Hotel Rosa di Langa
Di Jim Van
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Anteprima del libro
Hotel Rosa di Langa - Jim Van
Empire
XIV sec.
La notte era scesa rapida e gelida come la scure sul collo di un condannato.
A un pomeriggio primaverile che aveva scaldato i cuori e le vesti degli uomini sul piccolo carro trainato da una coppia di ronzini, era subentrata un’oscurità ventosa e coperta da nubi gravide di maltempo.
– Entro poco saremo a Porta Tanaro – disse uno piano, guardandosi intorno truce.
Il cappuccio logoro gli cadeva ingloriosamente ai lati del viso.
Il vicino annuì, aggiustandosi il mantello sotto cui teneva la balestra pronta all’uso. Aveva il piede nella staffa cosicché, in caso di pericolo, sarebbe bastato fare forza con le braccia, portando la corda in posizione dietro il dardo, già nella scanalatura.
L’uomo alla guida del carro gettò un’occhiata dietro le spalle.
Un vecchio sembrava dormire, steso sulle assi scheggiate del pianale.
– Magister, ci siamo quasi. Vedrete, quando saremo al sicuro avremo da mangiare caldo, e un cerusico per la vostra infezione – mormorò guardando il viso dell’anziano, cercando di capire se avesse compreso quanto detto.
– Magister? – chiamò ancora.
Il vicino con la balestra scavalcò la cassetta, entrando nel retro.
Il carro aveva quattro ruote e un aspetto malandato. All’interno, nascosto da rimasugli di tendaggi, pendeva un lumicino tenuto al minimo agganciato ai pali che costituivano la struttura superiore. Mazzi di aglio, otri di acqua e vino legati alla struttura di legno ondeggiavano appena, spinti dagli scossoni della pista.
L’uomo sfiorò la fronte al vecchio coperto con un mantello di pelle d’orso pulciosa e spelacchiata.
La sua mano sentì subito la fronte scottare.
L’anziano biascicava parole senza senso.
– Fratel Giovanni, fermiamoci – disse piano.
Il suono del Tanaro, superato senza problemi con la chiatta di un barcaiolo, e del bosco riempivano l’aria.
L’uomo alla guida del carro comprese quanto fosse grave la situazione.
– Va bene, fratel Guido. Va bene – disse accettando il peso di cosa significava arrestare il cammino a così poco dalla meta.
Scelsero uno spiazzo poco lontano dalla pista, posizionandosi in un punto in riva al Tanaro coperto da castagni, pavimentato da terra e muschio.
Legarono i cavalli poco lontano e spensero il lumicino, fondendosi con i giochi di ombre di quel bosco appena illuminato dalle stelle che comparivano tra le nuvolacce come lembi di pelle sana sul corpo di un lebbroso.
Un fuoco era fuori discussione, sia per il fumo che per la vicinanza con le mura di Alba, pattugliate da una guardia cittadina papista e poco incline alle spiegazioni ragionevoli.
– Mettigli ancora questo – disse Guido togliendosi il suo mantello, un lembo di stoffa sfibrata.
Giovanni entrò nel carro, coprendo l’anziano.
Posò la mano sul fianco del vecchio dove la ferita di pugnale fasciata e medicata con orina di cavallo bollita non voleva cedere alle poche virtù mediche di fratel Guido, peggiorando a vista d’occhio.
Da tre giorni l’anziano aveva la febbre e continui svenimenti.
Guido rabbrividì per il freddo.
Oltre il suono delle fronde percepì uno scalpitio di cavallo.
Gli bastò fischiare nei pollici uniti per comunicare a Giovanni l’eventualità di essere incappati in un pericolo. Infilò il piede nella staffa della balestra preparandola al tiro, inginocchiandosi poi contro la ruota del carro.
Un cavaliere apparì nell’oscurità, fermandosi sulla pista, proprio dove si trovavano poco prima.
Lo straniero mosse in circolo il cavallo.
Dalle froge dell’animale usciva vapore che spiraleggiava, come se bestia e cavaliere arrivassero dall’inferno.
Il cavaliere notò il carro e si avvicinò.
Guido riconobbe il profilo del compagno partito verso la città poche ore prima, come avanguardia.
Fratel Morgano smontò.
Aveva indossato stivali, berretto di lana e un mantello con un ampio copri spalle dall’aria vagamente clericale per sembrare un normale proprietario terriero e poter entrare ad Alba senza troppi problemi.
– Quali nuove dalla città delle Cento Torri, fratel Morgano? – chiese Giovanni, comparendo alle sue spalle. Teneva la spada appoggiata alla spalla, sporcata in fretta di fango per poter aggirare il compagno che si stava avvicinando senza essere tradito da riflessi metallici, temendolo un testimone indesiderato.
Morgano scosse la testa.
– Ho incontrato il nostro confratello, che è ben nascosto e ha un rete affidabile di alleati. Ma per questa notte non si può entrare. Alcuni mercanti di Asti intorno all’ora sesta hanno creato un po’ di gazzarra per una questione di patenti di vendita non regolari per i gabellieri di Porta San Martino... i controlli sono troppo severi per oggi. Faremo domani, ai mattutini, durante il cambio della guardia – spiegò amareggiato.
I due compagni lo fissarono, cercando di fargli capire quanto il magister si fosse aggravato nelle ultime ore.
Guido sputò a terra, appoggiandosi la balestra contro il petto.
– Ancora gli astesi, questa gente non ci porta fortuna – grugnì.
– Il magister potrebbe non farcela.
Giovanni parlò svelto, come per allontanare subito il dolore di un’affermazione del genere.
– Non possiamo portare qui un cerusico.
– I miei infusi di aglio e ortiche hanno smesso di fare effetto due giorni fa. Sono rimedi da caserma, buoni per truppe scrofolose. Il magister ha bisogno di un vero chirurgo – aggiunse ancora Giovanni, avvicinandosi a Morgano.
Tutti e tre udirono l’anziano lamentarsi nel dormiveglia.
Morgano entrò nel carro, prendendo la mano del vecchio nella sua.
– Magister. Non penserete di lasciarci proprio ora. Sono di ritorno da Alba. Domattina potremo entrare. Fratel Biagio ci accoglierà in San Domenico. Dovete resistere magister. Mi sentite? – chiese Morgano, stringendo quell’appendice ossuta, di un uomo chiaramente al termine della sua vita.
– Capitano Morgano? – chiamò l’anziano– Stavo sognando. Sogno spesso da quando abbiamo lasciato Asti. San Bernardo mi porge un rosario e mi invita a seguirlo verso la luminosa caligine, con lui ci sono Ugo da Pany e Jaques da Molay, quel pazzo bastardo compagno di molte battaglie della mia giovinezza...–
Morgano sollevò la pelle d’orso e i mantelli, percependo subito il lezzo dolciastro di una ferita in suppurazione.
– Ricordate cosa mi avete detto sedici anni fa magister? Eravamo ad Acri. Ero vostro scudiero da poco. Abbiamo combattuto bene quella volta – chiese piano, lasciando andare le coperte e accarezzando con tenerezza la mano dell’anziano in fin di vita.
– No fratello, non lo rammento davvero più. Ma abbiamo perso tutto quel giorno, Morgano – mormorò il vecchio.
Il corpo dell’uomo steso sul carro si tese per pochi secondi, squassato da tremiti incontrollabili.
– Magister... – Morgano sentì gli occhi inumidirsi.
Il magister aprì appena gli occhi, riprendendo per un attimo un barlume di sanità. Guardò Morgano negli occhi, buttò lo sguardo fuori su Guido e Giovanni, in apprensione ma guardinghi.
– Siamo più straccioni di un gruppo di francescani – Gorgogliò il vecchio cercando di ridere – La mia spada ora Morgano. E benedicimi.
Morgano si voltò, notando che Giovanni era già sotto il carro, togliendo dal doppiofondo in cui tenevano l’arsenale, e la spada personale del magister. Gliela porse insieme a un mantello bianco sporco e rovinato, con rimata una croce rossa.
Il vecchio si riprese un pochino al tocco dell’elsa.
– Maestro Arnoldo di Montesa. Protettore del Tempio e portatore santo dell’Ordo Cognoscendi, ti penti dei tuoi peccati? – pronunciò Morgano, cerando di non cedere alla tristezza.
L’anziano annuì piano, rilassandosi come se stesse scivolando in un bagno caldo.
– Ego te absolvo...
Iniziò Morgano.
Giovanni e Guido si inginocchiarono.
Terminata la benedizione Morgano scese dal carro, tirando la tenda che chiudeva quel lato scoperto.
– Che ne sarà di lui? – chiese Guido.
Morgano si sfilò un busta sigillata da ceralacca dall’interno della giubba di cuoio, sotto il mantello da civile. Anche se il magister non aveva mai approvato un indumento così sfacciatamente militare, quella protezione gli aveva consentito di adempiere bene al suo dovere, uscendo illeso da svariati assalti di briganti e assassini.
Almeno fino a una settimana prima, in una locanda di Asti, dove più di trenta ubriaconi e tagliagole, credendoli affiliati albesi della famiglia Solari, si erano avventati su di loro, ferendo mortalmente il magister.
La busta era da tre anni nascosta sul suo petto, nella tasca interna della giubba.
Il magister stesso l’aveva scritta, poco prima della loro partenza da Valencia, nel castello della sua famiglia, da aprire solo in caso di sua morte in territorio ostile.
Morgano ruppe il sigillo, leggendo le richieste in latino vergato a penna.
– Lo seppelliremo qui, dove è morto. Un cappella semplice, con lui la sua spada e l’Ordo cognoscendi. Consegneremo al fratello copista lo pseudobiblium e la pergamena con il nostro itinerario fino qui. Il vero Ordo andrà con il magister. Dobbiamo anche trovare un carpentiere per costruire una cappella con alcuni dettagli, così che i confratelli riconoscano il Sentiero e il Segreto sopravviva – spiegò concentrato nella lettura.
L’uomo nel carro sospirò forte, poi non si udì più il suo respiro affannoso.
Morgano smise di leggere.
Guido e Giovani abbassarono la testa, mormorando piano qualche preghiera.
Il Tanaro scorreva tranquillo e il vento muoveva le cime dei castagni, facendo scendere su di loro foglie fredde e umide.
1
Un giovane uomo si lasciò cadere sulla sedia massaggiandosi le tempie.
Sfilò il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni, buttandolo sul piano di vetro della scrivania.
Infilò l’unghia del pollice tra i denti, meditando sul fastidio per quel caso, da un giorno e mezzo tramutatosi in un rompicapo.
Si alzò buttando un’occhiata dalle persiane socchiuse.
Almeno la folla arrivata ad Alba per la Fiera del Tartufo stava scemando.
Per colpa della maledetta inclinazione terrestre però le giornate erano diventate fastidiosamente brevi, ragion per cui a irritarlo c’era anche quell’aura di notte incombente, nonostante fossero solo le cinque del pomeriggio.
Allungò la mano verso il volume del Dizionario Filosofico Italiano, in cui nascondeva una bottiglia di Mathusalem e due bicchieri.
Quando strinse il dorsalino, il campanello trillò una volta e lasciò subito andare il librone trasformato in casettina.
Raggiunse la porta a vetri, facendola scorrere da parte e aprendo piano la seconda porta di legno massiccio più esterna.
– Scusi il disturbo. Posso? – disse un vecchio.
L’uomo non ebbe reazioni, invitandolo ad accomodarsi.
Chiuse la porta mentre il cliente si accomodava, voltando le spalle al vetro satinato con la scritta trasparente in caratteri fini: G. Marello investigatore privato.
L’uomo appena entrato si aggiustò un cappotto nero consumato, con il colletto più volte rammendato e un paio di bottoni diversi. Le scarpe da uomo anonime, graffiate e rovinate tanto da sembrare scamosciate sulla punta e sui fianchi, si avvolsero alle gambe della sedia.
Dietro di sé aveva lasciato un leggerissimo odore di uova marce, effimero come un alito d’incenso.
Giacomo si sedette, aprendo le mani come per rispondere a una domanda ovvia, incurante di sembrare maleducato.
– Di nuovo lei notaio Venezia. Non ho ancora quello che mi ha chiesto ieri mattina – disse appesantito dall’insuccesso.
– Dottor Marello carissimo, non si preoccupi. Ho profonda fede in quello che le ho commissionato. Non mi avrà preso per un uomo impaziente – disse l’anziano al giovane uomo, sorridendo appena sotto la barba grigia, ingiallita dalla nicotina intorno alla bocca. Lo