tu?
– Non mi lamento. Sono fuori zona oggi, di solito non mi allontano molto da casa, in piazza Stella. Se lo faccio è solo per andare a pescare. Ogni tanto ho bisogno di ritrovarmi in mezzo al mare.
– Pesca?
– Sì, con il gozzo di mio cognato, che ora è in Perù con mia sorella. Vivo da lei: le mantengo la casa e non pago affitto.
– Bello scambio.
– Sentite, lunedì avete impegni?
– No, io no. Ho esami martedì e giovedì. Tu Mary?
– Mmm... lunedì dovrei lavorare, ma di pomeriggio.
– Faremo a tempo, vi va di venire a pescare? Vado per acciughe e bonitti verso Camogli. Partenza ore 6, dal porticciolo di Nervi. Rientro ore 12, poi ci facciamo due trofie da me in piazza Stella.
– Sì! Sì! – Mary era entusiasta – Sì! Ho il primo appuntamento in Canneto il Lungo alle 15:30, ce la facciamo?
– Contaci. Allora ci vediamo direttamente a Nervi, alle 6 davanti all’ingresso della piscina.
Ancora scosso dal ricordo di Raisa, tornai alla mia orata e al mio appuntamento con Gaetano. Il pranzo non lo convinse del tutto, ma per lo meno mi confidò che dopo aver mangiato da me considerava il pesto l’unica alternativa alla salsa. Imparai a conoscerlo e capii che dovevo esserne lusingato.
Il lunedì mattina, alle 6 in punto, Lorenzo e Mary arrivarono alla piscina di Nervi. Avevo preparato il gozzo il giorno prima, restava da calarlo in acqua e partire. Fu quando uscimmo dal porticciolo ed entrammo in mare aperto, con Camogli che lentamente sullo sfondo si svegliava dal pigro sonno della notte estiva, che Lorenzo iniziò a raccontarmi quello che gli era successo appena un paio di mesi prima.
1 Vedi Alessio Piras, Omicidio in Piazza Sant’Elena. Genova, Pagani e Marino indagano, Fratelli Frilli Editori, 2016.
Il fatto
24 aprile 2014
Il manifesto appeso alla porta della scuola elementare di piazza Martinez annunciava, come ogni anno, la manifestazione dell’ANPI di Genova per le celebrazioni del 25 aprile. La carta era sgualcita sui bordi: la pioggia degli ultimi giorni non aveva aiutato a conservare il manifesto in buone condizioni. Qualche simpaticone aveva deciso di disegnare con un pennarello nero indelebile una bella svastica nazista proprio sull’angolo in alto a destra. Un altro, forse amico o parente, aveva invece scritto a caratteri cubitali W il DUCE
, proprio vicino al luogo e all’ora della partenza del corteo: piazza de Ferrari, 25 aprile 2014 ore 11 .
Roberto Centurioni si era fermato per oltre un quarto d’ora ad osservare il manifesto vandalizzato dalla stupidità umana e mortificato dall’inclemenza di una primavera che non si decideva ad arrivare. Si accarezzò l’orecchio, quello che, da quando aveva quattro anni, era senza lobo a causa del morso di un cane. Se solo sapeste, se solo ci foste stati
, pensò. Una lacrima scendeva il tortuoso sentiero che le rughe avevano disegnato sulle ruvide guance macchiate da una barba ispida e bianca. Il suo pensiero andava indietro nel tempo, scavando nei ricordi della sua giovinezza. Era stato un giovanissimo partigiano e lottava giorno e notte per riprendersi quella libertà che qualcun altro aveva deciso di togliergli. E per darla a chi aveva imbrattato il manifesto dell’ANPI. Aveva commesso tanti errori, ma la vita aveva avuto il sopravvento e solo la vecchiaia gli diede modo di rielaborare il terremoto che aveva scosso la sua esistenza tra il 1941 e il 1945.
Triste e profondamente nostalgico attraversò la strada e si sedette sulle panchine in mezzo alla piazza. Il cielo era finalmente tornato sereno e voleva approfittarne per dormire all’aperto. Srotolò la coperta che portava nel vecchio carrello della spesa che il cassiere albanese del supermercato di via Casoni gli aveva procurato qualche mese prima. Da allora poteva finalmente portare con sé le sue cose senza dover faticare, o senza doverle lasciare nascoste da qualche parte correndo il rischio di perderle.
Si distese e, presto, si addormentò.
– Muori bastardo! – Roberto aprì gli occhi. L’uomo era sopra di lui: le mani, avvolte in costosi guanti di pelle, stringevano sulla sua giugulare nel tentativo di spezzare per sempre quel sottile respiro che ancora lo teneva in vita. Mollò la presa. Pochi secondi per razionalizzare e vedere quel lampo negli occhi del suo aggressore, riconoscerne il volto, la voce, le movenze.
– Non ho mai avuto il coraggio. Grazie, amico mio, ora la terra smette di tremare sotto i miei piedi. Mi dispiace, mi dispiace.
L’uomo riprese a stringere, le campane della chiesa suonarono il primo rintocco della mezzanotte nel silenzio della piazza dormiente. Quando terminarono, Roberto Centurioni esalava l’ultimo respiro.
Il commissario Pagani aprì gli occhi qualche istante prima che il telefono iniziasse a squillare. Era il suo giorno di riposo, in concomitanza con il 25 aprile. Il programma doveva essere quello di pranzare con sua sorella Marina e poi andare insieme ad iniziare i lavori di pulizia del vecchio appartamento di via Torti, dove sua madre era deceduta un paio di settimane prima.
– Pronto, chi è?
– Commissario Pagani, agente Pittaluga.
– Pitta che succede? – si sedette sul letto maledicendo di aver risposto. Non era neanche reperibile quel giorno, quindi non lo avrebbero mai trovato: bastava spegnere il cellulare e ignorare il telefono di casa. Ma era pur vero, pensava il commissario, che se Pittaluga si prendeva la briga di chiamarlo nel suo giorno libero, qualcosa doveva essere successo.
– Commissario, sono desolato di disturbarla. È stato rinvenuto il cadavere di un uomo in piazza Martinez. Si tratta di un senzatetto di 87 anni, Roberto Centurioni, e ci sono tutti gli elementi per ipotizzare che non sia morto per cause naturali. Giannini è sul posto.
– Capisco. Pitta hai fatto bene a chiamarmi. Di’ a Giannini di avvisare anche il magistrato di turno. Io arrivo subito, ci vediamo là.
Pagani si catapultò fuori dal letto. Aprì la finestra e si stiracchiò sul balconcino. Era una bella giornata: la primavera sembrava essere finalmente atterrata in quell’angolo del Mediterraneo, battuto da piogge continue durante tutto l’inverno, come se un incessante bisogno di lavare via macchie indelebili si fosse concentrato sui cieli di Genova, riversando sulla città ettolitri d’acqua e cancellando stagioni, abitudini, raccolti, ma lasciando intatti i suoi peccati originali; portandosi via piccoli frammenti di terra, in quella lotta continua che i liguri erano costretti a combattere ogni giorno da secoli.
Il mare appena scosso da un lieve vento da sud si infrangeva sugli scogli del quartiere di Sturla. Il promontorio rimaneva oltre una coltre di foschia, invisibile; non sarebbe riemerso fino a quando la tramontana non avesse investito nuovamente la città.
Pagani odorò il basilico che coltivava religiosamente nel suo balcone insieme alla menta, il rosmarino e il prezzemolo. Si preparò una moka da tre e bevve il caffè mangiando un po’ di focaccia del giorno prima; si vestì e scese le scale d’ardesia rapidamente. Alle 9:35 accese la sua Punto millesei grigia; alle 9:44 era in piazza Martinez, pronto a tuffarsi in un nuovo caso di omicidio, il primo da quando, all’inizio di aprile, era stato trasferito al commissariato di San Fruttuoso insieme all’agente Pittaluga. Questi, dal primo maggio di quello stesso anno, sarebbe diventato ispettore di polizia e suo più stretto collaboratore, visto che il vicecommissario Giannini aveva chiesto espressamente di non prendere parte a indagini di omicidio.
1
Genova, 1944
Antonio Satta aveva da poco compiuto 14 anni. Era figlio di un pescatore di Alghero, ma in Sardegna non ci era mai stato. Non vi era neanche nato: ottavo di nove fratelli, il primo a nascere a Genova, nove giorni dopo lo sbarco della sua famiglia, giunta nel grande porto del Nord Italia in cerca di fortuna. Suo padre Giovanni aveva mollato tutto e si era fatto assumere dalla Società Italia come sottufficiale di macchina a bordo dei transatlantici. Navigò sul REX, una di quelle imbarcazioni che trasportavano da un lato all’altro dell’Atlantico migliaia di persone in fuga dalla miseria; persone che impacchettavano le loro quattro cose e il sogno di una vita normale, dignitosa, senza fame. Vinse un Nastro azzurro nel 1933, quando riuscirono a mantenere una velocità di crociera di 28,92