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Dagger: La luce alla fine del mondo
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Dagger: La luce alla fine del mondo
E-book310 pagine4 ore

Dagger: La luce alla fine del mondo

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Info su questo ebook

Dagger è un ragazzino di strada, cresciuto in una città governata da un brutale totalitarismo. Non sa di essere venuto alla luce attraverso un rito blasfemo solo per riportare in vita suo padre, un dio sanguinario la cui anima è stata esiliata dal mondo all'alba dei tempi. Viene nascosto in una gilda di piccoli farabutti, dove una ragazzina albina è l'unico essere che non lo considera un mostro a causa dei suoi occhi rossi, ma quando i Gorgor, servi del dio esiliato, danno fuoco all'intera città dove è stato nascosto per stanarlo, Dagger capisce che non esiste alcun rifugio per lui.
Sin troppo presto, capirà anche che nessuno può combattere contro se stesso.

Ho scritto un romanzo il cui scopo fosse spezzare con la tradizione, indirizzando la narrazione verso tematiche più esistenziali rispetto alla vecchia e abusata formula del male contro il bene. In ‘Dagger’ la lotta del bene contro il male non è netta, né facilmente individuabile, ma è un processo tormentato, interno al protagonista, il cui esito è difficile da prevedere. Non vendo messaggi precotti al lettore, ho preferito creare un testo che si aprisse a più chiavi di lettura.

LinguaItaliano
Data di uscita10 gen 2014
ISBN9781311288349
Dagger: La luce alla fine del mondo
Autore

Walt Popester

Classe 1985, Walt Popester ha navigato per anni in giro per il mondo, lasciando che le differenti culture, lingue, cucine, architetture e religioni contaminassero il suo modo di concepire l'esistenza e di scrivere. La saga Dark Fantasy ‘Dagger’ è il risultato di sette anni di ininterrotto lavoro, tra stedure ed editing continui, passati quasi interamente a cercare l’elemento esotico e il punto di rottura con la tradizione. Non ha gatti, non ha una coda da cavallo, ha un debole per l'Italia centrale e, quasi di conseguenza, pensa che una persona non dovrebbe avere più amici di quelli che può ospitare alla sua tavola.

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    Anteprima del libro

    Dagger - Walt Popester

    1. Dagger

    Dagger si portò una mano alla cintola per accertarsi, ancora una volta, della presenza di quell’unico oggetto dal quale non si sarebbe mai separato: il suo coltello a serramanico. Acquattato in un vicolo buio, immerso sino alle caviglie nude nel canale di scolo che correva parallelo al muro, si sporse a guardare la strada. L’insegna sgangherata dello Zingaro dondolava avanti e indietro nella pioggia battente, prendendosi gioco di lui col suo freddo risolino arrugginito. La luce all’interno della taverna era ancora accesa, eppure nessuno attraversava quella maledetta porta da almeno un’ora.

    Per Ktisis! imprecò tra sé e sé, appiattendosi ancora una volta contro la parete. Per Ktisis cane!

    Sentiva le dita dei piedi pizzicare come se punte da mille aghi. Il principio di un congelamento, pensò. Aveva visto molti Ragni perdere le dita in quel modo e venire degradati da ladri a semplici accattoni, costretti a trascinare i loro patetici moncherini in giro per commuovere la gente ed elemosinare qualche spicciolo. Lui non voleva finire così. Tirò fuori dall’acqua gelida un piede, poi l’altro. Cercò di muovere le dita, ma ormai non le sentiva più. Doveva sbrigarsi a portare a termine il lavoro o tornare alla gilda con le mani vuote. E con tutte le conseguenze del caso.

    Si sporse di nuovo a guardare, tenendo sotto controllo ogni singolo movimento delle ombre che lo circondavano. Si voltò a destra e il suo cuore mancò un battito; una figura oscura avanzava verso di lui, lenta nella pioggia. Dagger strinse le dita intorno all’impugnatura del coltello, poi capì che si trattava di una guardia cittadina e la voglia di usare la lama gli passò di colpo. C’erano dei patti da rispettare e i patti erano importanti, diceva sempre il vecchio Mamma. Su quello c’era da dargli ragione. La guardia si fermò poco distante, senza alcuna intenzione di intrufolarsi nei vicoli insicuri come quello dove stava nascosto lui. Sembrava solo voler portare a termine la sua ronda e tornare a un qualsiasi posto che avesse un tetto, o perlomeno un pavimento.

    Guarda i miei stivali! si lamentò, con poco più che la voce di un ragazzo. Alzò il volto al cielo. Ktisis, falla finita con questa pioggia!

    Il cielo gli rispose con l’ennesimo scroscio d’acqua. Scoraggiato, il ragazzo che era stato vestito dalla società come un adulto cacciò fuori un sacchetto di cuoio dalla tasca, e si versò un po’ di polvere magica sul dorso della mano. Tirò una lunga sniffata e rimase lì, immobile, a guardare il nulla per un tempo interminabile. Per un momento sembrò osservare proprio il vicolo dove stava nascosto, ma i suoi occhi erano fissi, spenti, e non cercavano niente e nessuno. Presto si riempirono di lacrime. Dagger provò una profonda vergogna ad aver spiato l’intimo dolore di quel ragazzo. Si sentì un ladro, più di quando derubava i clienti fuori da una taverna per sopravvivere. Già, pensò. Ktisis deve essere davvero troppo occupato per noi, stanotte.

    La giovane guardia riprese il proprio solitario cammino nel buio e lui osservò la sua sagoma ombrosa allontanarsi e infine sparire, rivelando una statua di legno posta in fondo alla strada, rinchiusa in un’edicola sacra e circondata da lumi rossi: Ktisis, il dio sciacallo della violenza e del peccato, creatore del mondo e delle creature condannate a calpestarlo. Ktisis non avrebbe ascoltato alcuna supplica che non fosse accompagnata da un bagno di sangue degno del suo nome. A pensarci bene, ora che si stava avvicinando la sua festività annuale, la sacra mattanza dell’origine dell’universo, le guardie del Prefetto Mawson non aspettavano altro che poter catturare un ladruncolo come lui per rivenderlo agli organizzatori dei sacrifici tenuti per l’occasione. Quel genere tutto particolare di organizzatori di eventi pagava bene, non essendo mai il clero cittadino a corto di denaro.

    Dagger aveva assistito solo una volta alla sacra mattanza, quando uno dei suoi compagni era stato catturato e condannato a espiare le proprie colpe attraverso il dolore. Il vecchio Mamma aveva detto che avrebbe fatto bene a tutti andare a guardare cosa succedeva a chi era così stupido da farsi beccare e, in effetti, quello che aveva visto era stato piuttosto convincente; alcuni dei sacrificandi dovevano essere ancora vivi quando il rito era finito e il pubblico era fluito dall’anfiteatro. Per quanto venerasse e temesse il suo dio, come tutti in quella città, Dagger non aveva più voluto assistere a una delle sacre mattanze, figurarsi esserne protagonista. Ci teneva al suo coso. Potevano strappargli tutto, ma il suo coso proprio no.

    Sbucò al centro della strada, poggiando i piedi sulla dura superficie del ciottolato. Trovò piacevole tirarsi fuori dalla melma ghiacciata per un momento. A poco a poco tornò in possesso delle dita e riuscì persino a muoverle; forse non le avrebbe perse. Alzò lo sguardo al cielo, osservando le gocce che cadevano contro il suo volto, e pregò. Pregò l’orribile dio sciacallo senza occhi, l’immondo dio del tormento e dell’orgasmo, colui che aveva generato il mondo e che poi, vedendo i troppi affanni cui aveva condannato gli uomini, aveva deciso di ricompensarli con il vino, la lussuria e tutto ciò che rendeva la vita più sopportabile. Pregò. Pregò Ktisis di smetterla di fare lo stronzo e aiutarlo almeno per quella notte, quella notte soltanto, poi in qualche modo lo avrebbe ripagato. Fu solo allora che il dio sembrò infine ascoltarlo. Una voce burbera esplose nel silenzio, strappandolo alle sue preghiere: "Quando noi chiudere, chiudere! urlò l’oste, lo Zingaro in persona. Non rimanere aperti per un sola persona. Fanculo a tu casa!"

    Dagger era già sparito nel vicolo quando un ragazzo atterrò con la schiena sul ciottolato, lacerandosi la giubba e la pelle. Dopo una breve lotta contro la gravità, e l’acqua che rendeva il terreno scivoloso sotto i suoi eleganti mocassini, riuscì a tirarsi in piedi per cercare di urlare qualcosa che la sua lingua impastata trovò difficile da articolare in sillabe. Lo Zingaro rispose sbattendo la porta e spegnendo il lume alla finestra.

    Il ragazzo guardò quella porta chiusa, mormorando, poi ciondolò verso il muro e riuscì a poggiarci un gomito prima di vomitarsi addosso. Cadde subito dopo in ginocchio, piagnucolando per i vari dolori della vita e per tutte le cose che non andavano. Dagger gli lasciò tutto il tempo di lamentarsi, trovando che fosse giusto così, quando però il giovane ubriaco si rialzò per strascicare le gambe sulla via di casa agì in un lampo; gli serrò un braccio intorno alla gola e lo trascinò nel vicolo, così come un ragno traina nel buco la mosca immobilizzata. Lo spinse a terra con già la lama sul collo e una mano sulla bocca. Era facile gestire gli ubriachi, per questo sceglieva sempre le taverne per il lavoro di routine.

    Se fossi in te eviterei di chiamare aiuto, disse. È buio. Nessuno ti vede morire nel buio e nessuno ti aiuta, nel buio. Non in questa città. Non a Melekesh!

    I due occhi pieni di lacrime e paura gli risposero che, in quel momento, andava bene qualsiasi cosa. Gli tolse la mano dalla bocca e il ragazzo non urlò, limitandosi a pisciarsi addosso. Non doveva essere troppo più grande di lui a giudicare dalla corporatura.

    La tua voce… sei un bambino? biascicò. Anche tu ti senti così sol–?

    Dagger lo tramortì con il suo pugno leggendario, leggendario almeno alla gilda dei Ragni, e gli lasciò il tempo di sputare sangue e denti prima di sollevarlo per il bavero. Fa’ il bravo! Lasciami lavorare in fretta e tra poco te ne tornerai a casa. Vivo.

    Il ragazzo allargò le braccia, ricominciando a piangere, e lui lo ripulì in fretta procedendo con movimenti veloci e affinati dalla pratica. Gli trovò sei Dragoon addosso, una vera fortuna di quei tempi, segno che Ktisis si era svegliato da qualche parte a Almagard, la grande taverna dell’aldilà. Estasiato dall’inconfondibile tocco dell’oro sorrise spontaneamente, tuttavia quel momento di distrazione gli costò caro. Il suo cliente allungò una mano e gli strappò il fazzoletto dal volto, urlando come un pazzo: Al ladro! Al fottuto cazzo di ladro!

    Dagger imprecò e gli serrò di nuovo la mano sulla bocca. Venne morso, allora fece scattare il coltello sotto ai suoi occhi per ricondurlo alla calma, ma una luce venne accesa e illuminò, in pieno, tutto. Alzò lo sguardo; affacciato dalla porta con una lampada in mano c’era il maledetto Zingaro.

    Il colore dei tuoi occhi, fece il ragazzo a terra. Oh Ktisis! Di che colore sono i tuoi occhi?

    Scacco matto al re, pensò Dagger. Regola numero uno! urlò la voce del vecchio Mamma nella sua mente. Chi ti vede in volto mentre lavori, muore!

    Porco Ktisis, mormorò.

    Il suo cliente si limitò ad alzare le mani tremanti a mezz’aria. Non mi uccidere, ti-ti prego, non mi uccidere, guaì. Mi dispiace, mi dispiace! Non voglio morire, ti prego! Ho paura!

    Sta’ zitto, maledizione!

    Cazzo succede là fuori?

    Merda!

    Aiuto!

    "Eddai, Sta’ zitto!"

    Oh, col cazzo che me venire là fuori per aiutare sconosciuto! sentenziò lo Zingaro, prima di sbattere nuovamente la porta e spegnere la luce. Dagger abbassò lo sguardo sul suo cliente. Lo sentì tremare sotto il coltello.

    E… e adesso?

    Gli sorrise. "Adesso? Mi hai visto in volto, secondo te cosa succede adesso? Devi morire, non esiste alternativa. Un morto non racconta dice sempre il vecchio e su questo ha maledettamente ragione. Se non lo facessi ci sarebbero delle conseguenze, lo sappiamo entrambi. Ci sono sempre delle conseguenze a questo mondo, soprattutto per quelli come me, però strappandoti la vita posso rimediare. Sarai d’accordo."

    No!

    Oh sì.

    Io ho una sorella, una piccola sorellina. Ti prego, voglio rivederla, lei ha solo me.

    Dagger rimase a lungo in quella posizione, con il coltello stretto nella mano, il filo della lama che premeva sulla pelle della gola, sulla carotide e la vita che scorreva dentro. Poi il ghigno scomparve dal suo volto. Chiuse gli occhi e, imprecando sommessamente, maledì ancora una volta il giorno in cui era nato.

    È la tua notte fortunata, disse solo, rialzandosi. Hai detto le parole magiche.

    Quando gli occhi del ragazzo domandarono spiegazioni, lo tramortì con un calcio sulla tempia. Sperò che fosse abbastanza forte da fargli scordare un po’ di cose.

    * * * * *

    Era l’alba quando Dagger fece ritorno al cimitero delle navi, il quartiere di Melekesh dove a chiunque avesse qualcosa da farsi togliere, compresa la vita, veniva sconsigliato di avvicinarsi. Qui non esistevano strade, non esistevano vicoli. Il cimitero era interamente costituito dalle navi che nel corso dei secoli erano state spiaggiate e abbandonate a marcire al sole, alcune ridotte a scheletri di legno che non sembravano aver mai visto tempi migliori, altre erose dal vento, rosicchiate dai roditori, smantellate per trarne legna da bruciare prima che l’acqua ne intridesse la stessa anima. Le navi imputridivano ovunque e il loro scricchiolio si levava nell’aria in un interminabile lamento funebre, più debole d’estate, più forte d’inverno quando l’umidità dilatava le assi di legno facendole spaccare. In quel luogo malsano, dove tutto era sospeso tra fango, catrame e mare, la lama mieteva più vittime della fame. A stento i suoi abitanti superavano i trenta anni di età e il vecchio Mamma, con i suoi venerabili sessant’anni o giù di lì, era uno di loro. Forse era sopravvissuto tutto quel tempo perché raramente usciva dal suo vascello. A dir la verità, Dagger non ricordava di averlo mai visto uscire neanche dal suo studio. In uno stagno piccolo e affollato di pescecani, Mamma aveva capito che attirare poca attenzione era un buon modo per rimanere vivi, soprattutto quando questo significava non pestare i piedi alla più influente gilda del quartiere, situata nei tre imponenti galeoni ancorati al centro del cimitero. Lì, dove finiva chi riusciva a far carriera in quel piccolo, porco mondo popolato da usurai, stupratori e ladri, puttane, ricettatori e contrabbandieri, dove si uccideva per niente e si moriva per meno. Persino le guardie del Prefetto Mawson avevano paura ad avventurarsi nel quartiere; non c’era alcuna legge se non quella che si davano i suoi abitanti di morte in morte.

    Dagger mise piede sul ponte del vecchio vascello dove Mamma aveva stabilito il suo covo, crollato in più punti e tappezzato da riparazioni che, alla lunga, ne avevano sconvolto l’originaria architettura. Quella non era più una nave, non era mai stata una casa e non sarebbe mai diventato un rifugio. Quella era solo la tana, il buco del ragno, dove rientrare alla fine della notte.

    Bussò tre volte sei colpi alla porta e attese. Due occhi grandi e verdi apparvero dalla fessura dello spioncino. Parola d’ordine.

    Al Prefetto Mawson puzzano le mani della nostra merda, rispose Dagger.

    Gli occhi scomparvero e la porta venne aperta in uno sferragliare di catenacci. Tutti i Ragni erano già rientrati, ci avrebbe scommesso. Qualcuno forse non era neanche uscito; per molti in quei giorni era diventato più facile accettare l’inesorabile punizione di Mamma piuttosto che avventurarsi là fuori con il buio e la pioggia, considerata soprattutto la prossimità delle feste sacre tenute in onore del dio Ktisis e delle loro singolari celebrazioni.

    La luce nebbiosa penetrava a stento attraverso le spaccature nel soffitto, cadendo su un gruppo di Ragni seduti a giocare a dadi con i coltelli piantati nel pavimento. Si domandò dove trovassero tutta quell’energia al termine della notte, poi vide alcuni di loro leccare di nascosto la polvere magica dalle dita sudicie e dai loro sorrisi estasiati capì che Mamma si sarebbe presto arrabbiato di nuovo; odiava quando i suoi ragazzi usavano quei rimedi per tenersi svegli e non sentire la fame, erano un reddito per lui, tutti, e quelli che non aveva perso per colpa delle malattie e delle guardie li aveva persi dietro a quella polvere. Alcuni Ragni tossivano, altri si grattavano con violenza le pustole sulle braccia e le gambe, altri ancora giacevano a terra svenuti, almeno sperava, per la stanchezza o l’inedia. Solo, in un angolo, uno di loro sputò un grumo di sangue a terra. Non si sorprese che gli altri lo evitassero.

    Il piccolo disgraziato tese la mano verso di lui, guardandolo con gli occhi affossati nelle orbite. Dammi una Dragoon, sussurrò. Ce l’hai una Dragoon, Dag?

    Ma Dagger andò oltre. Era già morto, aiutarlo avrebbe solo significato prolungare le sue sofferenze: la morte verde non risparmiava. Con la gialla forse te la cavavi, se qualcuno ti amputava le mani prima che la putrefazione si mangiasse il resto del corpo; con la verde, invece, era meglio lasciar perdere da subito. Marcivi lentamente, giorno dopo giorno, ti osservavi cadere a pezzi e l’odore che assumevi non era più quello di un essere umano, non uno vivo almeno, ricordava piuttosto quello del pesce lasciato marcire al sole in un afoso giorno d’estate. Era una malattia con un sottile senso dell’ironia, tuttavia: quando la putrefazione si fermava, quando sembrava che le cose stessero migliorando e che dopotutto ti saresti salvato, quello era il momento peggiore; lì potevi star certo che il morbo aveva iniziato a mangiarti da dentro e all’improvviso, un bel giorno, ti svegliavi con le larve che premevano contro la pelle della pancia per aprire un buco dal quale uscire.

    Si lasciò cadere a terra in fondo alla stanza e poggiò la testa nell’incavo del braccio, cadendo subito addormentato. Venne svegliato da uno schiaffo. Quanto ho dormito? domandò istintivamente.

    La tua testa è praticamente rimbalzata sul pavimento, fratellone.

    Dagger riuscì a tenere gli occhi aperti. Ricordò il suo nome, ricordò chi era e su quale mondo viveva ma, ancora una volta, gli sfuggì il perché. Incrociò gli occhi di Seeth, che lo guardava sorridendo come sempre.

    Stancuccio eh?

    "Be’, io ho lavorato, sorellina."

    Quanto hai fatto?

    … ‘sciami dormire.

    Dag, quanto?

    Sei Dragoon pulite pulite, mormorò Dagger, strofinandosi gli occhi e sbadigliando. E tu? Tu quanto hai fatto?

    Niente.

    Oh, davvero?

    Niente di niente! ripeté Seeth, guardando giù con occhi persi. Questo posto non ce la fa a mantenerci tutti. Siamo troppi. Qualsiasi disgraziato vomitato dalla città finisce nella gilda e così–

    Quanto ti serve?

    Lei alzò il volto. Odiava chiedere aiuto, la conosceva, però lo faceva lo stesso. Almeno finché c’era qualcuno così stupido da aiutarla. Tre. Te l’ho detto: non ho rimediato niente.

    Dagger si guardò intorno prima di portarsi una mano in tasca. Prese tre delle sue Dragoon e le lasciò cadere nelle sue mani, una per volta.

    Tum, tin, tin.

    Non sarò sempre così fortunato, precisò. Cerca di imparare a badare a te stessa. Ho passato tutta la notte sotto la pioggia per rimediare un colpo di fortuna, tu invece? Ti sei arresa alle prime difficoltà e sei tornata qui, ci scommetterei l’anima. A volte mi domando come fai a essere ancora viva in un posto del genere. Se non ci fossi tu per me sarebbe tutto più facile!

    Con un istante di ritardo, capì che aveva parlato troppo. Osservò il sorriso scomparire dalle labbra di Seeth, molto lentamente. La vide chinare il volto e chiudersi in quel suo silenzio offeso e impenetrabile. Non rispose neanche dopo che le passò una mano tra i capelli. Merda, pensò. Quella volta non lo stava facendo apposta, come le riusciva sempre benissimo; c’era rimasta male per davvero. Poteva vedere attraverso le sue emozioni, a dir la verità poteva vedere letteralmente attraverso il suo corpo: Seeth aveva la pelle bianca, i capelli bianchi e le sopracciglia bianche. Magra da far paura, sembrava il fantasma di una ragazza della sua età. Eppure la trovava bella, di una bellezza fragile, rara e preziosa che non apparteneva a quel mondo, sicuramente non al cimitero delle navi. Tutti lì dentro pensavano che avesse una natura demoniaca a causa del suo aspetto, o forse semplicemente a causa del suo colore, per questo ne stavano alla larga, almeno quelli che non si avvicinavano di tanto in tanto per cercare di sacrificarla a Ktisis.

    Anche Dagger sapeva cosa voleva dire sentirsi additare come una creatura mostruosa. Anche con lui nessuno voleva avere niente a che fare, perché aveva una cosa in comune con quella ragazzina, una cosa soltanto: gli occhi, rossi come se al loro interno bruciassero le stesse fiamme dell’inferno.

    In quel mondo di serpi, avere gli occhi dello stesso colore bastava per sentirsi vicini a qualcuno. Se non ci fosse stato lui, Seeth sarebbe finita in un postribolo già da molto tempo, o peggio, ma forse non c’era bisogno di ricordarglielo ogni volta.

    Per Ktisis, sono veramente uno stronzo quando mi ci metto.

    Stronzetta, accennò. Falla finita di fare quella faccia. Lo sai che non volevo.

    Seeth alzò le spalle. È che non ce l’ho fatta. Sul serio Dag, ci ho provato, però stanotte non riuscivo a stare sotto la pioggia. Se mi ammalo un’altra volta non sarò così sfortunata da sopravvivere. Tossì, più volte. Tu non ti ammali mai.

    La tua tosse a comando sta diventando sempre più commovente, sorellina.

    Ti ho già mandato a fare in culo?

    No.

    Allora vaffanculo.

    Dagger si guardò intorno e vide che gli altri erano talmente presi dalla polvere da non aver notato nulla. Odiava quel posto pieno di spie, odiava quella gente, odiava essere lì. Baciò Seeth sulla fronte, sotto una ciocca disordinata di capelli bianchi come il latte, per ricordarle che teneva a lei in ogni momento, sin da quando le loro strade si erano incrociate.

    Io e te siamo una cosa sola. Quello che succede a te, un po’ succede anche a me.

    Sei ubriaco?

    No. È che senza di te io… io…

    Lei accennò un sorriso e lo abbracciò. Ti voglio bene Dag. Anche se sei un disastro con le parole.

    Dagger chiuse gli occhi e sperò che quel momento durasse un po’ più a lungo di tutti quelli in cui si sentiva solo. Quello era il suo rifugio dalle brutture del mondo: quelle braccia scheletriche, quell’unica persona che aveva bisogno di lui. Seeth era la sola possibile Redenzione, l’unico elemento della sua vita che gli Oltredei non gli avrebbero rimproverato il giorno in cui, abbandonate le spoglie mortali, se li si sarebbe trovati di fronte sulla soglia di Almagard, per chiedergli come pedaggio un solo atto di puro e disinteressato bene compiuto nel mare del peccato mortale. La Redenzione.

    Seeth era la sua.

    Era stato così sin da quando i suoi compagni l’avevano portata lì dentro per la prima volta, in un sacco, chiuso da un pugno. Lui aveva osservato il suo fragile corpo premere contro la stoffa usurata per uscirne fuori, aveva sentito la sua disperazione traboccare in deboli gemiti carichi di sofferenza che lo avevano fatto star male, male come non si era mai sentito in tutta la sua breve e già lunga esistenza.

    ‘Indovinate cosa c’è qui!’ aveva ridacchiato il Ragno che teneva il sacco, gli occhi dilatati, il sorriso ebete, le dita sporche di bianco.

    ‘Un cane!’ aveva risposto uno dei Ragni più piccoli, dal volto giallo.

    ‘No, un gatto!’ aveva risposto un altro, dalla faccia verdastra.

    ‘Non importa, qualsiasi cosa è, mangiamolo!’ aveva risposto l’ultimo, il più piccolo, provocando le risate di tutti. Però non quelle di Dagger. Lui aveva capito da subito che lì dentro si trovava una bambina.

    ‘Dove l’avete trovata? Non è divertente, lasciatela andare!’ Gli era sembrato che, solo a sentire la sua voce, la bambina nel sacco avesse iniziato a muoversi più lentamente, fiduciosa. Sin da allora erano stati legati, senza essersi ancora visti. Aveva solo sette anni, ma non si era fatto scrupoli ad affrontare tre Ragni di dodici anni ciascuno. Già se la cavava bene con la lama, tanto da lasciarne uno dissanguato per terra, con le mani strette intorno alla gola, e gli altri due disarmati con le mani aperte verso di lui.

    Dagger sembrava nato con un pugnale in mano.

    ‘Era solo uno scherzo’, avevano detto, arretrando. ‘Calmati stronzetto, tienila tu. Puoi farne quello che vuoi.’

    E Dagger se l’era tenuta. Avrebbe potuto fare di lei ciò che voleva e ne aveva fatto una sorella. Di lì in poi, lui e Seeth erano cresciuti insieme, inseparabili, e quella era la cosa più vicina al concetto di famiglia che avesse mai conosciuto; ogni volta che guardava nei suoi occhi si sentiva libero, per quanto ancora un topo in gabbia nonostante tutta la sua rabbia.

    Lei sorrise. Faccia da coglione.

    Lui aprì la bocca per rispondere, quando attraverso la gilda esplose una voce rude: Dag! Porta qui le chiappe se sei rientrato! I conti di questa notte non si chiuderanno da soli.

    Si voltarono entrambi verso la porta dello studio di Mamma.

    "Se hai fatto qualche stronzata diglielo prima che lo scopra, come fa

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