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Iridiama: Un'avventura di Gundar Ardibrace
Iridiama: Un'avventura di Gundar Ardibrace
Iridiama: Un'avventura di Gundar Ardibrace
E-book863 pagine12 ore

Iridiama: Un'avventura di Gundar Ardibrace

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Info su questo ebook

Da centinaia di anni, nel nelle terre meridionali del mondo di Irìdia convivono tre razze: i Nani, l’antico popolo delle montagne, i giovani Uomini, giunti dal nord a cercare fortuna nei pressi del mare, e gli Orchi, crudeli e spietati predatori sempre in aperto conflitto con le altre popolazioni.
Durante la Festa di Incoronazione del Principe dei Nani, gli Orchi si fanno minacciosi e costringono i loro nemici giurati a reagire prontamente. Un’antica leggenda però affiora dalle ombre del passato e sarà la causa scatenante di una guerra aperta tra loro e motivo di discordia nel Regno degli Uomini.
Toccherà a Gundar Ardibrace e ai suoi amici intraprendere un pericoloso viaggio alla ricerca di un antico manufatto, con il quale ridare vita alla leggenda di Turok e salvare il suo popolo.
Intrecci avventurosi, intrighi diplomatici, incontri sorprendenti e grandi battaglie si profilano sul sentiero dei coraggiosi amici, che divisi dal destino dovranno dare prova della loro proverbiale determinazione e del loro indomito coraggio.
LinguaItaliano
Data di uscita30 ott 2018
ISBN9788832144000
Iridiama: Un'avventura di Gundar Ardibrace

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    Anteprima del libro

    Iridiama - Stefano Girola

    Orchi.

    2

    Ombre nere

    Prima decade di Nebbioso, 3819

    Alle prime ore del mattino i quattro ragazzi si svegliarono per fare colazione. Seduti rivolti a sud, osservavano silenziosi la bruma salire verso di loro, assaporando pezzetti di frutta. Thordax volse preoccupato lo sguardo verso il cielo.

    «Ieri sembrava che il tempo volgesse al meglio, ma queste nuvole non ne vogliono sapere di lasciare Durgrim.»

    «Pazienza, fratello» ribatté Ardax fiducioso. «Vedrai che migliorerà, ne sono certo. Sento nell’aria un profumo diverso e sono sicuro che la Primavera non tarderà ad arrivare.»

    «Però sbrighiamoci a partire» balbettò Hala infreddolita. «Se non mi rimetto in movimento, finirò per ghiacciarmi.»

    Raccolti i pochi bagagli, discesero rapidi il pendio e ripresero il cammino sulla via per Roccavelata. La densa foschia impediva di capire se il sole fosse già sorto oltre le montagne. Vedevano a pochi passi di distanza e si orientavano con gli elementi naturali che riuscivano a scorgere oltre il bordo della strada.

    Camminare in quel modo richiedeva concentrazione e per un lungo tratto nessuno parlò. I gemelli scandivano l’andatura, procedendo a passo spedito, tanto che presto Gundar e Hala rimasero un po’ distanziati. Giunsero in un punto in cui la via attraversava un piccolo bosco, reso cupo dalla luce fredda e lattiginosa che filtrava attraverso la nebbia.

    «Dove sono finiti Ardax e Thordax?» chiese Hala, colta da un improvviso timore.

    «Non ti preoccupare, saranno poco più avanti. Hanno le gambe corte, ma sanno marciare veloci. Si vede che sono soldati di professione. Io, che sono costretto a dividermi tra la forgia e le incombenze per il Principe, non riuscirò mai ad avere il loro fiato.»

    Hala afferrò il braccio di Gundar, mentre osservava gli alberi circondarli.

    «La bruma sembra riuscire a intrufolarsi anche tra questi rami.»

    «Succede perché non sono molto fitti. Comunque ricordo bene dove siamo e non dovrebbero mancare più di un paio d’ore di cammino per arrivare al crocevia: una volta lì, svolteremo per Roccavelata e con altre due ore di marcia saremo in città.»

    «Eppure non mi sento tranquilla.»

    Hala non fece in tempo a terminare la sua frase che entrambi udirono un rumore di passi affrettati poco lontano. Alcune ombre per un attimo emersero dalla foschia, scomparendo subito dopo; ma erano troppo lontane per riuscire a distinguerne i contorni.

    Hala emise un grido soffocato ma Gundar cercò di rassicurarla.

    «Erano di certo i gemelli. Ci avranno visti arrivare e si saranno rimessi in marcia. Ora li chiamo e gli dico di aspettarci.»

    Portò una mano attorno alla bocca e gridò a gran voce.

    «Ardax! Thordax! Aspettateci!»

    «Basta così!» sussurrò Hala ancora più piena di inquietudine. «Mi sento tremare.»

    «Che cosa ti succede? Non c’è niente da temere» esclamò Gundar allargando le braccia.

    In quel momento un fruscio della vegetazione alla loro destra li fece trasalire. Dagli alberi sbucarono tre grossi orchi vestiti di nero, che impugnavano pugnali dalla lama scura.

    Hala cacciò un grido e Gundar le si parò davanti, affannandosi per slacciare l’ascia che portava ancora fissata alla cinta. Gli orchi non si fecero attendere e gli furono addosso in un lampo. Il nano fu colpito al ventre da un calcio sferrato dal più grosso dei tre e cadde in ginocchio, mentre un secondo assalitore bloccò la ragazza, serrandole un braccio intorno alla gola.

    «Che cosa volete, maledetti?» chiese Gundar con la voce soffocata dal colpo ricevuto.

    Quando alzò lo sguardo verso l’orco che aveva di fronte, notò che indossava un’armatura in cuoio nero più elaborata rispetto a quella degli altri due: doveva essere lui il capo di quel piccolo gruppo di invasori. Emettendo un grugnito simile a una risata, quell’essere gli si avvicinò per colpirlo col pugnale, ma all’improvviso fu scaraventato a terra da una tremenda spallata di Thordax.

    L’orco che teneva stretta Hala invece ricevette un colpo d’ascia al braccio e fu costretto a mollare la presa. Voltatosi di colpo, si ritrovò davanti Ardax, che con un’espressione euforica lo invitava a combattere. Fece per pugnalarlo al petto, ma con un’abile schivata il giovane guerriero scansò il colpo e piantò la sua ascia nell’a­vam­braccio del malcapitato, che urlò di dolore. In un attimo Ardax fece perno su un piede e saltò abbastanza in alto da affondare un secondo fendente nel collo dell’orco, trasformando il grido in un rantolo. Il pesante corpo cadde a terra con un tonfo.

    Il capo pattuglia nel frattempo si era rialzato per affrontare il nano che lo aveva atterrato, ma quando vide uno dei suoi sottoposti essere sopraffatto così in fretta, intuì che i guerrieri che aveva di fronte erano troppo abili per essere affrontati e con un cenno ordinò all’altro la fuga. I due orchi scattarono nel bosco e grazie alle loro ampie falcate in pochi attimi sparirono alla vista dei nani. Ardax e Thordax tentarono un inseguimento, ma dopo pochi passi si resero conto che sarebbe stato inutile, così tornarono da Gundar per sincerarsi delle sue condizioni.

    «Tutto a posto, amico?» chiese Ardax allungandogli un braccio per aiutarlo a rialzarsi.

    «Sì, grazie. Per fortuna non hanno avuto modo di infierire. Siete arrivati appena in tempo!»

    «Dove accidenti eravate finiti?» gridò d’improvviso Hala battendo il pugno sul petto di Thordax. La paura appena provata l’aveva quasi paralizzata e ora avvertiva l’irrefrenabile desiderio di sfogarsi, buttando fuori tutta la tensione accumulata.

    «Mi sono spaventata a morte! Gli orchi ci hanno assaliti e voi non eravate qui!»

    «Scusaci, Hala» disse Ardax avvilito. «Abbiamo sentito che ci chiamavate e siamo tornati indietro. Solo quando ti abbiamo sentita gridare, abbiamo capito che potevate essere in pericolo.»

    Gundar la abbracciò con affetto e la invitò a calmarsi.

    «Nessuno poteva immaginare che ci fossero degli orchi nei dintorni: non è un luogo dove si solito si spingono. I ragazzi stavano solo andando al loro solito passo e non potevano certo immaginare che avremmo subìto un attacco.»

    «Infatti!» replicò Thordax. «Mi chiedo cosa ci facessero da queste parti... Non se ne vedeva uno attraversare il Ruggirivo da tanti anni.»

    «Erano veloci e silenziosi. Guardate questo» disse Gundar indicando il corpo di quello ucciso da Ardax. «Armatura leggera e solo un pugnale come arma: non erano dei veri e propri guerrieri e non erano equipaggiati per attaccare. Dovevano essere degli esploratori, spie venute fino a qui per uno scopo preciso, che però al momento non riesco a immaginare.»

    «Ma se erano spie, perché vi hanno attaccato?» intervenne Ardax.

    «Avranno pensato che eravamo soli e potevamo portare con noi del cibo, o altre cose che potessero prendere per loro.»

    «Oppure che erano troppo vicini per sfuggire ai vostri occhi o alle vostre orecchie.»

    «Può darsi. L’importante è che se ne siano andati.»

    «Ce ne potrebbero essere altri nei dintorni?» chiese Thordax con curiosità, quasi non vedesse l’ora di abbatterne uno anche lui, come il suo fortunato fratello.

    «Non credo. Gli esploratori di solito viaggiano a gruppi di due o tre al massimo: la loro missione è più facile se sono in pochi.»

    Hala osservò il corpo dell’orco riverso a terra e percepì ancora la sensazione del suo braccio stretto attorno al collo.

    «Io sono stata bloccata da… quest’essere!»

    Il solo pensiero la fece rabbrividire e un moto di disgusto la scosse da capo a piedi.

    «Ora è passata» la confortò Gundar. «Non mi farò sorprendere una seconda volta e i gemelli rimarranno al nostro fianco per il resto del viaggio. Vero ragazzi?»

    «Hai la nostra parola.»

    Lo sguardo risentito di Hala gli fece capire che ne andava del loro onore.

    «Sbrighiamoci ad arrivare a Roccavelata: dobbiamo fare subito rapporto su quanto accaduto.»

    «Cosa ne facciamo di questo?» chiese Ardax indicando il corpo dell’orco a terra.

    «Per ora spostiamolo a lato della strada e nascondiamolo affinché nessuno si spaventi nel vederlo. Quando arriveremo a Roccavelata, diremo di mandare qualcuno a occuparsi di lui.»

    Trascinarono via il corpo dal sentiero, lo adagiarono nel bosco e alla fine lo coprirono con delle sterpaglie. Poi raccolsero il suo pugnale, come prova di quel brutto incontro, e ripresero il cammino.

    Alcune ore dopo furono in vista della città di Acquiroccia. Era un’elegante cittadella costruita sulla viva roccia di un promontorio a picco sul lago Specchiopicco. Osservandola dappresso, la città si sviluppava in diagonale, mostrandosi in tutto il suo splendore. La strada piegava fino ad attraversare le mura che proteggevano l’accesso, poi tagliava in maniera decisa in direzione del promontorio, mentre la linea principale delle abitazioni seguiva il naturale pendio, che saliva fino in cima, dove sorgeva il palazzo della Duchessa.

    Dopo aver salutato le due guardie all’ingresso, si diressero senza indugio al corpo di guardia per informare il Capo Bastione di turno su quanto era accaduto. L’edificio si trovava poco distante dalle porte della città ed era modesto nell’aspetto e nelle dimensioni.

    Si trovarono di fronte un nano dall’aspetto severo, seduto a un tavolo e impegnato a redigere alcuni documenti. Indossava una cotta di maglia con le insegne della città e le mostrine lucenti sulla spalla. Appena li vide entrare, i lineamenti squadrati si indurirono assumendo un’espressione corrucciata. Gundar si immaginò che per riprodurre il suo volto nel legno sarebbero bastati pochi colpi d’ascia.

    «Chi siete?» chiese senza troppi convenevoli.

    Gundar presentò se stesso e i gemelli come tre soldati della guarnigione della capitale anche se, in effetti, lui non lo era a tempo pieno, ma soltanto alla bisogna.

    «Siamo partiti obbedendo a un ordine del Consigliere del Re, per organizzare il trasporto della birra in occasione della Festa dell’Incoronazione.»

    «E vi sembra forse un birrificio questo?» chiese il Capo Bastione interrompendo la spiegazione di Gundar.

    «No, chiaro! Ma non è questo il motivo per cui siamo venuti qui: durante il tragitto, poco più a nord, siamo stati attaccati da tre orchi.»

    L’ufficiale fece una faccia stralunata, come se gli avessero detto che gli era caduta la barba.

    «Orchi?» chiese per essere sicuro di aver capito bene.

    «Esatto, Signore: orchi», rispose Gundar annuendo.

    «Impossibile! Nessun orco si avvicina alla nostra città da oltre un secolo. Vi sarete sbagliati.»

    «Non stiamo vaneggiando. Erano in tre. Ci hanno attaccato e noi ci siamo difesi. Ne abbiamo ucciso uno ma gli altri due sono riusciti a fuggire: grazie alla nebbia e al piccolo bosco in cui si sono infilati, sono riusciti a farci perdere le tracce. Abbiamo portato con noi una prova, proprio perché immaginavamo che non ci avreste creduto.»

    Prese il pugnale orchesco e lo mostrò al Capo Bastione, che saltò sulla sedia.

    «Questo è il pugnale tolto all’orco morto. Troverete il suo corpo adagiato ai margini del bosco. Se avete dei soldati disponibili, mandateli a recuperarlo. Noi non avevamo i mezzi per trascinarlo fin qui.»

    «Lo farò di sicuro. Eppure la cosa ha dell’incredibile... Abbiamo vedette ben addestrate, appostate su ogni lato della città: avrebbero dovuto vederli!»

    «Stamattina c’era nebbia, l’avranno sfruttata per muoversi indisturbati. Inoltre, dal modo in cui vestivano, erano esploratori, spie: sapevano muoversi senza far rumore e suppongo che sapessero pure come sfuggire alla vista di chi li osserva da lontano.»

    L’ufficiale rimase per alcuni attimi a fissare l’arma nelle mani di Gundar, finché si convinse della buona fede dei ragazzi che aveva di fronte.

    «Avete fatto un buon servizio informandomi subito. Sarà mia premura avvertire la Duchessa Trecciabianca della questione con la medesima urgenza.»

    «Se fosse possibile, ci farebbe piacere informare noi stessi la Duchessa, così da spiegarle con dovizia di particolari ciò che ci è successo» obiettò Gundar.

    «Mi spiace, ma la Duchessa in questi giorni è oberata da molte incombenze e non ha tempo di ricevere visite. Saprete che Acquiroccia è la città più vicina alle Miniere Nuove, perciò la nostra guarnigione è la più impegnata nel fronteggiare le minacce orchesche, giù a sud-est. Tuttavia ogni particolare del vostro racconto sarà debitamente annotato nel mio rapporto, che sottoporrò all’attenzione della Duchessa entro questa sera. Ora vogliate scusarmi, ma ho del lavoro da sbrigare.»

    Concluse il discorso con un gesto di saluto che non lasciava spazio a repliche, così i quattro salutarono e uscirono.

    «Prima di qualsiasi altra cosa, vorrei tanto visitare il tempio di Valdur» disse Hala in tono supplichevole. «Desidero dedicare una preghiera al nostro dio, per ringraziarlo di averci protetto.»

    Detto ciò, notò lo sguardo dei gemelli e si premurò di completare la frase.

    «...e anche per avermi dato Ardax e Thordax come accompagnatori!»

    A quelle parole, entrambi sfoderarono un sorriso orgoglioso.

    Gundar acconsentì e i quattro si recarono al piccolo santuario, che sorgeva nella zona alta della città. Era un edificio di modeste dimensioni, ben più piccolo di quello di Gabilrok, ma ben curato e accogliente. Era chiamato il Tempio del Martello Battente, poiché attraverso un ingegnoso sistema di corde e ingranaggi, si azionava un grande martello, posto sulla sua sommità, che batteva su un’incudine di metallo cavo: il suono pareva quello di una campana, con la quale il sacerdote poteva richiamare i fedeli.

    Appena entrati, Hala si inginocchiò di fronte a una statua raffigurante Valdur e solo in quel momento riuscì a scrollarsi di dosso tutta la tensione del combattimento, sentendosi assai stanca.

    3

    La birra è pronta

    Prima decade di Nebbioso, 3819

    Il pomeriggio volgeva al termine e il sole, che aveva da poco vinto la sua battaglia quotidiana con la foschia, scendeva basso sul profilo degli Afferranubi.

    Gundar decise di parlare subito con Herv Spillabotte, così da portare a termine il suo incarico e trovare poi con calma un posto accogliente per la sera.

    Birrificio e abitazione si trovavano nella zona settentrionale della città, poco lontani l’uno dall’altra, nei pressi delle mura perimetrali, dove il terreno era ancora abbastanza pianeggiante e le limpide acque del lago lambivano le rocce circostanti. Quando entrarono, il saluto fu caloroso.

    «Amici miei, siate i benvenuti!» esclamò il padrone di casa allargando le braccia, come a stringere idealmente tutti e quattro in un unico abbraccio. Era corpulento, col naso rosso e i capelli neri e ricciuti, vaporosi come schiuma.

    «Ciao, Herv! Che piacere rivederti... è passato un po’ di tempo dall’ultima volta che siamo venuti a trovarti.»

    Si conoscevano da diversi anni, ma abitando in due città differenti, si incontravano solo in occasione delle feste che richiedevano l’acquisto di parecchi litri della sua rinomata birra.

    «Cosa vi porta ad Acquiroccia? Siete venuti ad assaggiare la mia ultima specialità?»

    «No, Herv» rispose Gundar, «in realtà sono venuto per conto del Consigliere Borengar Saggioverbo, a verificare che la birra per la Festa dell’Incoronazione sia pronta per il trasporto.»

    Notando le facce avvilite degli amici, si affrettò a rincuorarli con una proposta.

    «Però, visto che ormai siamo qui e che tu sei così gentile da offrirci l’occasione, assaggeremmo volentieri la tua birra speciale.»

    «Ah bene, ne sono felice! Sedetevi e datemi solo un attimo.»

    I quattro amici presero posto su alcuni sgabelli davanti a un bancone, su cui Herv poco dopo appoggiò cinque boccali di una birra dal colore ambrato, dai quali traboccava una schiuma compatta, che diffondeva un pungente profumo aromatico.

    «È un nuovo esperimento: birra speziata alle bacche di ginepro. Che ve ne pare?»

    «Strana...» rispose Hala indecisa. «Ha un gusto del tutto particolare, ma non sgradevole. Forse però per me è un po’ troppo forte.»

    I gemelli invece si fecero subito servire un secondo boccale, con la scusa di coglierne meglio il sapore e gli aromi del retrogusto. Gundar li imitò, approfittando anche di una fetta di pane ai cereali offerta da Herv.

    Durante la bevuta, accennarono del loro pericoloso incontro al mastro birraio che, alla notizia, s’incupì.

    «Se ora si spingono quasi fuori le mura delle nostre città, non c’è molto da stare allegri» fu il suo commento preoccupato.

    «Erano solo esploratori. Non credo che osino arrivare fino a qui con un esercito vero e proprio» provò a rassicurarlo Ardax.

    «Me lo auguro di cuore» fu la risposta non troppo convinta di Herv, che poi accompagnò Gundar nella cantina e gli mostrò una fila di piccole botti ordinate accanto al muro, già pronte per essere caricate. A suo dire contenevano la miglior birra scura degli ultimi cent’anni.

    «Perfetto! Si può sempre contare su di te. Durante la festa sarà mia premura ricordare a tutti coloro che degusteranno la tua birra che questo prelibato nettare proviene dal birrificio Spillabotte. Ora però dobbiamo andare.»

    «Vi ringrazio della visita. Tornate a trovarmi presto. E che Valdur protegga le vostre vite!»

    Si accomiatarono, ma non prima che i gemelli riuscissero a scroccargli un ultimo boccale. Poi si diressero al servizio spedizioni, dove consegnarono la lettera di credito di Borengar recante il sigillo Reale, con la quale si autorizzava il trasporto della birra, garantendone il successivo pagamento.

    Risolta ogni incombenza, giacché erano tutti stanchi, decisero di cercare una locanda dove cenare.

    Nei dintorni la più rinomata era quella de " I tre cinghiali. Durgo, il locandiere, era conosciuto da tutti con il prevedibile soprannome di Cinghialotto", perché era tutt’altro che glabro, con peli della barba irsuti e spessi come fil di ferro.

    Si accomodarono a un tavolo appartato in fondo alla sala, in modo da poter parlare senza essere disturbati. Si fecero servire una zuppa di farro e orzo, accompagnata da generose fette di formaggio stagionato e frutta secca, che divorarono con gusto, annaffiando il tutto con una deliziosa birra rossa. Dopo aver placato la fame, la lingua si sciolse e cominciarono a chiacchierare tra loro, rimuginando sull’accaduto.

    «Secondo voi, cosa ci facevano tre spie così dentro il territorio di Durgrim?» chiese Hala.

    «Non saprei. Da quando furono scoperte le Miniere Nuove, oltre cento anni fa, le loro uniche scorribande avevano avuto lo scopo di rubare del buon metallo per fabbricare armi, oppure oro, da usare come moneta di scambio; ma che io sappia fino ad oggi non avevano mai oltrepassato il Ruggirivo» rispose Gundar, con lo sguardo perso nel boccale di birra e la mente rivolta alle due ombre nere che correvano lontano nel prato.

    Ardax, seduto di fronte a lui, intervenne nella discussione.

    «Pensi possano saccheggiare qualcuna delle nostre città?»

    «Non credo. Sanno che l’arrivo di un esercito provocherebbe la nostra reazione immediata. Le nostre città sono lontane tra loro, è vero, ma basta poco perché tutte le guarnigioni si mobilitino insieme. Se commettessero una simile sciocchezza, non avrebbero scampo.»

    «Allora perché gli esploratori?»

    Fu Thordax a proporre la sua teoria.

    «Io credo che volessero spiare le città di Acquiroccia e di Roccavelata. Sono passati tanti anni dall’ultima vera guerra tra noi e loro. Forse intendono attaccarci di sorpresa, ma prima vogliono raccogliere informazioni più aggiornate.»

    Gundar fece per replicare, ma fu interrotto da una voce vicina.

    «Il vostro amico ha ragione!»

    Tutti si voltarono per osservare da chi provenissero quelle parole. La figura era in piedi, a pochi passi da loro, ma la luce del focolare alle sue spalle le metteva il viso in ombra.

    Quando si vece avanti, la riconobbero.

    «Kilda!» esclamarono in coro.

    Kilda Scuotipicco era una guerriera della guarnigione di Gabilrok, oltre che una loro grande amica, ma era soprattutto colei per la quale batteva il cuore di Thordax. Ben piazzata, braccia robuste, con spalle larghe appena più dei fianchi, si avvicinò al quartetto e poggiò un piede sul bordo della panca accanto ai gemelli, osservandoli divertita con il gomito appoggiato sul ginocchio.

    «Non sapevamo che fossi qui ad Acquiroccia. Come hai fatto a trovarci?» le domandò Gundar.

    «Come sapete, io sono originaria di Roccavelata, dove abita ancora mio padre Kildor, e talvolta le commissioni mi portano qui. Oggi alcuni miei amici, soldati di questa città, mi hanno informato che nel pomeriggio quattro ragazzi provenienti dalla capitale si erano scontrati con tre esploratori orcheschi: la loro descrizione sembrava calzarvi a pennello. In città non si parla d’altro, così non è stato difficile sapere dove eravate» rispose lei con un gran sorriso, scuotendo i lisci capelli neri che le incorniciavano il viso rotondo.

    «Vieni, siediti accanto a noi» la invitò Ardax, facendola accomodare tra lui e il fratello, che avvampò, vedendosi scrutare da quei grandi e maliziosi occhi neri.

    «Come sta tuo padre?» le chiese per togliersi dall’imbarazzo.

    «Come al solito. Le sue vecchie ferite di guerra gli procurano fastidio di quando in quando, ma il canto e la poesia riescono a distoglierlo dai suoi mali.»

    «Doveva essere fantastico ascoltarlo sul campo di battaglia, mentre intonava inni di guerra» disse Thordax immaginando il furore battagliero del vecchio Nano.

    «Sì, dicevano che la sua voce tonante fosse potente quanto quella di un vulcano. Io lo sento cantare, in effetti ti fa vibrare il cuore.»

    «Vuoi cenare con noi?» le chiese Hala speranzosa.

    «Farò di più, amica mia. Se ti fa piacere posso restare con voi fino a domani, quando tornerete a Gabilrok, così stanotte possiamo affittare una stanza insieme e farci compagnia.»

    «Meraviglioso!» rispose l’amica. «Ero già triste all’idea di passare la notte da sola, mentre loro tre si sarebbero divertiti assieme nella camera accanto.»

    «Avresti potuto sempre dormire con noi. Gundar ti avrebbe ceduto il posto migliore» disse Thordax, che si vide restituire un’eloquente occhiataccia da Hala, tra le risate del gruppo.

    «Domani tornerai in città con noi?»

    «No, domani devo rientrare a Roccavelata da mio padre. Credo che verrò a Gabilrok fra un paio di giorni» disse Kilda. «Mi spiace non essere stata con voi oggi, mi sarebbe piaciuto fare qualche domanda a quei vostri amici Orchi » disse in tono sarcastico, accarezzando il filo dell’ascia che portava al fianco.

    «Dubito che avresti avuto più possibilità di noi di colpirli: erano parecchio veloci! Sono spuntati come ombre dagli alberi e, fuggendo, si sono dileguati in un baleno.»

    «Peccato. Un’occasione mancata!»

    «Cosa gli avresti chiesto, Kilda?» domandò Thordax curioso.

    Lei si grattò il capo per qualche istante, prima di rispondere.

    «Beh, dopo averli abbattuti a colpi d’ascia, credo che gli avrei domandato: Serve aiuto, o ce la fate da soli a tornarvene a casa?» disse risoluta, tra le risate degli altri.

    Terminata la serata, si separarono per coricarsi.

    Hala e Kilda s’addormentarono in fretta, mentre Gundar e i gemelli parlarono ancora a lungo dello scontro con gli orchi, non mancando poi di punzecchiarsi a vicenda sulle rispettive cotte per le due ragazze nella stanza accanto. Solo a tarda notte stanchezza e sonno vinsero la battaglia sulle emozioni di quella memorabile giornata.

    4

    Un messaggio per il Re

    Prima decade di Nebbioso 3819

    La mattina dopo si trovarono nella stessa sala dove avevano cenato la sera pri­ma. I maschi arrivarono parecchio assonnati, mentre Hala e Kilda già facevano colazione, e furono accolti da un’occhiata di rimprovero, che da sola bastò a indurli a biascicare delle scuse.

    Terminato il pasto, s’incamminarono verso le porte della città, con l’intenzione di intraprendere subito il viaggio di ritorno, ma a metà strada furono fermati dal Capo Bastione, al quale avevano fatto rapporto la sera precedente.

    «Buongiorno, ragazzi! Ho saputo che eravate alloggiati alla locanda di Durgo e stavo proprio per venire a farvi visita. Avrei un favore da chiedervi.»

    «Diteci pure come possiamo esservi utili» rispose Gundar.

    «Ieri sera sono stato ricevuto dalla Duchessa Trecciabianca, alla quale ho esposto nei dettagli i fatti accaduti. Ha ascoltato con preoccupazione le notizie, commentandole con crescente timore; poi ha redatto di suo pugno un messaggio destinato al Re. Giacché siete soldati della guarnigione di Gabilrok e vi state facendo ritorno, vi assegno l’incarico di consegnare tale messaggio a Sua Maestà, Re Doròg. Immagino che vi sareste comunque recati da lui a fare rapporto.»

    «Infatti» confermò Gundar. «Lo avremmo fatto in ogni caso, perciò sarà un onore essere i portavoce della Duchessa Trecciabianca.»

    «Benissimo! Vi auguro buon viaggio di ritorno. Che Valdur renda leggeri i vostri passi!»

    Partirono che era ancora mattino presto e la buona compagnia rese piacevole il tragitto. Decisero di accompagnare Kilda fino a quando non fossero giunti in vista di Roccavelata e in poche ore arrivarono ad ammirare le forme proporzionate della città: una vera meraviglia dell’ingegneria nanesca. Da lontano pareva dipinta da un esperto pittore che avesse usato i Sorgighiacci come tela e una cascata come cornice. Un piccolo pianoro, più elevato rispetto al terreno circostante, costituiva la sua base d’appoggio, quasi fosse posta su un piedistallo, protesa a godersi il sole di mezzogiorno.

    Si accomiatarono, promettendosi di rivedersi presto. Kilda proseguì il cammino, mentre gli altri quattro tornarono sui propri passi fino al crocevia, per poi imboccare la strada che li avrebbe condotti di nuovo a casa.

    Quando passarono attraverso il bosco, a differenza del giorno prima non c’era più traccia di nebbia e il sole brillava alto nel cielo; tuttavia Hala si strinse a Gundar e non lo lasciò finché non furono lontani, con enorme soddisfazione del giovane, il quale sperò che quel bosco non finisse mai.

    Il primo giorno di cammino terminò poco oltre le colline senza particolari incontri, salvo un falco che volava alto nel cielo, lanciando acute grida di ammonimento. Il sole si era intiepidito, allentando un po’ il freddo che nei giorni precedenti si era fatto sentire con ostinazione sotto i vestiti fin nelle ossa, e le nuvole erano andate quasi scomparendo, lasciando il posto a belle giornate dal cielo limpido.

    Pareva un piccolo anticipo della primavera alle porte e anche il profumo nell’aria era diverso: si percepiva il desiderio della natura di ridestarsi dal lungo letargo e persino gli abeti sembravano aver cambiato colore, tramutando i loro aghi dal triste grigiore del mese precedente in un verde scuro e vigoroso.

    Dopo la notte all’aperto, anche il secondo giorno di viaggio trascorse veloce e giunsero in vista di Gabilrok dopo il tramonto, quando ormai la luna era alta e le stelle trapuntavano il manto nero della volta celeste. Alcune fiaccole erano accese all’esterno delle porte, per consentire ai viaggiatori di avvistare l’entrata e alle guardie di osservare il volto dei nuovi arrivati. Dopo aver varcato l’ingresso, Gundar espose il suo pensiero agli amici.

    «È tardi per presentarci tutti assieme da Borengar e comunque temo che né lui, né tantomeno il Re, possano riceverci a quest’ora. Vi propongo di separarci: andate a casa a riposare, mentre io consegno subito il messaggio della Duchessa. Credo che il Consigliere Saggioverbo vorrà comunque incontrarci domani, per ascoltare tutti i dettagli. Possiamo trovarci di mattina nella piazza centrale per poi recarci assieme da lui. Che ne dite?»

    Tutti furono d’accordo. Salutarono Gundar e si avviarono verso le proprie dimore, mentre il giovane imboccò il vialone principale che portava al Palazzo Reale.

    Si trattava di una massiccia roccaforte, chiamata Torrescudo per via della sua forma particolare. Scavata per una parte all’interno della montagna che si ergeva alle sue spalle, si allungava su un massiccio roccioso in posizione elevata, come se il monte stesso protendesse le sue mani per offrire l’edificio alla città: da lontano sembrava davvero uno scudo gigantesco sollevato da un titano.

    Il corpo centrale di pietra levigata era sorretto da quattro torrioni, che partivano da terra e terminavano all’altezza dei primi tre piani, sostenendo tutta la struttura. La parte superiore svettava verso l’alto, restringendosi di poco, affiancata da due alte torri di pianta quadrata, che le conferivano un aspetto imponente e maestoso.

    La via di accesso attraversava un grande arco in pietra, che dava su uno spiazzo rettangolare, al cui centro era collocata una stele intagliata con rune appartenenti a un linguaggio antico. Ai lati dello spiazzo, due scalinate scolpite nella roccia viva lo congiungevano a una larga balconata, sulla quale si affacciavano le porte d’ingresso della roccaforte. Alcune statue, raffiguranti sovrani del passato o personaggi valorosi di tempi remoti, giacevano silenziose, come fossero poste a guardia della dimora.

    Quando giunse dinanzi alle porte, si presentò alle guardie e chiese di poter parlare con Borengar Saggioverbo, mostrando loro il messaggio della Duchessa di Acquiroccia. Attese per qualche tempo, poi apparvero la testa calva e la barba bruna del Consigliere. Aveva il viso rugoso di chi ha affrontato molte decisioni importanti e la profondità delle iridi scure suggeriva una naturale propensione ad affrontare la vita con rigore e meticolosità.

    Quando vide Gundar gli chiese stupito il motivo di una visita così improvvisa e il giovane lo salutò con un rispettoso inchino.

    «Buonasera, Consigliere Saggioverbo. Vogliate perdonare l’ora tarda, ma reco con me un messaggio scritto di persona dalla Duchessa Trecciabianca per Re Doròg. Durante il nostro viaggio ad Acquiroccia abbiamo incrociato la via con tre orchi e ne abbiamo ucciso uno. Vi prego di informare Sua Maestà al più presto.»

    «Orchi sulla via per Acquiroccia?» chiese Borengar sbalordito.

    «Purtroppo sì. Sono rimasto sconcertato quanto voi. Fortuna che i gemelli Fendipietra erano con me e li hanno messi in fuga, ma su questa faccenda c’è molto da narrare.»

    «Hai fatto bene a informarmi. Sottoporrò la lettera all’attenzione del Re appena possibile. Tuttavia prego voi tutti di venire qui da me domani mattina, così mi racconterete ogni cosa e potrò fare a Re Doròg un rapporto dettagliato.»

    «Immaginavo una vostra richiesta in tal senso ed è proprio quello che ho detto loro poco fa prima di salutarli. Domattina verremo a farvi visita.»

    «Benissimo, allora ti auguro buonanotte.»

    «Buonanotte a voi, Mastro Borengar.»

    Il giorno successivo Gundar arrivò per primo nella piazza centrale e attese che i suoi amici lo raggiungessero.

    Mentre aspettava, si mise a osservare ammirato il monumento che dominava quella parte di città: era un omaggio a Turok.

    Si narrava fosse il Campione dei Nani, realmente vissuto agli inizi della storia del regno. La sua battaglia contro Azhug-Tal, la divinità orchesca, era una leggenda tramandata nei millenni. Il suo sacrificio aveva consentito ai Nani di sconfiggere l’Orco invasore, ristabilendo la pace nella valle.

    Le sue gesta erano state così straordinarie, che il dio dei Nani Valdur lo aveva condotto su Ethéria, il luogo sacro ove dimoravano le divinità di tutti i popoli di Irìdia, per trasformarlo in una divinità.

    Gundar era convinto si trattasse solo di una storia inventata, che Turok non si fosse mai davvero palesato come un essere vivente.

    Hala e i gemelli lo raggiunsero poco dopo, interrompendo le sue riflessioni, e tutti insieme proseguirono fino a Torrescudo.

    Quando le guardie alla porta informarono il Consigliere dell’arrivo dei quattro ospiti, la prima ad accoglierli fu Zhalia, la figlia di Borengar, che corse ad abbracciare Hala e a salutare il resto del gruppo. Incrociò il suo sguardo con quello di Ardax e l’usuale espressione cordiale si trasformò in gran sorriso, che le fece arricciare il naso a patatina.

    Zhalia li condusse fino allo studiolo del padre, che si trovava nei pressi della biblioteca affidata alle sue cure, e bussò alla porta prima di entrare.

    «Entrate. Benvenuti, ragazzi» disse Borengar facendoli accomodare attorno a un massiccio tavolo rettangolare. Lo studio accoglieva grosse librerie di legno antico, nelle quali trovavano posto una quantità elevata di tomi, rotoli di pergamena e altri oggetti dall’aspetto bizzarro, disposti con criterio e senza troppa polvere a coprirne la superficie.

    «Ieri sera ho informato Re Doròg della lettera della Duchessa e ne è rimasto colpito. Purtroppo teme di non potervi ricevere oggi. Tuttavia desidera che io vi ascolti, così da conoscere ogni dettaglio sull’incontro che avete fatto, anche quelli che potrebbero sembrarvi meno importanti.»

    Gundar prese la parola e raccontò del viaggio, della decisione di fermarsi sulla collina per la notte e di come la nebbia avesse avvolto la valle alle prime luci dell’alba. Poi descrisse il primo tratto di strada e come i gemelli avessero allungato il passo lasciando indietro lui e Hala, fino al momento in cui avevano scorto alcune ombre muoversi nella nebbia e infine parlò dell’assalto degli orchi.

    «Erano in tre. Indossavano armature leggere, di colore scuro, e anche il loro equipaggiamento era studiato per faticare il meno possibile. Un coltello come arma e un piccolo fagotto legato sulle spalle era tutto quello che avevano con sé.»

    «Non mi sembra l’equipaggiamento tipico degli orchi che prendono d’assalto le miniere» rifletté Borengar.

    «Di sicuro non erano guerrieri. Considerata anche la silenziosità con cui si muovevano e la rapidità con cui si sono dileguati, pensiamo si trattasse di esploratori: spie inviate a osservare qualcosa in quelle zone.»

    Il Consigliere rimase qualche istante in silenzio, ragionando sulle parole di Gundar.

    «Non saprei proprio il motivo del loro girovagare per quelle terre. L’importante e che non siate rimasti feriti.»

    «Per fortuna no, a parte la tremenda paura patita da Hala.»

    A quell’affermazione, la giovane prese la mano di Gundar e la strinse.

    «Secondo voi cosa stavano osservando di nascosto?» continuò Borengar.

    «Condivido l’opinione esposta ieri da Thordax: è passato tanto tempo dall’ultima battaglia tra noi e gli orchi. Forse intendono controllare se le nostre difese si sono abbassate in questi anni, per coglierci di sorpresa con una guerra improvvisa.»

    «Consigliere, ma non dovrebbero esserci delle sentinelle appostate ai margini del Ruggirivo per evitare che gli orchi possano guadarlo senza essere visti?» chiese Hala preoccupata.

    «Hai ragione, Hala» confermò Borengar con sguardo pensieroso. «Negli ultimi anni le loro scorribande si sono sempre limitate a lambire i margini del Ruggirivo, dove di recente sono stati scoperti nuovi giacimenti di metallo; nessuno si poteva aspettare che avessero l’ardire di spingersi oltre Acquiroccia. Credo che informerò Re Doròg e insisterò affinché prenda in considerazione il mio suggerimento di posizionare delle vedette ai margini meridionali di Durgrim e sul Tavoliere, cosicché possano riferire eventuali ulteriori movimenti sospetti.»

    «Credo sia una buona idea» confermò Gundar soddisfatto.

    «Bene, affrontato il problema più urgente ora possiamo parlare di qualcosa di più piacevole. Come procedono i preparativi per la Festa dell’Incoronazione?»

    «Direi bene, ma devo ancora verificare alcune cose a cui non ho ancora potuto dedicare il giusto tempo. Herv Spillabotte ha completato la produzione di birra che sarà consegnata entro la fine di questa decade qui a Torrescudo.»

    «Benissimo, ne sono felice. Avrei un altro incarico per te, Gundar. Non richiederà molto tempo e spero vorrai accogliere la mia richiesta.»

    «Certo. Sono a vostra disposizione.»

    «Ti chiedo di andare a trovare il maniscalco di Gabilrok.»

    «Mengor Ruvidita?»

    «Esatto. Gli è stato affidato il compito di costruire le armi per la Contesa dello Scudiero, per cui ti chiedo di controllare che il lavoro proceda bene e che possa essere tutto pronto prima dell’inizio della Tredicina.»

    «Andrò a trovarlo, Consigliere, e mi assicurerò che tutto sia fatto a regola d’arte.»

    «Non è un compito urgente, Gundar. Hai corso dei pericoli nel tuo ultimo viaggio: potrai andare da Mengor con calma nei prossimi giorni.»

    «D’accordo. Vi informerò appena mi recherò da lui.»

    «Ti ringrazio davvero. Sei sempre gentile» disse Borengar compiaciuto. «Chi di voi parteciperà alla Contesa?»

    «I gemelli, senza dubbio. Io non ho ancora deciso, mentre non credo che Hala desideri prendervi parte. Invece Kilda sarà dei nostri.»

    «Grandioso. Gundar mi auguro che pure tu possa far parte della Contesa e spero possiate tutti farvi onore. Dovrete fare bella figura di fronte agli ospiti» disse il Consigliere con un gran sorriso e una strizzatina d’occhi.

    «Ospiti?» chiesero stupiti i quattro giovani.

    «Per un evento tanto importante Re Doròg ha pensato di estendere l’invito a qualcuno di davvero speciale. La sua presenza sarà una grande sorpresa per tutti.»

    «Ottimo! Sono più stimolato, se c’è pure un pubblico importante» rispose Thordax con un largo sorriso stampato in faccia.

    «Non vedo l’ora di affrontarti!» gli fece eco il fratello.

    «Grazie, Mastro Borengar per il tempo che ci avete dedicato» concluse Gundar.

    Dopo aver congedato i quattro viaggiatori, Borengar si diresse verso il grande salone dove Re Doròg era solito ricevere le udienze e le visite ufficiali.

    La sala del trono dominava il secondo piano e occupava tutta la porzione frontale del palazzo. Vi si accedeva da due porte laterali, che immettevano al centro della stanza. Il trono, rialzato di qualche gradino rispetto al pavimento, spiccava sullo sfondo, mentre sul lato opposto numerose finestre consentivano di osservare la città e un’ampia porzione della valle. Era luminosa e arredata con gusto, abbellita alle pareti da preziosi scudi con fregi decorativi e armi lucenti. Al centro faceva bella mostra di sé un grande tavolo di legno lucido con pregiate tarsie.

    Il Consigliere trovò il Re seduto sul suo scranno intento a leggere documenti e consultare mappe; nonostante fosse affaccendato e chino sulle pergamene, la sua postura rimaneva fiera e marziale. Entrò in silenzio e s’inchinò, in attesa di un cenno del sovrano che lo autorizzasse a parlare. Quando si avvide del suo arrivo, Doròg alzò su di lui uno sguardo accigliato che Borengar conosceva assai bene: quello che aveva di fronte era un sovrano che sapeva elargire la misericordia o il perdono, ma quando la situazione lo richiedeva, il suo sguardo si faceva duro come pietra, proprio come stava accadendo in quel preciso momento.

    «Sire, ho appena parlato con Gundar e i suoi amici e vi confermo i miei timori. I quattro giovani si sono scontrati con tre esploratori orcheschi. I fatti che hanno descritto lasciano poco spazio al dubbio.»

    «Capisco. Venite con me, sediamoci al tavolo, staremo più comodi.»

    Nonostante vi fosse un rigido protocollo da mantenere in pubblico, quando rimanevano soli Re Doròg concedeva al suo Consigliere una maggiore confidenza; in fondo era oltre un secolo che governavano assieme il Regno e tra i due vi era amicizia e grande stima reciproca. Borengar s’inchinò con deferenza e prese posto al tavolo, stendendovi sopra alcune mappe dei territori attorno allo Specchiopicco che aveva recuperato in biblioteca.

    «Quali elementi vi hanno fatto concludere che fossero spie?»

    «Hanno spiegato nei dettagli come costoro avessero un equipaggiamento molto leggero. Abituati a sottrarsi alla vista, si muovevano veloci e in silenzio. Dopo che uno di loro è rimasto ucciso, gli altri due si sono dati alla fuga e, nonostante un tentativo dei gemelli Fendipietra di inseguirli, sono spariti in un attimo: erano molto ben addestrati.»

    «Ahimè! Non è il primo avvistamento degli ultimi due an­ni, ma finora i rapporti che avevo ricevuto si erano limitati a parlare di strane figure scure intraviste da lontano. Speravo potessero riguardare solo avvistamenti di grossi animali, ma quest’ultimo incontro ci offre la prova certa che gli Orchi si stanno facendo più arditi. Occorre stare in guardia.»

    In quel momento nella sala del trono entrò Borin.

    «Padre, avete richiesto la mia presenza?»

    «Siediti, il Consigliere ha alcune notizie di cui desidero renderti partecipe.»

    Borengar riassunse quanto emerso dall’incontro con Gundar e il futuro Principe fu colto da timore.

    «Quelle nuove miniere sembravano un dono insperato, invece si stanno rivelando un’arma a doppio taglio. Hanno spinto gli Orchi a farsi coraggiosi e dalle prime timide apparizioni ai margini del Tavoliere ora si fanno più intraprendenti. Padre, secondo voi quali erano i motivi per cui stavano osservando quelle zone?»

    «Gundar ha esposto la sua tesi, secondo la quale ci starebbero osservando da tempo, studiando le nostre difese. Forse stanno pensando a una nuova guerra e vorrebbero coglierci impreparati. La situazione è divenuta più grave del previsto e dovremo essere guardinghi in futuro. Consigliere, cosa suggerite di fare?»

    «Per precauzione, suggerisco di piazzare alcune sentinelle ai margini del Tavoliere e sulla sponda ovest del lago Specchiopicco, a sud di Fortequarzo, così da mantenere controllate le vie di accesso a Durgrim. Soprattutto ora che siamo in prossimità di un evento tanto importante come la Festa dell’Incoronazione.»

    «Ritengo sia un’idea giusta e saggia. Avvertite il Generale Grimdal Pugnomacigno: sarà lui a scegliere i più idonei a svolgere questo compito.»

    «Permettetemi di aggiungere una cosa, padre.»

    «Ti ascolto, figliolo.»

    «Anche se disponessimo di vedette dalla vista acuta quanto quella di un’aquila, il tempo che impiegherebbero per raggiungere la prima città e avvertirci dell’imminente pericolo renderebbe vano il loro lavoro. Perché non considerare l’idea di utilizzare i falchi ammaestrati?»

    Doròg si accarezzò la barba e i preziosi monili che tenevano legate le varie trecciole tintinnarono.

    «Spiegati meglio.»

    «Ho saputo che negli ultimi anni alcuni di noi hanno sviluppato molto la confidenza con quelle creature e sono in grado di ammaestrarli per farli tornare in un posto preciso, una volta lasciati liberi di volare. Essi potrebbero coprire le distanze al posto nostro, veloci molto più di qualsiasi robusto pony. In tal modo riceveremmo messaggi urgenti nel giro di poche ore, invece che attendere giorni interi.»

    Gli occhi del Re scintillarono.

    «Mi sembra un’idea grandiosa! Borengar, avvisa il Generale Grimdal: che sia assegnato un falconiere per ogni punto di osservazione.»

    «Ai vostri ordini, Maestà.»

    5

    Ritorno ad Alberonero

    Seconda decade di Nebbioso, 3819

    Woggha e il suo compagno, il solo sopravvissuto al combattimento, correvano veloci, nonostante il pietrisco appuntito e insidioso mettesse a dura prova i muscoli delle gambe e i piedi. Stavano attraversando l’infido territorio a sud del Tavoliere: un’am­pia depressione dal fondo irregolare, disseminata di rocce acuminate, battezzata proprio per questo Sassospezzato. A parte gli Orchi, i cui forti piedi riuscivano a marciarvi attraverso senza subire danno, pochi erano i viaggiatori che si avventuravano per quelle terre, così essi ne approfittavano, utilizzando quella zona per procedere in linea retta, evitare lunghi percorsi alternativi e viaggiare protetti da sguardi indiscreti.

    Era il quarto giorno di viaggio e, nonostante fossero abituati a percorrere lunghi tragitti, ormai erano piuttosto stanchi: l’andatura imposta da Woggha li aveva spossati. Quell’orco preferiva sentire le gambe fargli male, piuttosto che rischiare di essere inseguiti o, peggio ancora, di giungere in ritardo dinanzi al loro Signore Uruk-Tal.

    «Capotribù Woggha, sono esausto! Devo rifiatare e bere un sorso d’acqua, vi prego...»

    Woggha si voltò di scatto verso il suo soldato e la sciabola tatuata sulla guancia, simbolo della sua tribù, si contorse quando digrignò i denti.

    «Muoviti! Non possiamo tardare o dirò a Uruk-Tal che la colpa del ritardo è tua!»

    «Vi imploro, Capotribù...»

    Woggha si voltò di nuovo e si rese conto di quanto il compagno fosse ormai allo stremo delle forze. Quasi due giorni ininterrotti di corsa avrebbero lasciato il segno su chiunque. Per qualche istante ragionò sull’eventualità di ucciderlo e di liberarsi dell’impiccio, ma non desiderava eliminare senza motivo gli appartenenti alla sua stessa tribù; preferiva trucidare quelli delle tribù rivali e immaginò pure che in un futuro non lontano ogni braccio armato sarebbe tornato utile.

    «D’accordo, ci fermiamo per poco. Bagnati le labbra come puoi, ma al mio segnale si riparte e non ci si ferma più fino ad Alberonero.»

    «Agli ordini!» rispose l’altro orco, lasciandosi cadere a terra col fiatone. Sorseggiarono qualche goccia d’acqua da una fiasca di pelle mentre Woggha osservava il territorio circostante.

    «Pensate che il nostro Signore Uruk-Tal si arrabbierà per l’esito della nostra missione?»

    Woggha parve incupirsi.

    «Abbiamo buone informazioni da offrirgli, ma quel gruppo di Nani ci ha intralciato proprio quando avevamo deciso di tornare indietro! Ha compromesso la nostra missione: siamo usciti allo scoperto e ora sanno che ci aggiravamo nei loro territori. Temo che il nostro Signore non sarà contento di questo.»

    «Quindi possiamo dimenticare ogni possibilità di entrare a far parte della sua Orda, agli ordini del Comandante Mazhug?»

    «Mi preoccupa di più l’eventuale punizione a cui saremo sottoposti» rispose Woggha con amarezza.

    Non c’era comprensione o compassione nella loro società, votata per intero alla guerra e organizzata in modo fortemente gerarchico. Un fallimento veniva punito con la pena capitale e il condannato poteva ritenersi fortunato, poiché altri castighi prevedevano grandi sofferenze prima di una morte liberatoria.

    «In marcia, manca poco!»

    Ripartirono di corsa e l’esploratore non osò più rivolgere la parola al Capotribù. Poche ore dopo furono in vista delle vette meridionali di Falcegrigia, la catena montuosa che cingeva il territorio degli Orchi. Ai margini delle pendici e fino alla palude di Acquechete si estendeva una foresta di alberi col tronco di colore nero, dai rami robusti e contorti e dallo scarso fogliame. Nascosta nel folto del bosco, era stata eretta la città di Alberonero.

    La pattuglia raggiunse le mura perimetrali quando ormai il sole stava per tramontare. Illuminati da quella scarsa luce i mattoni di fango di cui erano composte sembravano neri, quasi quanto i tronchi dei dintorni, e davano un aspetto sinistro all’intera città. Woggha salutò le sentinelle appostate ai cancelli e si diresse senza esitare verso la dimora del Signore dell’Orda.

    Ad accoglierli all’ingresso dell’abitazione, costituito da un buio passaggio all’interno del tronco di un enorme albero che doveva trovarsi in quel luogo da diversi secoli, trovarono due imponenti guerrieri.

    «Capotribù Woggha di ritorno dalla missione a Durgrim» disse sostenendo senza timore lo sguardo dei due energumeni alle porte. Questi risposero con un grugnito e uno dei due li condusse all’interno.

    Giunsero in un ampio salone che Uruk-Tal utilizzava per distribuire ordini e ricevere informazioni. In un lato c’era un tavolo di forma squadrata, sul quale erano state stese alcune grandi mappe dai bordi consunti; in quello opposto invece la parete era occupata quasi per intero da armi di diversa natura e dalle fogge particolari: spade, archi, alabarde, scudi, persino qualche ascia e un mazzafrusto, tutti oggetti di cui il padrone di casa era un estimatore. Altre guardie, con lo stesso sguardo truce di quelle alla porta, vigilavano in silenzio, stringendo in mano rozze spade dalla lama piatta.

    Ad attenderli al centro del salone, seduto su un trono dall’aria inquietante, costruito in legno, ossa e zanne di animale, che poggiava su di un rialzo in pietra, c’era Uruk-Tal: era chiamato anche il Campione di Alberonero, poiché nelle sue vene si diceva scorresse lo stesso sangue di Azhug-Tal, ereditato da una linea di discendenza diretta che resisteva da millenni.

    Quando l’esiguo drappello s’inginocchiò dinanzi a lui per fare rapporto, egli si alzò e si mise in posizione eretta, per giganteggiare su di loro e incutere ancora più timore.

    «Cos’avete da riferire?» chiese Uruk-Tal in tono sbrigativo.

    Woggha era un Capotribù abituato a non cedere alla paura, tanto nello scontro fisico quanto nel confronto dialettico, ma quando sollevò il suo sguardo, rimase scosso dalla mole del Signore dell’Orda: aveva spalle larghe e braccia simili a tronchi di quercia, che arrivavano fin quasi alle ginocchia, mentre la grossa testa sembrava piantata direttamente nel torace, senza il tramite del collo.

    «Mio Signore, abbiamo pattugliato le zone attorno alla città di Acquiroccia e di Roccavelata, come ci avete ordinato: hanno solide mura, ben costruite ma poco controllate. Le loro ronde sono poche di numero e non si allontanano molto dalla cinta perimetrale, lasciando quasi incustodite le terre più distanti.»

    «Come sono equipaggiati?»

    «Quasi tutti i nani appartenenti alla locale guarnigione girano con armature di cotta di maglia, a volte di piastre, e hanno in dotazione almeno un’arma: chi un’ascia, chi una balestra. A differenza nostra però, molti civili girano non armati.»

    «Ciò è molto interessante. E come avete trovato i territori a ovest del lago? Avete raggiunto la città di Fortequarzo?»

    Woggha esitò.

    «Ci eravamo spinti fino a nord della città di Acquiroccia, con l’intento di costeggiare il lago e arrivare a Fortequarzo, ma abbiamo avuto un intoppo.»

    I grigi occhi di Uruk-Tal fiammeggiarono e la cicatrice che li attraversava in diagonale ebbe un sussulto.

    «Siete stati individuati dalle loro sentinelle?»

    «Peggio, Signore» rispose Woggha mordendosi un labbro. «Era mattino presto e la nebbia ci aiutava a nasconderci da occhi indiscreti. Purtroppo però nemmeno noi potevamo vedere bene e così ci siamo imbattuti in un gruppo di nani. Costretti a uscire allo scoperto, abbiamo provato a combattere, ma erano forti e preparati, forse soldati dell’e­sercito. Si sono difesi bene e Ock-Lung è caduto, Signore.»

    «Che cos’hai detto?»

    Uruk-Tal andò su tutte le furie.

    «Branco di incapaci! Così rischiate di compromettere ogni cosa! Woggha, sei fortunato che non ho con chi rimpiazzare un fiutasangue abile come te, ma fallisci un’altra volta e la mia vendetta sarà più rapida di un tuo respiro.»

    Dicendo questo carezzò l’elsa della spada che teneva alla vita e Woggha comprese l’allusione. S’inginocchiò più volte fino quasi a toccare terra con il mento e uscì di corsa, seguito dal compagno.

    Uruk-Tal si volse a una delle guardie in tono brusco.

    «Convocate i Vassalli. Devo parlare con loro.»

    «Subito, mio Signore!» rispose il soldato scattando sull’attenti.

    I Vassalli erano gli elementi più fidati di un Signore dell’Orda: erano al di sopra delle gerarchie e servivano il loro padrone con fedeltà, facendo rispettare la sua parola su tutto l’esercito.

    I Vassalli di Uruk-Tal erano quattro e rispondevano ai nomi di Mazhug, Rugash, Garuda e Umhra; ognuno di loro maestro in una specifica arte.

    Mazhug era un guerriero esperto nella lotta e nelle armi pesanti, come magli o mazzafrusti: ogni Capotribù o guerriero tremava quando si trovava di fronte al suo sguardo indagatore durante le ispezioni. Persino i Comandanti di Schiera ne temevano il confronto.

    Rugash era un formidabile tiratore d’arco e al suo vaglio passavano tutti gli orchi che volevano entrare nella Schiera come arcieri. Garuda era il capo degli sciamani ed era soprannominato l’Ammaliatore, poiché la sua arte esprimeva il massimo potenziale quando influenzava le menti altrui, modificandone il comportamento o suggestionandole.

    Infine c’era Umhra, un Vassallo diverso dai precedenti. Era il braccio destro di Uruk-Tal, il suo fedele aiutante e la sua ombra. La sua corporatura snella non incuteva timore, al contrario: l’aspetto ordinario lo faceva passare inosservato e traeva in inganno, celando la sua reale pericolosità. Era in grado di scattare veloce come una frusta e maneggiava una lama lunga, sottile e ricurva, che nelle sue mani si trasformava in un’infallibile portatrice di morte. Alcuni ironizzavano sul fatto che Umhra sapesse celarsi nella barba di un nano senza che lui se ne accorgesse e riuscisse a ucciderlo prima del tempo di un respiro.

    Quando i Vassalli entrarono, si schierarono di fronte al loro Signore ed egli li osservò con soddisfazione: erano eccellenti combattenti e fidati esecutori di ordini, pronti a dare la vita se glielo avesse chiesto.

    «Vi ho convocati per dirvi che l’ultimo pattugliamento nelle terre dei Nani ha fornito utili indicazioni. Hanno città con buone difese, alte e solide, ma sono tranquilli, abituati a rintuzzare i nostri sporadici assalti alle miniere meridionali. Sembra non abbiano una rete di controlli che copra tutto il fronte meridionale e forse ciò potrebbe consentirci di trovare un varco con facilità. Sapete già che mi piacerebbe sottometterli con la forza, ma non voglio fare mosse avventate. Non siamo pronti e non siamo abbastanza, ma so che state lavorando bene e che presto potremmo esserlo. A che punto siamo con la fabbricazione di armi e armature?»

    «A buon punto, mio Signore» rispose Mazhug. «Ieri è giunto il nostro ultimo rifornimento di metallo da Forrartiglio, parte del bottino recuperato da Kharg e la sua Orda nell’ultima razzia alle miniere dei Nani.»

    «Eccellente. E con quel metallo possiamo armare i guerrieri?»

    «Sì, mio Signore.»

    «Benissimo. A che punto siete con l’addestramento?»

    «Procede bene. Assoldiamo dalle tribù molti nuovi orchi ogni mese. Prima di fine anno avrete al vostro comando cinquemila guerrieri, mio Signore. Il necessario per cinque Schiere complete.»

    «Molto bene» esclamò Uruk-Tal soddisfatto. «Rugash, a che punto sono gli arcieri?»

    «A buon punto, mio Signore. Seicento dei mille arcieri richiesti sarebbero pronti a partire in guerra anche domani, se fosse loro ordinato.»

    «Garuda, tu hai il compito più difficile. Quanti sciamani abbiamo a disposizione?»

    «Ne avete richiesti almeno cento, ma siamo soltanto a trentacinque. È difficile apprendere i rudimenti delle arti oscure, che richiedono talento e dedizione, così com’è difficile trovare orchi in grado di insegnarla. In questo l’Orda di Grond è più avanti di noi: c’è chi dice che ne annoveri almeno settanta.»

    «D’accordo, prosegui. Ma cerca di fare di più.»

    «Farò del mio meglio» rispose Garuda con leggero disappunto.

    «Miei Vassalli, vi ho convocati anche per un altro motivo. Il Triumvirato ha chiesto che entro la fine di questo mese io faccia rapporto circa la preparazione della mia Orda, così com’è stato chiesto agli altri Signori. Quando partirò e fintanto che sarò a Forrartiglio, lascerò a voi tre il comando delle operazioni qui ad Alberonero.»

    «Agli ordini!» risposero all’unisono i Vassalli.

    Uruk-Tal si rivolse poi a Umhra.

    «Tu invece verrai con me a Forrartiglio.»

    «Ai vostri ordini, mio Signore.»

    6

    Un nuovo incarico

    Seconda decade di Nebbioso, 3819

    Alcuni giorni dopo aver fatto rapporto al Consigliere, Gundar fu chiamato da Borin per discutere importanti questioni. Rimase in attesa dinanzi alle porte della sala del trono finché le guardie ricevettero l’ordine di lasciarlo entrare. Percorse con una certa emozione la distanza che lo separava dal trono e s’inginocchiò dinanzi al Re.

    Doròg stava discutendo alcuni dettagli con il Generale Grimdal Pugnomacigno circa il posizionamento delle vedette sul Tavoliere. Gundar non conosceva con precisione la sua età ma, raffrontandolo con Re Doròg, immaginò che fossero all’incirca coetanei. Nonostante ciò, Grimdal aveva fama di essere ancora uno dei guerrieri più temibili dell’intero Regno. Per rafforzare il significato delle sue spiegazioni, in quel momento gesticolava in continuazione: braccia e mani parvero enormi agli occhi del giovane nano, che si immaginò quale smisurata potenza riuscissero a sprigionare.

    Quando lo notarono, i due si voltarono verso di lui: il Re abbandonò per un attimo l’espressione corrucciata per distendersi in un raro sorriso, mentre gli occhi di Grimdal rimasero duri come il ferro.

    «Benvenuto, Gundar. Io sono molto indaffarato con il Generale, come puoi vedere, e non avrò molto tempo per voi. Mio figlio sarà qui a breve e sarà lieto di stare con te e di ragguagliarti su alcune incombenze di cui vorremmo che ti occupassi di persona.»

    «Certo, Maestà» rispose il giovane con un cenno del capo.

    Borin arrivò subito dopo e accolse Gundar con una stretta di mano vigorosa. Non aveva un fisico imponente ma considerava fondamentale per un futuro Re dimostrarsi onorevole sul campo di battaglia, così dedicava molto tempo a tenersi in forma. I capelli fluenti e non legati invece lasciavano intuire un carattere a volte impulsivo e focoso.

    «Vieni, sediamoci al tavolo. Fra noi le formalità non servono, soprattutto quando non vi sono altri a osservarci che mio padre e il Generale.»

    Aveva ereditato dal padre i lineamenti austeri, ma quando Gundar incrociò il suo sguardo notò come quello del Principe fosse più indulgente e più acuto. Si sistemarono uno accanto all’altro, sul lato meglio illuminato del salone.

    «Sono contento di vederti!» disse Borin sorridendogli. «Ho saputo delle spie che tu e i tuoi amici avete visto sulle rive dello Specchiopicco.»

    «Gran brutta faccenda. Se osano spingersi fino a quel punto, significa che potremmo essere più in pericolo di quanto immaginiamo.»

    «Non più... O perlomeno adesso spero di aver scongiurato parte di quel pericolo.»

    Borin raccontò della sua idea di usare i falconieri nei punti in cui erano nascoste le vedette e Gundar ne fu entusiasta.

    «Ora veniamo a noi, amico mio» disse il Principe. «Desidero chiederti due favori di una certa responsabilità. Mi farebbe piacere che sia tu a portarli a termine, invece di un altro.»

    «Ditemi come posso accontentarvi, Principe.»

    «Borengar mi ha detto che devi ancora recarti dal maniscalco per le armi da utilizzare durante la Contesa e spero che le mie richieste non ti creino delle difficoltà. Bene, la corona con la quale riceverò il titolo di Principe è opera del maestro orafo Eruli Manodoro, che abita a Sgorganube. Dovrebbe averla ormai ultimata e una scorta di soldati di Gabilrok è pronta per portarla qui a Torrescudo. Mi farebbe piacere se guidassi tu questo gruppo e fossi sempre tu a depositarla nel forziere che la proteggerà durante il viaggio.»

    «È un incarico di grande responsabilità.»

    «Ne convengo, ma mi fido molto di te e desidero che sia tu a maneggiare la mia corona.»

    «Io sono soltanto un soldato e per giunta a mezzo servizio. Non credo che altri miei pari grado accetterebbero di assecondare i miei ordini.»

    «Per questo non devi preoccuparti. Ho pensato a questo eventuale problema e ho chiesto al Maestro d’Arma Trandor Sputaferro di comandare questo piccolo drappello. So che siete amici, quindi non credo avrà nulla da ridire, se affido a te questo incarico.»

    «Trandor è un caro amico; negli ultimi anni abbiamo speso molto tempo insieme. Se verrà con me, tutto sarà più semplice.»

    «Benissimo, ne sono felice. Quando arriverete al suo laboratorio, troverete due guardie reali dinanzi all’ingresso. Considerando i preziosi su cui sta lavorando è stata nostra premura affidargli una scorta personale. Consegna questo» disse il Principe porgendo un rotolo di pergamena. «È un messaggio del Re con il sigillo della casata dei Brandispada, che ti autorizza ufficialmente a ritirare la corona. Lo riconosceranno e ti faranno passare senza troppe domande.»

    «Sarà fatto. Avete detto però che sono due i compiti che volete assegnarmi. Qual è dunque il secondo?»

    «So che manca poco e per un lavoro come quello che sto per chiederti ci vuole parecchio tempo, ma sarei oltremodo orgoglioso se fabbricassi per me la corazza da indossare alla Festa dell’Incoronazione.»

    Gundar spalancò la bocca per la sorpresa.

    «Ci sono tanti valenti armaioli a Gabilrok, perché volete affidare a me un compito così importante?»

    «Gundar, dopo che mio Padre mi adottò, il mio ruolo di rampollo dei Brandispada mi ha impedito di mantenere tutti i legami amicali che avevo da bambino. Sei il mio migliore amico e l’unico con il quale mi possa permettere conversazioni come quella che stiamo tenendo ora. Inoltre, so che sei un abile fabbro: hai imparato molto bene il mestiere di tuo padre e sono sicuro che sai costruire ciò che ti sto chiedendo.»

    «Vi ringrazio Principe Borin, siete troppo gentile.»

    «Non essere così modesto. La tua abilità è ben nota e riconosciuta e non desidero indossare una corazza costruita da altri che non sia tu. Pensi di avere tempo sufficiente per prepararla?»

    «Se non si tratta di un’armatura completa ma soltanto del busto, non dovrebbero servire troppi giorni di lavoro. Inoltre le armature da parata sono leggere e non richiedono molto metallo, dato che non devono proteggere dai colpi ma solo ostentare i vessilli di cui sono intarsiate. Penso di poterci riuscire! Avete richieste particolari per questa corazza?»

    «No, Gundar. Lascio a te ogni libertà di scelta. Sono sicuro che farai un buon lavoro.»

    «Vi ringrazio per la stima che mi accordate.»

    «Allora siamo intesi. Ti prego solo di partire entro domani.»

    «Sarà fatto.»

    «Un’ultima cosa, amico mio: parteciperai alla Contesa dello Scudiero?»

    «In effetti non ho ancora deciso. Ci saranno anche i gemelli Fendipietra e in un duello contro di loro non ho speranze.»

    «Eppure nel mio cuore alberga il desiderio di poter consegnare a te il simbolo del vincitore di questa contesa. Non potrei sognare una conclusione migliore. Ti prego, non deludermi.»

    «Così sia, Principe. Se me lo chiedete in questo modo, non posso che assecondare i vostri desideri.»

    «Il mio cuore esulta. Allora ti auguro buon viaggio a Sgorganube.»

    «Vi ringrazio, arrivederci» rispose Gundar con un inchino.

    Nel pomeriggio dello stesso giorno, Gundar e i gemelli si recarono a far visita al maniscalco di Gabilrok, Mengor Ruvidita. Era un abile artigiano, esperto nella lavorazione del legno e del cuoio e amava stare a contatto con la natura. Quando non era indaffarato al tornio con qualche lavoro urgente, trascorreva molto tempo su e giù per la valle, scegliendo il miglior legno da utilizzare e facendolo trasportare fino al suo laboratorio. Il suo passatempo preferito consisteva nell’intagliare a colpi d’ascia volti di nani in grossi tronchi, trasformandoli in totem d’aspetto severo, e alcuni di essi facevano la guardia a molti luoghi di Durgrim. Non aveva modi ricercati, perché a suo dire creavano distanza, e preferiva sempre un affettuoso abbraccio a un rispettoso inchino.

    «Salute, Mastro Mengor» esordì Gundar quando s’incontrarono.

    «Ciao Gundar, come stai? Quante volte ti devo dire di chiamarmi solo col mio nome? Vieni qui, fatti abbracciare» disse stringendolo forte e ricoprendolo di truciolo e segatura, di cui la sua barba era sempre infestata.

    «Ciao ragazzi» aggiunse agitando un’enorme mano callosa verso i gemelli.

    «Avete ragione, Mengor» si scusò il giovane «Ma come sapete il rispetto che nutro nei vostri confronti mi rende faticoso rivolgermi a voi in modo più amichevole.»

    «Come preferisci, ma sappi che ti farò sempre prezzi più alti fintanto che non imparerai a salutarmi come saluteresti Ardax o Thordax!» disse ridendo e le mille rughe del viso consumato dal tempo passato all’aria aperta sembrarono moltiplicarsi.

    «Mastro Mengor, sono venuto a trovarvi perché vorrei sapere se siete riuscito a completare le armi per la Contesa dello Scudiero. Al nostro ultimo incontro avevate espresso l’intenzione di terminarle per la metà di questo mese e Mastro Borengar vuole essere rassicurato in tal senso.»

    «Allora dite a Borengar il petulante, come lo chiamo io, che è tutto pronto.» Si girò di scatto e sussurrò a Gundar, come se qualcuno potesse sentirli. «Ma tu non

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