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Le avventure di Chariza: Ciclo: Chariza
Le avventure di Chariza: Ciclo: Chariza
Le avventure di Chariza: Ciclo: Chariza
E-book265 pagine4 ore

Le avventure di Chariza: Ciclo: Chariza

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Fantasy - racconti (236 pagine) - Le avventure di una indomita ma tormentata guerriera


Chariza, la Combattente delle Trasparenza del monte Tomei, è tornata nell'Impero Si-hai-pai dopo aver trascorso lunghi anni oltre i suoi confini, imparando a controllare la maledizione di avidità che l'affligge. Tra demoni e intrighi, tra nobili e contadini, tra immense vallate e lo splendore della capitale Hohma, Chariza viaggia per la sua terra natale cercando sempre un nuovo impiego e nuovi modi per assecondare l'avidità che l'attanaglia. Le avventure di Chariza, un'antologia di racconti, a completamento della saga iniziata in Chariza. Il soffio del vento.

Copertina di Sara Forlenza.


Francesca Angelinelli esordisce nel 2007 con i primi due romanzi di una serie fantasy orientale, Chariza. Il soffio del vento edito da Runde Taarn Edizioni, riproposto nella collana Odissea Digital Fantasy, a cui fa seguito La congrega bianca. Successivamente per Runde Taarn pubblica il fantasy eroico Valaeria (2009), ispirato al mondo della Roma tardo-antica e per Linee Infinite il paranormal romance Werewolf, disponibile in questa collana.

Il 2010 è l’anno del suo ritorno al fantasy orientale con la raccolta Racconti di viaggio del monaco Kyoshi, vincitrice della seconda edizione del Premio di Narrativa Fantastica – Altri Mondi e edita da Montag Editore, e con la pubblicazione del primo volume della Serie delle Cucitrici, Kizu no Kuma. La cicatrice dell'orso, per Casini Editore, primo volume del progetto Ryukoku Monogatari. Altri racconti brevi sono stati pubblicati in riviste e antologie.

LinguaItaliano
Data di uscita7 mag 2019
ISBN9788825408881
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    Anteprima del libro

    Le avventure di Chariza - Francesca Angelinelli

    9788825408447

    Nota dell'autore

    Questa è un’opera di fantasia che si ispira alla cultura del Giappone, Cina e Corea, ed è un’antologia di racconti degli episodi della vita di Chariza. I racconti sono autoconclusivi e non sono legati gli uni agli altri.

    Ogni riferimento a persone, cose o luoghi è del tutto casuale.

    Prefazione

    Chariza e lo Si-hai-pai, sua terra natale, nacquero nell’agosto del 2004, anche se forse li portavo con me già da molto tempo. Sono nati sotto l’influsso di diversi elementi e di certo devono molto ad alcune mie passioni.

    Il primo racconto che scrissi con Chariza come protagonista fu Il Drago Rosso. Avevo in mente da diverso tempo la storia di una mercenaria a cui viene affidato un incarico che poi si rivela sbagliato, e che quindi cerca di porre rimedio al suo errore. In realtà questa idea era nata per un altro dei miei personaggi, Valeria Drusilla, protagonista del romanzo Valaeria (GDS, 2014). Fu però un documentario sulla Cina a decretare il percorso che questa idea avrebbe preso. Il servizio riguardava, infatti, alcuni luoghi che erano stati scelti come location per il film wu-xia La tigre e il dragone, che ho sempre amato molto, e la suggestione di quegli scenari fece crescere in me il desiderio di scrivere una storia ambientata in un mondo che fosse simile ai paesi dell’Estremo Oriente.

    Quando scrissi Il Drago Rosso, quindi, non avevo ancora idea che sarei riuscita a dar vita a un intero mondo, e fu solo dopo qualche tempo, quando cominciai a mettere per iscritto altre idee relative alla storia di Chariza, che mi resi conto che quel progetto richiedeva un lavoro ben più accurato. Fu in quel momento che lo Si-hai-pai divenne qualcosa di più complesso e profondo e, sostenuta sempre dalla passione per il cinema wu-xia e la letteratura classica nipponica, mi misi al lavoro per dare forma a quel mondo che, intuivo, poteva essere ricco di avventure.

    Nel frattempo anche la vita di Chariza si spiegava di fronte a me, proprio come un antico rotolo. Avevo già abbastanza chiaro ciò che poteva esserle accaduto tra il momento in cui era stata colpita dalla maledizione e il suo ritorno nello Si-hai-pai, tuttavia preferii concentrarmi sulle avventure nel suo paese natale. E, infatti, scrissi Da ogni dove. L’idea per questo, come per altri racconti di Chariza, venne da un haiku (tipica poesia giapponese) di Bashō (Bashō Matsuo, 1644 – 1694), il mio poeta giapponese preferito, e dal ricordo che avevo della visita alla mostra Ukiyoe, il mondo fluttuante, che avevo visitato al Palazzo Reale di Milano il 25 febbraio di quell’anno (2004), e che in seguito avrebbe fornito alla mia immaginazione spunti necessari per dar forma ad alcuni luoghi dello Si-hai-pai.

    Lo Si-hai-pai mi affascinava, mi divertivo a fare giochi di parole con i nomi, derivati dal giapponese, di alcuni personaggi, e mi lasciavo guidare da Chariza alla scoperta dell’Impero. Fu così che scrissi Suono di mezzanotte, e cominciai a intravedere le possibilità datemi dalle caratteristiche culturali del mondo nel quale mi stavo addentrando.

    Nel frattempo cominciai a rileggere Demoni e mostri del Giappone, una raccolta di fiabe e racconti antichi, e provai a lavorare su delle varianti, ponendo Chariza al centro di storie che prendevano spunto proprio dalla tradizione nipponica. Così nacquero Il ponte stregato, Il palazzo nel folto del bosco, Lo spirito dei ciliegi e molti altri racconti. In particolare Lo spirito dei ciliegi deve molto a un altro caposaldo della cultura nipponica che ha influito molto sulla mia scrittura, ovvero l’opera del pittore Hokusai, del quale avevo osservato alcune opere a Palazzo Reale e di cui avevo una cartolina raffigurante il suo dipinto Il Monte Fuji tra gli alberi di ciliegio (1806 circa).

    Nello stesso periodo, accanto ai testi della letteratura classica come Genji Monogatari e a Demoni e mostri del Giappone, cominciavo la lettura del libro 101 storie zen, da cui presi ispirazione per il racconto Il tempio silenzioso.

    Ben diversa fu la genesi dell’idea del racconto L’esattore, che si ispira invece ad alcuni testi di denuncia del malgoverno e della burocrazia tipici della Russia ottocentesca. In un Paese come lo Si-hai-pai, così simile alla Cina e al Giappone antichi, non potevano mancare problemi con i funzionari, ma in questo racconto subentra anche l’elemento magico tipico di una cultura profondamente animista.

    Avevo ormai scritto molto su Chariza e non tutto ciò che avevo prodotto raggiungeva i livelli de Il Drago Rosso o Da ogni dove, così, mentre ero immersa nella lettura del Genji Monogatari di Shikibu Murasaki, mi concessi una lunga vacanza dallo Si-hai-pai. Vacanza che non durò più del necessario. Il Genji Monogatari, infatti, fornì l’ispirazione per altri racconti di Chariza e per quello che sarebbe stato l’embrione del romanzo Il soffio del vento (poi pubblicato in due volumi: Chariza. Il soffio del vento e Chariza. Il Drago Bianco, Runde Taarn, 2007). Scrissi allora Il Maestro dei fiumi e delle cascate, un racconto che, attraverso i ricordi di Chariza, ruota attorno alla sua misteriosa spada. Ma la prima stesura de Il Maestro dei fiumi e delle cascate fu pessima. Partendo dall’haiku di Bashō, che poi avrebbe segnato l’intera vicenda umana di Chariza (Giorno d’inverno – Sul cavallo – Un’ombra di gelo), descrissi il modo in cui Chariza venne in possesso della sua spada, ma fu solo dopo diversi mesi che mi resi conto che quel racconto era incomprensibile e troppo incentrato su elementi filosofici tipici delle culture orientali. Iniziai quindi una pesante opera di revisione sul racconto, aggiungendo le note e rendendo il testo più chiaro, battezzando in quell’occasione la spada di Chariza col nome di Kageboshi e affrontando la sistemazione dell’intero materiale riguardante Chariza e lo Si-hai-pai.

    Fu allora che scrissi Banditi e Il granaio abbandonato. Il granaio abbandonato, ispirato dall’omonimo racconto presente nella raccolta di racconti Demoni e mostri del Giappone, voleva essere un omaggio alla letteratura classica nipponica, riprendendo, infatti, il nome, le vicende e alcuni testi poetici riguardanti Ariwara no Narihira, personaggio protagonista e forse autore dell’Ise Monogatari.

    Un racconto che per molto tempo è stato in bilico è Sul fondale scorrono le nuvole (anch’esso ispirato da un haiku, di Onitsura, 1661 – 1738), in cui Chariza visita per la prima volta le regioni meridionali del paese, e che voleva essere un raccordo ideale tra le Avventure e il romanzo. Questo racconto ha trovato poi una sua collocazione nella raccolta, anche grazie ad altri due episodi della vita di Chariza che vanno a costituire in modo più deciso quel legame tra le Avventure e Il soffio del vento.

    Una notte noiosa, racconto ancora una volta ispirato da Demoni e mostri del Giappone, mi ha fornito l’occasione perfetta per introdurre nella vita di Chariza uno dei personaggi che più la segneranno: il cavaliere Ryokin, Yukai Kurashi. Personaggio che riappare in Un incontro sfortunato, vero trait d’union tra la raccolta e il romanzo.

    Romanzo che, nel frattempo, non si era solo formato, ma era quasi giunto alla sua conclusione con il titolo Il soffio del vento, ancora una volta tratto da un haiku di Bashō.

    Appare evidente, quindi, che questo mondo e queste storie sono debitrici verso molte delle mie passioni: per il cinema wu-xia, per la letteratura classica giapponese di cui non ho citato molte opere non solo letterarie, ma anche saggistiche, per la cultura nipponica in generale, per l’universo manga, ma anche per la storia antica dell’Asia orientale. Non c’è, infatti, solo il Giappone alla base dello Si-hai-pai, ma anche tanto di tutti quei Paesi e quelle culture dell’Estremo Oriente che appaiono così distanti dall’occidente e che pure hanno tanto da offrire.

    Per coloro i quali hanno già avuto modo di scoprire Chariza e lo Si-hai-pai, quindi, un ben tornati in questo universo che mi è tanto caro; per coloro che invece si affacciano per la prima volta in questo mondo… niente paura, Chariza saprà guidare voi così come fece a suo tempo con me.

    Francesca Angelinelli

    (Gennaio 2010)

    Ryukoku Monogatari

    Al principio il mondo era un insieme di buio e di nulla. Poi il sopra e il sotto cominciarono a separarsi, e in quella massa indistinta molti esseri misteriosi furono generati. Tra tutti Saishio, fatto di luce e di tenebra, vide che nel caos si combattevano feroci battaglie, e decise di dare ordine a quella immensità. Afferrò quindi una poderosa ascia e colpì il suo stesso corpo spezzando in due la sua essenza. La parte più leggera, fatta di luce, salì verso l’alto, seguita da schiere di spiriti affini a essa, mentre quella più pesante precipitò in un luogo fatto di ombre, ove si riunirono creature inquiete. Il regno nel Cielo fu detto Rakuen, quello nel Profondo venne chiamato Naraku. Fra essi il corpo martoriato di Saishio crollò inerme; il suo respiro divenne vento, la sua voce si fece tempesta, l’occhio sinistro divenne il Sole, quello destro la Luna, le sue membra si trasformarono in montagne e vallate, il suo sangue alimentò il flusso dei fiumi, i suoi capelli mutarono in piante, e le sue ossa in metalli e pietre… Ogni cosa tangibile ebbe origine dal suo corpo e un terzo regno emerse, popolato da molte creature e vegliato ai quattro angoli del mondo da draghi sorti dalle estremità di Saishio. E in questo regno, tra le molte creature, presero forma gli esseri umani, che chiamarono il mondo terreno Ryukoku.

    Il drago rosso

    Chariza se ne stava placidamente sdraiata sul fondo di una vecchia barca di legno, che scivolava, scricchiolando di tanto in tanto, proprio in mezzo al lago. La donna teneva le braccia incrociate dietro la nuca e la gamba destra abbandonata sopra la sinistra, con le caviglie intrecciate. A volte un alito di vento agitava le chiome degli alti pini che crescevano lungo le rive, e insieme con esse il filo d’erba che la donna teneva in bocca; la barca allora traballava un poco, ma lei continuava tranquillamente a fissare il cielo limpido di quella tiepida primavera. Sentiva i passi dei contadini sul sentiero che costeggiava la riva destra del lago, e il cigolio delle ruote dei carri che avanzavano spediti, trainati da cavalli o da uomini, verso il vicino villaggio. Però si limitava a immaginare come le sagome dei passanti si riflettessero nell’acqua del lago che, come uno specchio lucente, rilasciava una fedele copia sia del serafico bosco di conifere sia dei campi di riso e avena nei quali si agitavano gli operosi contadini.

    Oltre un leggero avvallamento del terreno, che costringeva la stretta strada sabbiosa a proseguire in salita per qualche metro, si trovava il villaggio di Xi-Ja, con le sue mura di mattoni e intonaco bianco, nel quale si entrava tramite un arco, senza pretese di imponenza, e con le sue case di fango, paglia e giunchi. Una piazza occupava la parte centrale del piccolo abitato ed era costantemente invasa dai tappeti e dalle bancarelle dei venditori, per lo più contadine che scendevano dai monti circostanti la valle a vendere le loro merci, o pescatori che offrivano il risultato di una mattinata di lavoro; in fondo alla piazza, già dalla fondazione del villaggio, si ergeva un minuscolo tempio, unica costruzione in solida pietra che Xi-Ja vantasse, con il tetto di tegole rosse, draghi blu ai quattro angoli che facevano da gocciolatoi e da guardiani, e un altare non troppo ricco che si poteva ammirare anche dall’esterno della costruzione.

    Per il resto l’intero villaggio era un ammasso di piccole case quadrate costruite senza criterio le une a fianco delle altre; alcune erano più ricche, avevano un rivestimento esterno di travi di legno di pino, un piccolo cortile interno ed erano rialzate dal suolo, altre invece erano poco più che capanne di giunchi.

    Gli abitanti di Xi-Ja, nonostante l’evidente povertà del loro villaggio, sembravano veramente felici della vita che vi conducevano; molti erano contadini, altri pescatori, alcuni commercianti, pochissimi sapevano impugnare un’arma che non fosse un forcone o una fiocina, ma del resto non avevano mai avuto bisogno di farlo. La loro esistenza proseguiva pacifica e serena, ed era così da migliaia di anni.

    Solo da poco tempo i più giovani si erano spinti tanto a nord da vedere la capitale Hoh-ma, con le sue cento torri di guardia su un muro che si diceva fosse stato costruito con lava ancora calda; con i suoi templi dorati, uno per ognuna delle cento divinità; con le ville dei ricchi signori feudali e il più imponente quartiere dei piaceri che una città avesse mai conosciuto.

    Dalle ricche province del nord erano così giunti anche a Xi-Ja beni preziosi come sete finissime colorate con i petali dei fiori, le gemme di giada verdi e brillanti, e le bianche perle raccolte nel mare del sud.

    Eppure tutte queste novità e le descrizioni della grande capitale non avevano modificato minimamente la quiete della vita a Xi-Ja. Gli abitanti avevano ascoltato, avidi, i racconti, e gli occhi delle donne avevano fissato con desiderio le merci preziose, ma dopo qualche giorno anche a tutto questo avevano già fatto l’abitudine e nulla li distraeva più dal duro lavoro e dal riposo serale.

    Forse proprio per la strana aria di pace o per quella sensazione di essere sospesi nel tempo, Chariza aveva scelto Xi-Ja per riposarsi delle sue fatiche. In quel luogo, in cui ogni giorno era uguale a se stesso e il ritmo della vita degli uomini e delle donne seguiva ancora quello del sole e delle stagioni, Chariza viveva come in un dolce sogno dal quale era difficile svegliarsi.

    Il tramonto cominciò a calare dietro i monti ricoperti di verdi foreste, e il cielo si tinse di tutte le sfumature dell’arancione. Chariza si mise a sedere proprio al centro della barca e rimase ad ammirare quello spettacolo che da sempre la commuoveva e la turbava, poi afferrò con decisione i remi e cominciò a spingere la barca verso la riva, dove tutte le imbarcazioni dei pescatori, con le loro lanterne spente, le reti che odoravano di pesce, e le tende, che usavano per ripararsi dal sole, che si agitavano al vento, erano legate al robusto molo di legno.

    Tastò i pantaloni neri di pelle per controllare che non fossero rimasti bagnati dopo la nuotata che si era concessa quel pomeriggio, toccò la casacca bianca, che era troppo grande per lei di almeno due taglie, e avvolse i capelli neri fermandoli in una crocchia sopra la nuca con un bastoncino di legno appuntito, sulla cui estremità arrotondata era stato intagliato il corpo di una ranocchia.

    Si incamminò verso la porta di Xi-Ja facendo ben attenzione a non pestare lo sterco che i cavalli lasciavano lungo il sentiero, non perché le importasse molto della sorte dei suoi stivali, che avevano certo calpestato di peggio, ma per non offendere la donna che tanto generosamente le dava ospitalità da più di due mesi, e che si era presto rivelata una maniaca della pulizia. Era rimasta sorpresa in principio che in un paese come quello, in cui le strade erano di terra come i pavimenti di molte abitazioni, potesse esistere una donna tanto attenta alla cura della casa.

    Liana era una donna sulla quarantina. Abitava col marito in una delle case che a Xi-Ja erano considerate signorili, tanto che aveva anche una stanza per gli ospiti, e non aveva esitato a prenderla con sé, avendone la possibilità, purché ella accettasse qualche semplice regola per la vita in comune. Chariza aveva prontamente accettato, accorgendosi solo più tardi che il suo stile di vita non era per nulla adatto a una casa, neanche a quella di un contadino. Lei era ormai troppo abituata a vivere all’aria aperta, di giorno e di notte, senza un tetto sulla testa e la sicurezza di un pasto caldo. C’era voluto non poco tempo perché si abituasse a quella condizione, ma l’affetto che aveva sviluppato per Liana e la sua famiglia l’aveva spinta a conformarsi al loro modo di vivere senza fare troppe storie.

    Accanto alla casa di Liana, infatti, era stata eretta, con la medesima cura, l’abitazione di Tsu, il figlio maggiore, e della moglie Jihara, i quali avevano tre rumorosissimi bambini che si divertivano a scorrazzare da una casa all’altra comparendo all’improvviso alle spalle dei nonni e dei genitori. Chariza in principio era stata diffidente perfino nei loro confronti, ma i tre marmocchi erano tanto dolci e simpatici che lei un giorno aveva capito di preferire la loro innocente compagnia a quella degli adulti, con i quali si sentiva spesso a disagio. Trovava, infatti, che con le persone bisognasse usare anche troppo mestiere, bisognava essere misurati e attenti nel parlare e nell’atteggiarsi, mentre con i bambini le cose erano più semplici e schiette.

    Era stato un processo lento, un lungo percorso che aveva potuto percorrere anche grazie alla tranquillità di Xi-Ja, che favoriva la meditazione, ma alla fine aveva apprezzato ogni singolo abitante di quel luogo, abbandonando ogni paura e diffidenza.

    –– Sono a casa! – gridò, sedendosi sul piccolo scalino di legno di fronte all’entrata per levarsi gli stivali infangati e infilarsi gli zoccoli che Liana le aveva regalato. – Ehi, ma non c’è nessuno? Che fine avete fatto? Jiari, Moari, Fuoki, se avete intenzione di giocare qualche scherzo venite fuori a battervi, invece di nascondervi. – Nessuno rispose. Chariza, preoccupata, corse nella sala da pranzo, che era anche la stanza comune della casa, e vi trovò l’intera famiglia riunita. Tutti avevano un’espressione tesa e seria in volto.

    Liana alzò i suoi occhi neri e profondi su di lei e le parlò con un filo di voce. – La vecchia Oriari vuole vederti. Non è mai un buon segno. –La giovane donna si sforzò di sorridere e si accomodò nel suo solito posto attorno al tavolo. – Sciocchezze. Vedrai che vorrà solo predirmi qualche disgrazia. Hai bisogno di aiuto per la cena? – disse, dissimulando la tensione che invece la pervadeva.

    – Chariza, Chariza – dissero in coro i bambini. – Non andare dalla vecchia. Non te ne andare, Chariza. –– Chi ha mai detto che voglio andarmene? – rispose lei, abbastanza stupita. In realtà proprio quel pomeriggio, mentre ciondolava sulla riva del lago, aveva riflettuto sul modo meno doloroso per dire ai suoi amici che presto o tardi sarebbe dovuta ripartire e che, se doveva farlo, era meglio farlo presto.

    – La vecchia – intervenne Tsu.

    – La vecchia? – chiese incuriosita, mentre addentava un pezzo del pesce che Liana aveva portato in tavola.

    – Proprio così. Ma non ha voluto rivelarci nulla dei particolari. Ha detto solo che deve parlare con te – continuò Liana sedendosi al fianco del marito, che non aveva nessuna intenzione di unirsi a una conversazione che riguardava la vecchia Oriari.

    – Benissimo – esclamò la donna. – Vorrà dire che questa sera stessa andrò dalla megera a sentire cosa vuole. – Diede un morso deciso a una fetta di pane e così facendo fece capire di voler chiudere la discussione.

    La casa, la catapecchia, della vecchia Oriari si trovava all’estremità opposta del villaggio e, benché Xi-Ja fosse piccolo, a Chariza parve che fosse incredibilmente lontana dalle altre, isolata com’era in fondo alla strada principale e costruita a ridosso delle mura.

    La donna bussò con violenza per tre volte, sapendo bene che Oriari era ormai completamente sorda all’orecchio destro e anche col sinistro non udiva un gran che; inoltre, quello era il segnale convenuto. Molte volte, infatti, aveva fatto visita alla vecchia senza che nessuno nel villaggio lo sapesse. Gli abitanti volevano bene all’anziana donna, il cui marito era morto annegato nel lago e il figlio era partito per la città senza più tornare, ma nessuno dubitava che fosse una strega. In realtà molti, anzi, tutti, erano andati da Oriari almeno una volta nella vita a chiedere un consiglio, perché era molto saggia e conosceva cose che altri non sapevano: aveva la capacità di leggere tanto le foglie del tè quanto le ossa di un animale, e conosceva molte cure per le malattie; molti bambini a Xi-Ja dovevano la loro stessa vita alla vecchia Oriari, che li aveva sottratti al demone della morte che tanto frequentemente colpiva i neonati nei poveri villaggi delle province.

    – Oriari, ci sei? – chiese Chariza, entrando con il consueto atteggiamento di rispetto e riverenza che assumeva quando si trovava in presenza di persone più vecchie, più sagge o più potenti di lei.

    – Sì – le fece eco la voce stridula della vecchia. – Mi trovi al solito posto, vieni pure avanti. –Vide le spalle curve dell’anziana donna e i suoi capelli d’argento che cadevano fino al pavimento, illuminati solo da una debole lampada.

    – Vecchia – disse sedendosi al fianco dell’anziana donna, che stava appollaiata sul gradino della porta posteriore della piccola casa. Si era sempre domandata come mai una casa che aveva un’unica stanza fosse stata dotata di due porte, e quella sera ebbe la sua risposta: da quel punto, alzando gli occhi al cielo, si potevano ammirare le cime dei monti cerchiate da aureole di nuvole bianche e la volta celeste senza l’interferenza fastidiosa del fumo che saliva dalle case. – È molto

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