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Ombre nere sulla laguna
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E-book446 pagine5 ore

Ombre nere sulla laguna

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Info su questo ebook

Una telefonata e il passato ritorna d'attualità per il commissario Pino Bonivento. Quell'indagine mai conclusa ha lasciato una traccia profonda nella sua anima di poliziotto e, stavolta, vuole arrivare fino in fondo. Nuovi elementi tracciano una pista di oscuri vizi travestiti da occultismo. Venezia, il Cinema, Messe nere, sacrifici e personaggi insospettabili per una lunga striscia di sangue innocente...

LinguaItaliano
EditoreZeugmaPad
Data di uscita24 apr 2015
ISBN9781310680694
Ombre nere sulla laguna
Autore

Riccardo Alberto Quattrini

E' uscito il mio secondo romanzo Ombre nere sulla laguna. RECENSIONE OMBRE NERE SULLA LAGUNA È una storia complessa, quella di “Ombre nere sulla laguna”, ultima fatica letteraria di Riccardo Alberto Quattrini, imprenditore ─ a riposo − con il pallino per la narrativa e per la suspense. Dopo “Il Copista” pubblica un nuovo romanzo avvalendosi dell’offerta tecnologica delle piattaforme digitali, senza trascurare il libro nel suo formato tradizionale, per chi ama sfogliare pagine di carta. Potrebbe essere un film, perché la trama ha uno sviluppo cinematografico, una di quelle pellicole in bianco e nero sullo sfondo di una città incantata: Venezia. Anche il titolo, con le sue ombre, richiama le atmosfere cupe e il mistero. I continui rimandi tra passato e presente rendono vivide le scene e i personaggi. Lo stile è quello di un classico hard-boiled, con tutte le caratteristiche e i “trucchi” del genere. Una telefonata riporta il commissario Pino Bonivento indietro nel tempo e riapre una vecchia ferita; un’indagine mai conclusa e una rinuncia che ancora brucia. Erano tempi cupi, e non c’era altra scelta, ma questo non basta a placare la sete di giustizia di un poliziotto vero. Seguendo a ritroso una lunga striscia di sangue ormai rappreso, e di corpi miracolosamente recuperati, il commissario ricostruisce, tassello per tassello, i fasti di un’epoca e i vizi nascosti. Emergono particolari inquietanti, una setta satanica guidata da una cartomante, personaggi importanti che sfruttano l’occultismo, e la magia del Cinema, per coprire istinti inconfessabili. Venezia, con i suoi canali, le sue storiche dimore e le sue calli, è l’ambientazione giusta per una storia ammantata di mistero. Un gioco di incastri e ingranaggi che si perfeziona nella scena finale, drammatica ma con un esito inaspettato. Lo si trova gratuitamente sui vari store da SW a Kobo, IBooks. Dimensioni file: 610 KB Lunghezza stampa: 351 Utilizzo simultaneo di dispositivi: illimitato Editore: ZeugmaPad (26 ottobre 2014) Venduto da: Amazon Media EU S.à r.l. Lingua: Italiano ASIN: B00OXTL6B6 -- Ho pubblicato un romanzo thriller dal titolo: "Il copista" Casa editrice Neftasia Disponibile anche in eBook a € 12,99. I posted a thriller novel titled: "The Copyist" Publisher Neftasia Also available in eBook to € 12.99. Sinossi: "Mai avrei creduto che nella mia vita mi potesse succedere una cosa simile, essere sbattuta in una fossa putrida e maleodorante facente parte di una vecchia porcilaia, usata fino a qualche anno prima, per la raccolta di sterco e urina dei maiali per concimare i campi". Parla così Margherita Ferri, una ragazza sui trent'anni, che vive in un tranquillo paesino in provincia di Lodi. Resa cieca, dopo un incidente stradale, accadutole anni prima. Novella scrittrice, per sopperire al dramma. Il suo primo romanzo, tuttavia, la condurrà in una spirale senza fine, dove subirà ogni genere di coercizione: minacce, percosse, costrizioni, violenze, soprusi, perpetrate da degli individui senza scrupoli. Il primo, un giocatore accanito, indebitato fino al collo con uno strozzino, un nano malefico e crudele, chiamato Alvis nel giro, che si accompagna al suo guardaspalle, un gigante di oltre due metri, un rompi ossa detto Maciste. Il secondo un succube cognato titolare di una copisteria. Il ritrovamento di un'auto, di grossa cilindrata, completamente carbonizzata, la scomparsa di due donne, e in concomitanza di due uomini. Inizieranno così le indagini del maresciallo capo Carmine Bellantonio comandante, la caserma di Codogno e dell'ispettore di polizia, Fabrizio Messina del Commissariato di via Quarenghi a Milano. Investigando nella vita di questi due uomini, dopo lunghe indagini su personaggi coinvolti in vicende di strozzinaggio, gioco d'azzardo, sequestro di persona, e al ritrovamento di alcuni corpi in una vecchia porcilaia e di un furgone ripescato in una cava alla periferia di Milano. Quando le loro indagini, casualmente s'intrecceranno, riusciranno a comprenderne il movente, e la ragione che li rese così spietati.

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    Anteprima del libro

    Ombre nere sulla laguna - Riccardo Alberto Quattrini

    Venezia, 8 ottobre 1943. XXI E.F.

    La serata era fredda e limpida. Una luna screziata, che entrava e usciva da una nuvolaglia sottile come zucchero filato, illuminava a tratti i coppi sconnessi della piccola chiesa. L’ingresso aveva un portone nero scardinato con borchie arrugginite. Le mura erano fatiscenti, così le pareti dai contorni scuri, dove persistevano tracce dei quadri di un tempo. La grande croce dell’altare mostrava un Cristo appeso a testa in giù. Il pavimento in mattoni rossi aveva, nel camminamento centrale, diversi buchi e fessure. La luce traeva origine da un’infinità di candele, sistemate lungo le pareti e attorno al catafalco ricoperto da un drappo nero, sistemato sotto la piccola abside, dalle cui finestre filtravano spifferi gelidi. Attorno, in un’atmosfera sacrale, sei figure avvolte in una specie di saio scuro, con un cappuccio ampio che ne ricopriva il volto e lo nascondeva alla vista, sotto non indossavano nulla, erano completamente nudi. Nessuna voce si udiva, persino i respiri erano quasi trattenuti. Una delle figure sul lato corto del catafalco, che dava le spalle a quello che un tempo era stato un altare, pronunciò: «In nomine e Satanas as Luciferi nostra exclesia altare nostrum introibo.»

    Era una voce femminile, crocchiata da un uso massiccio di tabacco.

    «Introducetela» e fece un gesto in direzione della figura alla sua sinistra.

    Questa fece un paio di passi e scomparve dietro una porta che portava alla sagrestia. Quando riapparve, teneva per il braccio destro una giovane donna. Aveva capelli biondi e lunghi che le scendevano sulle spalle, una tunica bianca informe, teneva le braccia nude lungo i fianchi. Aveva un passo ciondolante e incerto. Quando fu accanto al catafalco, un altro adepto aiutò il primo a sollevarla e a distendervela sopra. La tunica le venne levata. Bianca e lattea al pari di quel tessuto. Le pettinarono i capelli dorati, le disposero le braccia lungo i fianchi e le distesero le gambe, unite. Il suo corpo pareva ancora acerbo, il seno minuto, in attesa di sviluppo. Gli occhi erano chiusi, il respiro era quieto, come se dormisse.

    Avrà avuto non più di diciotto, vent’anni.

    I due adepti si ridisposero ai lati, la sacerdotessa alzò le braccia e il tessuto scivolò dagli avambracci ampi e flaccidi che vibrarono come budini.

    «In nomine Satanas, dominatorem terrae, rex mundi, praecipio copias», e posò le mani sulla testa della ragazza, per poi proseguire «tenebrae tincidunt ut extendent, mando copia, tenebrae et da nobis gratiam ut extenderent det nobis sua benedictione» e le segnò la fronte con una croce invertita.

    Tutti i convenuti si segnarono allo stesso modo la fronte. Le candele, a quel punto, raggiunte da una ventata gelida penetrata dal portone centrale, baluginarono creando lunghe ombre tremolanti, sulle pareti. Gli adepti sentirono la folata penetrare sotto i sai e gelar loro le gambe, inturgidire i genitali, accarezzare la vagina.

    Un adepto si avvicinò all’officiante; teneva nelle mani una scodella d’argento con delle Ostie consacrate. La porse all’officiante che ne prese una e la sollevò con entrambe le mani.

    «Hostiam consecratam Satan». L’adepto allargò le gambe alla fanciulla distesa e la celebrante le infilò tre volte l’ostia nella vagina, per poi sollevarla e ripetere: «Hostiam consecratam Satan».

    La divise e la portò alla bocca. Gli altri adepti la imitarono. Presero ognuno un’ostia, la intinsero per tre volte, poi la divisero e la inghiottirono. Venne portata una caraffa di cristallo. La ragazza fu sollevata a sedere, uno dei convenuti s’inginocchiò ai suoi piedi e le mise la brocca sotto la vagina in attesa che urinasse. Quando avvenne, la sacerdotessa prese la brocca la sollevò e disse:

    «Aperienda est, portae inferi, et venite ad me, his nominibus appellatam: sud Satana, est Lucifero, nord Belial et ovest Leviathan»

    Per ogni nome pronunciato si rivolgeva ai quattro punti cardinali e beveva un sorso di liquido. Poi passò la caraffa agli adepti che fecero lo stesso. Ci fu qualche colpo di tosse che ruppe quel solenne silenzio. Il vento si era fatto più intenso e freddo, le fiammelle dei ceri oscillavano imitate dalle loro ombre sui muri.

    DUE

    Venezia, 15 maggio 1957.

    Strappato al sonno, ripiegato su se stesso, contorto, teso, sudato ed esausto. In questo stato, per colpa delle strane voci che udiva da più di due settimane, l’avvocato Veniero Venturini si alzò dal suo letto nello sconforto più nero. Se gli avessero chiesto di descriverle non ne sarebbe stato capace.

    Era certo di sentire delle voci, ma non era in grado di rappresentarle. Talvolta erano come un frusciare, altre un bisbigliare lieve, altre ancora un mormorare aereo. Ma non aveva un luogo preciso in cui localizzarle. No. Veniero le sentiva dentro la sua testa, dentro le sue orecchie. Scartò subito l’ipotesi della pazzia: nella sua famiglia, a sua memoria, non c’erano simili tare. L’unica tara di famiglia, se di questo si poteva parlare, era la professione: tutti avvocati. Il suo trisavolo Martino Guglielmo Venturini era stato avvocato quando a Venezia c’era ancora Napoleone. Figurarsi. Lo fu poi il suo bisnonno Lanfranco. E il nonno Enrico, il padre Alcide e i suoi fratelli Guglielmo e Silvio.

    Escluse l’eventualità d’essere visitato da forze mistiche; si considerava da sempre agnostico convinto. Conoscendo la differenza tra ateo e agnostico, non sentiva certo di rappresentare l’unto del Signore, anche se sapeva come Egli scegliesse le persone più strane per rappresentarlo. Rimaneva una sola spiegazione: certi fantasmi del passato si stavano nuovamente agitando. Con questa opprimente inquietudine nel cuore, altro non gli restò che farsi visitare, così, tanto per parlare con qualcuno che conoscesse gli intrighi del cervello. E chi, meglio del suo amico dottore?

    «Si è girato tutta la notte» gli comunicò la giovane ragazza stiracchiandosi nel grande letto a baldacchino, con la voce impastata. Anche la sua bocca lo era; quando deglutì, un sapore acido gli scese lungo la gola e lo fece tossire. A fatica si sollevò e si mise a sedere sul bordo del letto, strizzò appena gli occhi che sentiva appiccicati.

    «Tu chi sei?» chiese sbadigliando.

    «Ma avvocato?! È stato lei a cercarmi. Sono Evelina. Evelina Bissolotti, se ricorda de me, vero?» chiese preoccupata.

    «Ma sì, sciocchina» si riprese dandole un colpo sulla spalla nuda. «E cos’è successo?»

    «Beh… la ga' dormì tuta notte, come un putei.»

    «Bene. Si vede che ero stanco» e di nuovo sbadigliò e si stiracchiò.

    «Già. E si è rigirato tutta la notte. E parlava, parlava…»

    «Ah! Lo vedi che qualcosa ho pur fatto» borbottò ridendo «ma che dicevo nel sonno? Urlavo?»

    «Sì, c’è stato un momento che mi ha fatto spaventare. Diceva in continuazione: no, no, no. Ma urlando sa? Che paura» spiegò la ragazza mettendosi a sedere, piegando le gambe e abbracciandole, non prima di essersi tirata sui seni nudi il lenzuolo di seta nera.

    «Sarà stato un brutto sogno», commentò mettendosi a sedere sul bordo del letto, facendo ciondolare le gambe ceree e troppo sottili per il suo voluminoso busto.

    Guardò l’immagine che gli rimandava la grande specchiera dell’armadio di noce: il busto ampio con due spalle larghe e i bicipiti un po’ flaccidi; li contrasse facendo i pugni e piegando le braccia, il muscolo si gonfiò appena. I pettorali, così come gli addominali, erano delle borse carnose che pendevano o vibravano se parlava o si muoveva, ricoperte di ridicoli peli tutti ricci e sottili. Che strazio, pensò, e tossì nella mano a cucchiaio. Un gusto ferroso gli salì su per le narici, mentre con le punte dei lunghi piedi cercava le pantofole che dovevano essere lì sotto. Ma il letto a baldacchino aveva una seduta molto alta e i piedi non toccavano terra. Ebbe un leggero senso di vertigine. Che mi sta succedendo?

    «L’aiuto» si offrì la ragazza. Sgattaiolando dal letto, fece scivolare il lenzuolo nero per scendere con un balzo e posare i suoi piccoli piedi sul pavimento freddo. «Venga» e gli allungò le braccia mostrando la sua totale nudità.

    Veniero tirò su col naso, guardò dapprima il soffitto a volta, con le figure di angeli svolazzanti attorno a un pastorello che si fingeva addormentato. Gli angeli erano rappresentati al femminile, ricoperti da drappi coloratissimi e trasparenti, non era necessario usare la fantasia per immaginare i meravigliosi corpi appena velati. I seni sfidavano il fattore gravitazionale, se ne stavano belli e felici in alto. Come quelli della ragazza, sodi e turgidi, che balzavano in alto come palle da tennis appena lanciate, infischiandosene di Newton e della sua legge di gravità.

    «Ah…! Ma per chi mi hai preso, per un vecchio rincoglionito?» e scese dal letto infilandosi le pantofole. Lei con una spinta risalì di nuovo e si sedette sul bordo. Veniero guardò quei movimenti così naturali e pensò che la natura dona alle donne la capacità di seduzione, così meravigliosa e sensuale, che inconsciamente manifestano. S’infilò la vestaglia nera, carezzandole con una mano la coscia. Lei gli posò la sua, piccola e minuta, sul dorso secco e peloso.

    «Avvocato, ma se non si sentiva in forma, perché mi ha chiamato? C’è qualcosa che la preoccupa, forse?» chiese mettendosi seduta contro la spalliera e tirandosi addosso il lenzuolo. Veniero fece scivolare la mano dalla coscia e si allacciò la vestaglia.

    «Ascolta questa parola: solitudine.» La sillabò. «La solitudine è una brutta cosa.»

    «Ma perché non si è sposato? A lei le occasioni non saranno di certo mancate» disse scalciando via il lenzuolo e grattandosi il fondoschiena. «E con questa bella casa poi, chi non l’avrebbe sposato, eh avvocato?»

    Da fuori, attraverso le due grandi finestre aperte, mentre un refolo di vento muoveva i grandi tendaggi, giunse un ciacolare di voci e uno sciabordio di barche che transitavano lungo il Rio dei Santissimi Apostoli. Veniero salì sul piccolo basamento e si sporse fuori a guardare, mentre con una mano si toccava in mezzo alle gambe.

    «Ti pare facile, non è vero?» commentò rigirandosi e pantofolando per la camera. «Io sono stato da sempre contrario alle unioni stabili, monolitiche, imperiture.»

    «Oh, che paroloni avvocato! Ma dove va?»

    Veniero le fece un gesto indicandosi l’appendice tra le gambe. Evelina annuì e si ricoprì con il lenzuolo. Veniero uscì, prese il lungo corridoio ed entrò nella stanza da bagno. Sollevò la tavola e cercò di urinare nella tazza. Da un po’ di tempo gli riusciva sempre più difficile. Protese la testa oltre il ventre troppo gonfio e vide l’appendice molle tra le sue dita. Il suo medico, il dottor Giorgio Nobili, gli aveva consigliato una visita da un urologo, aveva parlato della prostata che forse si era ingrossata.

    Ma a Veniero, certe ispezioni rettali non garbavano. Poco gli importava, in quel momento, delle visite ma lo preoccupava che da quel molle pezzo di carne non fuoriuscisse nulla. Spinse. Spinse forte. Un bruciore si presentò al basso ventre. Strinse i denti e spinse ancora. Finalmente uno zampillo paglierino fuoriuscì dall’uretra e centrò la tazza con quel rumore classico. Scrollò con rapidi gesti l’appendice e se la infilò nel pigiama. Quando rientrò nella stanza la ragazza si era appisolata. Dalle finestre giungevano ancora delle voci. Veniero si affacciò e vide due barcaioli che stavano discutendo animatamente. Trasportavano derrate destinate ai mercati.

    «Allora!» li apostrofò. «Che fate? Andate a lavorare. Via!»

    I due alzarono la testa per guardarlo, si scambiarono una rapida occhiata, e lo mandarono in mona continuando nei loro discorsi. Veniero uscì dai tendaggi che gli si erano avvoltolati sul corpo come se uscisse dal folto di una giungla. Evelina, che si era appisolata con le gambe ripiegate contro il seno, aprì gli occhi scuri e lanciò uno sbadiglio.

    «Che fai?» chiese scoprendola e schiaffeggiandole piano i glutei sodi e bianchi, «Ti addormenti mentre ti parlo?»

    Lei si ridestò e alzò le spalle dicendo che lo stava ascoltando, ma si tirò di nuovo il lenzuolo sul corpo.

    «Piuttosto che sposarmi» riprese «avrei seguito la tradizione dei Venturini.»

    «E quale sarebbe questa tradizione?» chiese mentre si stropicciava il naso sul cuscino.

    «Quella dei procuratori. Gli avvocati. Che altro?»

    «Già» fece lei, «che altro se lei è un avvocato?»

    «Quattro generazioni di avvocati. Mio padre, Alcide, era un uomo tutto d’un pezzo. Aveva già pianificato le vite dei miei due fratelli: Guglielmo e Silvio. Avrebbe pianificato anche quella di mia sorella Matilde, se non fosse morta di tifo.»

    «Oh poverina» disse la ragazza prona, mettendosi un cuscino sotto i seni e girando la testa sopra la spalla nuda.

    Veniero continuò come se non l’avesse sentita.

    «Poi voleva pianificare anche la mia, di vita: tutti nello Studio Legale Venturini & Figli. Poveretto che delusione, quante gliene ho fatte passare. Ma lo sai che arrivò a maledire mia madre perché aveva partorito un figlio degenere. Ce l’aveva con lei che mi proteggeva e mi coccolava. Mi coccolava. Già, finché non mi odiò anche lei» concluse serio, preso da un ricordo che gli si accese violento e nitido nella mente. Lui, poco più che diciottenne, nella sua stanza. Si era portato una compagna di liceo, una certa Violetta o Vincenza, non ricordava bene. Si erano spogliati e infilati nel letto, improvvisamente sua madre aprì la porta e li sorprese. Diventò una furia. Prese la ragazza per i capelli e la trascinò giù per le scale; ci mancò poco che non le facesse rompere l’osso del collo. Poi, raccolti i vestiti, glieli gettò giù dalla finestra e finirono nel canale di sotto. La malcapitata fu costretta a uscire nuda e farseli raccogliere da un barcaiolo in transito. Uno scandalo che per mesi passò di bocca in bocca a Venezia, mentre a Veniero levò la protezione e tutto l’affetto materno. Sua madre si era sentita tradita, non dal marito ma dal figlio, che adorava forse morbosamente.

    «Avvocato» lo richiamò Evelina «Si è incantato?»

    «Come?» si riscosse e riprese. «Ma ora che ci penso, un po’ di ragione, mio padre, l’aveva» disse sedendosi sul bordo del letto mentre meccanicamente le carezzava le natiche bianche. Lei si mosse appena lanciando un lieve gemito di piacere. «Voleva un figlio avvocato? E io l’accontentai. Mi laureai ma non avrei mai fatto l’avvocato. La mia passione era il cinema.»

    «Il cinema?» chiese meravigliata.

    «Già, il cinema. Venturini Veniero avrebbe recitato accanto a Doris Durante, o a Luisa Ferida» e fece un gesto con il braccio teso, come se disegnasse nell’aria un arcobaleno.

    «E chi sono?» chiese Evelina incuriosita.

    «Chi sono? Ma dico!» reagì Veniero e tolse la mano dai glutei della ragazza che si mise a sedere piegando le gambe e stringendole con le braccia. «Ti sto parlando di quando avevo venticinque anni, mica di oggi. Allora le dive erano quelle. Tu chi conosci, oggi?» chiese mentre un bisbiglio soffuso gli solleticava le orecchie, come se qualcuno gli sussurrasse qualcosa d’incomprensibile. D’istinto se le fregò con le mani.

    «Che c’è avvocato?» chiese Evelina vedendo quei gesti strani. Veniero scosse la testa e lei proseguì.

    «La Magnani, Sofia Loren… Marilyn e la Bardot. Come attore io adoro quel meraviglioso James Dean. Ma lo ha visto nel Gigante? Bellissimo, strepitoso» disse e scosse la testa rapita. «Ma lei ha studiato. A cosa le è servito?»

    «Beh, per un po’ andai nello studio giusto per accontentarlo. Mi occupavo solo delle scartoffie. Pratiche e pratiche da archiviare. Le signorine che dovevano trascriverle battendole a macchina, catalogarle, archiviarle e, a richiesta, ritrovarle, impazzivano. C’era un ricambio di personale peggio che al cotonificio Cantoni. Venivano da là, e là ritornavano distrutte e sfinite. Meglio dodici ore ai telai che otto come archiviste. Venivano per provare l’emozione di dirsi impiegate. Ci fu un momento che si faticava perfino a trovarle. Mio padre, con le conoscenze che aveva, dovette ricercarle presso l’Istituto della Confraternita delle Ceneri. Lì era più facile.»

    «E com’erano queste archiviste, avvocato?»

    Gli venne in mente una certa Carla Milanesi. Una bella ragazza della provincia di Treviso, al suo paese la chiamavano la Matana. Era alta, capelli rossi e un viso pieno di lentiggini. Ricordava ancora il colloquio per l’assunzione. Quando aveva chiesto che scuole avesse fatto, lei aveva risposto: «Quelle dei poveretti che non devono capire niente.»

    «Se t’avessi avu’ la possibilità, ti t’avrea studià?»

    Lei aveva annuito muovendo la gran massa di capelli color carota, e allora le aveva proposto di farle continuare gli studi se avesse accettato il posto di archivista. Carla gli aveva porto la mano piccola e leggermente arrossata e, prima che Veniero la stringesse, ci aveva sputato sopra. Poi gli aveva ricordato, guardandolo con i suoi occhi azzurri e muovendo l’indice della mano sinistra, che un patto era un patto.

    «Uno sputo?» chiese stupita Evelina.

    «Era un gesto che usavano fare i mediatori ai mercati per suggellare un qualsiasi contratto.»

    «E cosa è successo con questa rossa, avvocato? L’ha poi capito il mondo?»

    Evelina quella storia l’aveva già sentita, tante volte quante aveva messo piede in quella bella casa signorile. Le parlava di donne e amori, ma non era mai riuscito a dimostrarle d’essere un uomo. Ma a lei non importava, lui la pagava e poi le piaceva riascoltarla, anche perché l’avvocato aveva una bella voce, forte, profonda che le ricordava proprio quella degli attori che vedeva sullo schermo.

    TRE

    Venezia 12 ottobre 1943 XXI E.F.

    Ca’ Giustinian, l’edificio di quattro piani in stile gotico, costruito nel 1470 dalla famiglia omonima, era occupato dal comando provinciale della guardia nazionale repubblicana. Al terzo piano, in una stanza enorme con tre vetrate che si affacciavano sul Canal Grande, sotto un soffitto di stucchi dorati e putti che dimoravano su nuvolette ovattate, c’era l’ufficio del segretario federale di Venezia: Orfeo Tamburri. Piccolo, ossuto, un viso da faina; un naso a becco sovrastava due baffi affilati che disegnavano le labbra sottili come lame di un coltello. Ma se l’aspetto poco militaresco ingannava, e lo si poteva immaginare più idoneo a dirigere un nosocomio per anziani, quando montava la sua ira, e succedeva molto spesso, dava fiato al malcontento ed erano dolori per chi gli stava attorno. La sua scrivania, una Bonzanigo di fine settecento intarsiata a cesello e bulino, era così grande che quasi lo nascondeva e, da lì, la sua voce si levava forte. Rimbombava come un tuono lungo il corridoio quando afferrava l’apparecchio che lo metteva in comunicazione con la stanza attigua, dove stava il suo capo di gabinetto.

    «Maresca!» gridò nel ricevitore, ma poteva farne anche a meno. Il sottoposto, sentendo urlare il suo nome, scattò in piedi e batté i tacchi ancor prima di prendere in mano la cornetta.

    Urlare l’aveva sentito tante volte, ma mai con un tono così alto. Maresca Francesco guardò la collega Lucia Lamberti, iscritta alla Gioventù Italiana del Littorio; sulla sua scrivania spiccava una fotografia che la ritraeva con la divisa delle Giovani Fasciste: bustina nera, camicetta bianca sopra la gonna stretta da una cintura alta di pelle nera. Si era distinta per il diploma ottenuto con il massimo dei voti e menzione accademica, nel lavoro era sempre precisa e puntuale, sapeva rispettare le scadenze. Anche il federale ne era stato colpito e la teneva sotto la sua ala protettiva. Quando la guardò, Lucia gli fece un gesto con la mano, accompagnato da un movimento labiale che era palese. Maresca titubava impaurito.

    «Vai!» lo spinse Lucia con due mani dietro la schiena fino al corridoio. «Vai!» ripeté mentre lo guardava allontanarsi con passo lento sul pavimento di marmo lucido.

    Maresca bussò alla porta ed entrò. I due grossi lampadari che pendevano dall’alto soffitto erano accesi, e ciò l’ho agitò ancora di più. Sulla parete di sinistra, incorniciati, diplomi e attestati ingialliti, nell’angolo un busto di Cicerone poggiava su una colonna con l’intreccio di tre serpenti lignei. Sull’altra parete, le due ampie finestre sul Canal Grande, parzialmente oscurate da pesanti tendaggi, lasciavano filtrare una debole luce che s’infrangeva sul pavimento di legno lucido. La scrivania, che occupava la parete sul fondo, ingombra di scartoffie e cartelle colorate, era illuminata da due grosse abat-jour poste ai lati. I suoi passi si smorzarono lungo la passatoia rossa, come se camminasse sospeso. Il federale se ne stava seduto dietro la scrivania, con alle spalle una gigantografia del Duce; non alzò nemmeno la testa calva.

    «Eccomi eccellenza» disse quando gli fu davanti, dritto e rigido come un baccalà.

    Con un righello, senza degnarlo di uno sguardo, il federale gli spinse un giornale davanti agli occhi «Cos’è questa cosa?» chiese con il bocchino di madreperla stretto tra le labbra.

    Maresca prese il giornale con il pollice e l’indice, lo sollevò lentamente, come fosse un pesce puzzolente, fin davanti al viso. Si trattava del quotidiano locale la Gazzetta di Venezia, lo spiegò e lesse l’articolo di spalla dal titolo eloquente: Messe nere nella chiesa in Santa Caterina al Canale de la Misericordia. Si parlava di profanazione di luoghi sacri per la celebrazione di riti satanici e Messe nere. Secondo l’articolista venivano somministrate sostanze che inibivano la volontà per perpetrare violenze sessuali di gruppo. C’erano evidenti segni sull’altare maggiore ed erano state rilevate le impronte di tre, quattro persone. Ostie spezzate e bruciate, crocifissi col Cristo capovolto, candele nere consumate, alcune con tracce di sangue trovate sull’altare, subito repertate e inviate alla Scientifica di Padova, così come i cappucci neri abbandonati. Maresca, se dapprincipio teneva il foglio con le due dita, via via che leggeva lo allargava e reggeva anche con l’altra mano. Lo rilesse ben due volte e si chiese se l’autore, che si firmava Simeoni Ulisse, ci tenesse a restare al giornale, o volesse forzare la mano per farsi cacciare.

    «Lo conoscete?» domandò con falsa calma il Segretario Federale, sollevando il cranio nudo e mostrando le labbra sottili che si muovevano appena, come per arrotarsi, tanto che ogni parola ne usciva affilata al punto da tagliare. «Chi è, un aspirante suicida forse?» continuò con un tono di due ottave più alto, mettendo una Macedonia nel bocchino di madreperla, per poi infilarselo in bocca e accenderla con un gesto veloce. «Non ci servono. E non vogliamo nemmeno si pubblichino simili articoli. Sconvolgono la mente della gente, creano allarmismi inutili e ci screditano all’estero, facendo credere che siamo un Paese senza fede e senza cultura cristiana. E al patriarca, che gli diciamo? E poi proprio in questo delicato momento. Allora Maresca questo… questo imbecille…» e gli strappò il giornale dalle mani per guardare la firma, «questo Simeoni, voi lo conoscete?» chiese battendo il dorso della mano sul foglio.

    «Sì eccellenza» rispose deglutendo a fatica.

    «Allora quello…» Non terminò la frase, interrotto dal suono del telefono.

    «Sì!» disse a fil di labbra. Poi si alzò, con l’indice toccò il berretto con l’aquila d’oro appoggiato su una pila di carte alla sua sinistra. I pantaloni grigi alla zuava, con la banda rossa sul fianco, erano infilati negli stivali neri e lucidi. Così, in piedi, quasi sull’attenti con quel suo naso a becco, sembrava un corvo. Sulla scrivania troneggiava un busto del Duce sul quale, ogni tanto, posava la mano come se lo accarezzasse, intanto ascoltava l’interlocutore all’altro capo del filo. «L’ho letto anch’io questa mattina!» disse quasi sibilando. «Ne stavo discutendo proprio con il mio capo di gabinetto, eccellenza.»

    Tacque per qualche minuto ascoltando la voce del superiore; era forte e assai alterata, tanto che Maresca riuscì a sentire distintamente le parole: «quell’asino deve essere punito.»

    Quando Tamburri riprese a parlare, aveva ancora quel sibilo nella voce.

    «È lo stesso mio pensiero, eccellenza. Vi terrò informato. Saluto al Duce», e sbatté il ricevitore sulla forcella.

    «Il prefetto,» disse storcendo la testa da un lato, «sempre a rompere i coglioni» continuò a bassa voce.

    Poi urlò: «Quello lo voglio nel mio ufficio, questo pomeriggio alle due! E pure il suo direttore. Come si chiama quell’essere molliccio…» e fece una faccia schifata, girando attorno alla scrivania e mostrandosi ora in tutta la sua altezza, poco superiore alla spalliera della sua poltrona. Si sistemò la divisa impeccabile, con le decorazioni in bella mostra, sbatté alcune volte i tacchi sul pavimento di legno, e si rinfilò il bocchino tra i denti.

    «Baronazzi Olindo» disse pronto Maresca.

    «Ecco, anche quello. Sono stato chiaro?» disse, scuotendo il capo, per poi posare entrambi i pugni chiusi sul giornale, mentre delle nuvolette si alzavano nell’aria come segnali di fumo.

    «Sì eccellenza. Ma se mi posso permettere…»

    Tamburri annuì.

    «Questo Simeoni Ulisse è lo stesso che ha scritto quel bellissimo articolo per l’eccellentissimo ministro della Cultura, l’onorevole Mezzasoma.»

    Il Segretario Federale gettò un lamento, si tolse il bocchino dalle labbra e con un sorriso da faina disse a mezza voce: «Quel ministro della cultura ha il culo parato da Roma, lo deve portare solo in giro. Ma chi lo tocca a quello?» Poi, quasi arrendevole, aggiunse: «Voi siete giovane, non conoscete quante cazzate ha combinato.»

    Maresca non apprezzava quando il suo superiore si lasciava andare a criticare altri gerarchi. Si sentiva obbligato ad assentire, anche se magari era contrario. Il Tamburri parlava di cazzate del Mezzasoma e lui, lui di cazzate non ne aveva mai fatte?

    QUATTRO

    Cazzate, Orfeo Tamburri ne aveva fatte. Quando aveva aderito ai Fasci giovanili di Combattimento, a trentadue anni, era già sposato da quattro e occupava un posto invidiabile come direttore della filiale di Reggio Emilia della Banca Popolare dell’Emilia Romagna. C’era entrato, appena conseguito il diploma di ragioniere, grazie a suo padre Giacomo Enrico Tamburri, noto e apprezzato notaio, e poi si era anche iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Bologna.

    «Le braccia sono sempre richieste, non da meno una buona e solida cultura» era il motto del genitore.

    Dopo la laurea, venne nominato vice direttore e nel 1915 sposò la giovane e affascinante Adele Mastrovaldi, figlia dell’allora direttore, e nel 1917 ne prese il posto. Aveva trent’anni e una carriera fulminante. Come, due anni dopo, fulminante fu la decisione di lasciare, dalla mattina alla sera, quel posto tanto invidiato per seguire il movimento dei Fasci italiani di Combattimento. Come disse alla moglie, era un richiamo che non poteva ignorare.

    «E la famiglia, i tuoi figli?» chiese Adele che teneva Enrico in braccio, mentre accarezzava la testa di Giacomo attaccato alla sua gonna.

    Ma nulla era servito a fermarlo.

    Un vecchio autocarro era fermo sulla strada polverosa che da Reggio porta verso Piacenza. Tamburri aveva fatto un passo verso il cassone e guardato il giovane alla guida, questi aveva accennato un saluto con la testa porgendogli una mano. Orfeo l’aveva afferrata ed era salito.

    «Sono Pietro Frondini» si presentò il giovane. «Anche tu vai a Milano per i sepolti?»

    «Sansepolcristi, si chiamano sansepolcristi.»

    E da quella piazza di Milano era iniziata la sua carriera di gerarca.

    CINQUE

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