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Chariza Il soffio del vento
Chariza Il soffio del vento
Chariza Il soffio del vento
E-book608 pagine9 ore

Chariza Il soffio del vento

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Fantasy - romanzo (552 pagine) - Non c’è davvero nulla di più raro e prezioso del sorriso di una donna. Una grande eroina in un mondo di guerrieri, demoni, cortigiane e sovrani in un viaggio che vi condurrà lungo le strade di un grande e antico impero.


Un misterioso nemico trama nell’oscurità mettendo in pericolo il Drago d’Oro, la sua discendenza e la pace nell’intero Si-hai-pai. Chariza è la migliore combattente dei Monti Sacri, ma è anche un’assassina e la traditrice su cui ricade la maledizione della Dea Sole che la porta a desiderare ciò che c’è di più raro e prezioso. A lei, donna affascinante e in lotta con se stessa e il proprio passato, verrà affidato l’incarico di proteggere dalle insidie del nemico il piccolo Suzume, unica speranza per il futuro del regno e dell’Alleanza.

Una grande eroina in un mondo di guerrieri, demoni, cortigiane e sovrani in un viaggio che vi condurrà lungo le strade di un grande e antico impero. Inebrianti profumi dell’Estremo Oriente vi avvolgeranno mentre leggerete una storia in cui azione e suspense, introspezione e sentimento sono dosati con sapienza.


Francesca Angelinelli esordisce nel 2007 con i primi due romanzi di una serie fantasy orientale, Chariza. Il soffio del vento edito da Runde Taarn Edizioni, riproposto nella collana Odissa Digital Fantasy, a cui fa seguito Chariza. La congrega bianca. Successivamente per Runde Taarn pubblica il fantasy eroico Valaeria (2009), ispirato al mondo della Roma tardo-antica e per Linee Infinite il paranormal romance Werewolf, anch’essi di prossima riproposta in questa collana.

Il 2010 è l’anno del suo ritorno al fantasy orientale con la raccolta Racconti di viaggio del monaco Kyoshi, vincitrice della seconda edizione del Premio di Narrativa Fantastica – Altri Mondi e edita da Montag Editore, e con la pubblicazione del primo volume della Serie delle Cucitrici, Kizu no Kuma. La cicatrice dell'orso, per Casini Editore, primo volume del progetto Ryukoku Monogatari.

Altri racconti brevi sono stati pubblicati in riviste e antologie.

Nella collana Odissea Digital Fantasy è previsa anche la riproposta di Haibane – Ali di cenere e della raccolta Le avventure di Chariza.

LinguaItaliano
Data di uscita22 mag 2018
ISBN9788825406061
Chariza Il soffio del vento

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    Anteprima del libro

    Chariza Il soffio del vento - Francesca Angelinelli

    Chariza.

    Prefazione

    La protagonista del romanzo, Chariza, è una donna dalle mille sfaccettature, la cui fiducia è stata tradita in gioventù e ciò l’ha portata a essere una mercenaria, un’assassina, una ladra, una donna che lotta giorno e notte contro la maledizione di cui è vittima. Chariza è anche una donna in continua evoluzione, che medita e si interroga, che vuole comprendere quanto la maledizione influenzi i suoi desideri e i suoi sentimenti, che scopre nuove sfumature della sua personalità allorquando si rivela capace di tenerezze nei confronti del piccolo Suzume.

    Tutto ciò la rende estremamente affascinante e magnetica, tanto da far innamorare l’uomo più potente dell’intero Si-hai-pai. Ma nella sua vita pare non esserci spazio per l’amore, soprattutto non nel momento in cui la pace e l’equilibrio del regno sono messi in pericolo da un nemico sconosciuto e inquietante che trama nel buio al fine di eliminare il Drago d’Oro e la sua discendenza. Chariza è l’unica combattente che può proteggere l’erede al trono dagli innumerevoli pericoli che lo attendono, e sebbene controvoglia accetta il gravoso incarico tanto differente da quelli precedentemente svolti.

    La sua spada, Kageboshi, anche nei momenti di maggiore rischio le donerà la forza e la lucidità necessaria per sbaragliare gli avversari che ostacoleranno la sua missione. La sua forza interiore le permetterà di resistere alle tentazioni che nutrono la maledizione e rendono ardua ogni scelta.

    È l’inizio di una meravigliosa avventura attraverso la quale vivremo l’Estremo Oriente, respirandone i suoi profumi e ammirandone le bellezze, dalla delicatezza dei fiori di ciliegio alla maestosità dei palazzi imperiali. Il fruscio delle sete pregiate, il sibilare delle armi, il frastuono del vento impetuoso tra gli alberi e il frullo degli uccelli in volo ci accompagneranno per le strade dello Si-hai-pai, regalandoci emozioni a ogni passo. Il profumo del tè e del gelsomino, dell’incenso e del sangue si mescolano, così come si intrecciano azione e sentimento in un romanzo carico di suspense e di misteri che si svelano gradualmente.

    A Chariza si accostano personaggi delineati con altrettanta cura, donne e uomini che si rivelano personalità complesse e dai trascorsi difficili, esistenze in cui le esperienze del passato continuano a interagire prepotentemente con gli avvenimenti del presente, influenzandone la percezione e le scelte. Spesso le battaglie più violente non sono quelle in cui si fronteggia l’avversario brandendo un’arma, ma si combattono nell’interiorità con lo scopo di abbattere quei desideri che se assecondati porterebbero a danneggiare se stessi e le persone che stanno affianco. Di tutte queste lotte ne portano le cicatrici i personaggi che insieme a Chariza animano la storia, imprimendone una continua carica di passione e di sofferenza.

    Libro primo

    Il soffio del vento

    Verso la capitale

    si ammassano nuvole cariche di neve,

    ancora mezzo cielo da percorrere.

    Bashō (1644 – 1694), Poesie

    Capitolo 1

    Antefatto

    Incessante pioggia di primavera

    Un punto imprecisato della pianura; un giorno indefinito del quarto mese dell’ottavo anno di regno dell’Imperatore Yoshio Ryokin.

    La cortina di pioggia incessante impediva di distinguere i contorni del mondo. Da giorni, forse da intere settimane, continuava quel maltempo umido e grigio. Il cielo non si era più aperto e tra i contadini c’era chi bisbigliava che la dea Sole fosse irata col popolo dello Si-hai-pai e non sarebbe più apparsa in cielo.

    Le nuvole, spesse e cineree come cotone usato dal carbonaio per detergersi il viso, fluttuavano sopra le valli e accarezzavano le cime dei monti più alti, ancora agghindate con il loro candido vestito invernale. Una nebbia bianca e compatta si insinuava tra i tronchi dei grandi pini e nelle foreste di bambù che ricoprivano i fianchi delle colline; come una valanga di umida foschia scendeva verso le valli sottostanti, in cui le risaie non riuscivano più ad arginare l’acqua eccessiva che aveva sommerso più del necessario i fragili steli del riso appena trapiantato. Le gocce di pioggia battevano sulla superficie dell’acqua con un suono martellante e continuo che era divenuto il sottofondo della vita dei contadini disperati, che già contavano i danni causati da quel nuovo diluvio. Nessuno osava uscire dalla propria casa se non per necessità, poiché le strade si erano mutate in fiumi di fango giallastro che si snodavano sinuosi confondendosi con i canali dritti e ben costruiti, le cui chiuse erano state tutte aperte nella speranza di far fluire più rapidamente quella immensa quantità d’acqua.

    Un alito di vento agitò gli steli verdi del riso, facendoli piegare fino a immergere la testa delle spighe nell’acqua sporca. Un suono ritmico, come il battito di un cuore agitato, si sovrappose al familiare ticchettio della pioggia, e dalla bruma che si levava dalla strada emerse la sagoma scura di un cavaliere, che piegato sulla sella spronava e incitava il cavallo con grida e insulti che si perdevano nel frastuono degli zoccoli che affondavano, rischiando spesso di scivolare, nel terreno fangoso e insicuro. Il mantello di paglia, che aveva indossato per proteggere quello di stoffa nera, di cui si intravedevano i lembi agitati dalla furia della sua cavalcata, era lacero in più punti e a stento tratteneva le gocce; i pantaloni scuri e larghi avvolgevano completamente le gambe, ed erano macchiati del fango che schizzava in ogni direzione insozzando anche le zampe dell’animale, che galoppava come se alle sue spalle ci fossero tutti i demoni degli inferi a inseguirlo.

    Improvvisamente una vipera acquatica scivolò fuori dalla sua tana e attraversò la strada proprio di fronte al frettoloso viaggiatore. Il cavallo, impaurito, si impennò nitrendo e sbuffando, rischiando di cadere all’indietro sopra il suo cavaliere, il quale però si afferrò saldamente alle redini e avvolse con i polpacci il ventre dell’animale ricordandogli i suoi doveri, poi si piegò verso le orecchie del cavallo, completamente abbassate contro la testa, e gli sussurrò qualche frase gentile che lo calmò in pochi istanti. La bestia, di nuovo docile e ubbidiente, tornò a poggiarsi sulle quattro zampe, e il contraccolpo fece sobbalzare il cavaliere e spezzare il laccio del suo cappello di paglia a tesa larga. Il copricapo cadde a terra liberando una folta chioma di capelli neri che si agitò sinuosa nell’aria, come le onde del mare in tempesta. Lei non ci badò e colpendo il costato del cavallo lo convinse a riprendere la marcia accelerando ulteriormente l’andatura.

    Chariza alzò gli occhi verso il cielo e si strinse nel mantello pesante di stoffa scura, poi si voltò per controllare che il suo compagno di viaggio non fosse rimasto troppo indietro. Sbuffò, perché il paesaggio, che sembrava non voler cambiare mai, le faceva provare una spiacevole sensazione di fastidio fisico data dall’impressione di avanzare troppo lentamente. Tirò le redini del cavallo per farlo rallentare un poco in attesa del messaggero che la accompagnava, finché questi non comparve da una curva della strada.

    – Andiamo! – gridò all’uomo, che fu costretto a sollevare un braccio per ripararsi il viso con l’ampia manica della giacca per riuscire a distinguere chiaramente la sagoma di Chariza avvolta dalla pioggia.

    – Signora, ti prego, rallenta! – rispose lui, respirando affannosamente tanto quanto la sua cavalcatura. Chariza fermò il cavallo e lo fece girare più volte su se stesso. – Non sei stato tu a dire che era urgente? – chiese in tono brusco, e senza risparmiare all’incolpevole messaggero un’occhiata colma di risentimento.

    Una sferzata di vento agitò i suoi capelli, che frustarono il suo viso dai lineamenti affilati, e innervosì ulteriormente la sua fremente cavalcatura, così Chariza la incitò e riprese a galoppare come una furia fissando con aria di sfida l’orizzonte sfuocato che le si parava davanti, ignorando il compagno di viaggio e le sue lamentele.

    Il messaggero tremò, per il freddo e per la sottile sensazione di timore che Chariza gli faceva provare, ma la seguì, continuando però a borbottare fra sé e sé.

    Chariza non aveva nessuna intenzione di perdere un solo istante lungo la strada ora che era quasi giunta a destinazione.

    Fidandosi del passo sicuro del cavallo, si abbandonò ai pensieri che da giorni agitavano la sua mente e il suo animo.

    Non era la prima volta che il Drago d’Oro preferiva richiedere i suoi servigi piuttosto che affidare qualche delicata missione ai cavalieri Ryokin della sua guardia o a delle guarnigioni mandate dall’Alleanza per rinforzare l’esercito imperiale. Ma questa volta Chariza avvertiva che c’era qualcosa di diverso, qualcosa che aveva letto tra le righe di quella strana lettera, qualcosa che la costringeva a scrutare l’orizzonte nella speranza di veder comparire al più presto l’ultima collina, dietro alla quale avrebbe scorto la capitale e la sua destinazione.

    L’Imperatore aveva molti nemici, e aveva dovuto imparare che la sua fiducia non poteva essere riposta neppure nei membri dell’Alleanza dopo che il Drago Rosso aveva cercato di spodestare la dinastia dei Ryokin. Aveva anche sperato che dopo quell’episodio la sua vita e quella della sua famiglia sarebbero state più al sicuro, solo per scoprire che qualcun altro vagheggiava di alterare l’ordine millenario sul quale si reggeva lo Si-hai-pai. Chariza credeva che, in fondo, Ryokin non sarebbe mai stato completamente al riparo da attentati e congiure, ma sapeva anche che era un uomo abbastanza intelligente da sapersi difendere perfino dai suoi stessi alleati. Quindi quel richiamo frettoloso e insistente, quel messaggio che non lasciava possibilità di scelta, la cui unica risposta era stata quel viaggio improvviso, la turbava ancora più profondamente.

    "Cosa può essere successo? si chiedeva mentre stringeva i fianchi del cavallo, cercando con lo sguardo il punto in cui la strada avrebbe cominciato a salire. Chi cerca di governare lo Si-hai-pai?"

    Chariza urlò qualcosa all’animale, che accelerò, in una nuvola d’acqua fangosa, lasciando nuovamente indietro il suo compagno di viaggio.

    Il messaggero stava già immaginando se stesso immerso in una tinozza d’acqua bollente, circondato da splendide fanciulle che danzavano attorno a lui portando oli profumati e pomate da spalmare sulla sua schiena dolorante, oppure si vedeva comodamente seduto a un tavolo imbandito con ogni leccornia che la stagione potesse offrire, imboccato sempre da altrettante meravigliose ragazze.

    Era così perso nei suoi sogni che non si accorse neppure che Chariza aveva fermato il cavallo. La sua povera giumenta, sfinita almeno quanto lui, andò a sbattere contro il posteriore del morello della donna, riportandolo così alla dura realtà. E alzando lo sguardo di fronte a sé, il messaggero fu costretto ad ammettere che la realtà era ben peggiore di quel che ricordava. Quattro uomini vestiti di nero su cavalli altrettanto scuri sbarravano loro la strada. Avevano il viso coperto e portavano ognuno una spada corta. Il messaggero li fissò più sconsolato che spaventato, perché ormai non aveva più neppure la forza per sentire la paura.

    – Lasciateci passare! – ordinò Chariza ai quattro uomini.

    Il messaggero si scosse, ritrovando quel tanto di lucidità che gli serviva per intuire che presto ci sarebbe stato un combattimento e che lui sarebbe stato solo di intralcio.

    – Lasciarti passare? – risero loro squadrando Chariza. – E perché dovremmo farlo? Sei solo una donna e non mi pare che il tuo amico laggiù abbia intenzione di aiutarti. Chariza non si voltò neppure per vedere cosa stesse facendo il messaggero, che, in realtà, si stava lentamente allontanando per nascondersi dietro a qualche pietra di segnalazione lungo la strada. Lei sorrise beffardamente, accorciò le redini e le strinse nella mano destra.

    – Bene, vorrà dire che mi occuperò io di voi! I quattro uomini grugnirono infastiditi dal tono di scherno e di sfida di Chariza, e sfoderarono le spade in un unico sibilo metallico.

    – Allora fatti sotto! – Spronarono i cavalli e si lanciarono verso di lei fissandola con odio crescente.

    Chariza trattenne qualche istante il cavallo, poi, quando riuscì a vedere il bianco degli occhi dei suoi nemici, lo lanciò a sua volta contro di loro con l’intento di passare tra i due centrali. La mano sinistra scivolò rapida verso l’elsa della spada e le dita della donna si strinsero attorno a essa con decisione; la sfoderò un attimo prima che i cavalieri le fossero completamente a fianco e, disegnando un arco di fronte a sé, raggiunse prima quello alla sua sinistra, che si accorse di avere il ventre squartato appena prima di cadere nel fango ormai privo di vita, poi quello alla sua destra, trafiggendolo con la coda del fendente che lo separò in due metà esatte.

    Chariza superò i due avversari rimasti e li fissò, assaporando l’incredulo terrore dipinto sui loro volti. – Allora? Tutto qui? Fatevi avanti! Gli uomini lanciarono grida feroci, più per infondersi coraggio che per incutere paura nella donna, e la affrontarono nuovamente, ma Chariza li colpì entrambi prima che questi avessero la possibilità di far cadere le lame delle loro spade su di lei.

    – In nome degli Dèi! – esplose il messaggero, che era uscito dal suo nascondiglio e si stava avvicinando alla scena del massacro, meravigliato e rassicurato dall’abilità di Chariza con la spada, ma anche profondamente intimorito, oltre che disgustato dallo spettacolo orrendo che i corpi mutilati dei cavalieri offrivano.

    Chariza fece trottare il cavallo attorno a loro, poi scese vicino al corpo di quello che l’aveva sfidata per primo e si inginocchiò, allungò una mano e la infilò sotto la camicia frugando tra le pieghe.

    – Che state facendo? – chiese il messaggero, sempre più disgustato.

    – Cerco i soldi! – ammise Chariza con assoluto candore. – E degli indizi. Qualcuno li ha mandati. Non sono certo cavalieri Ryokin, anche se indossano vesti nere. E io voglio scoprire di quale colore era il loro cuore. – Sfilò da una tasca dell’uomo un sacchetto, lo aprì e vide che era colmo di monete d’argento, ma non trovò nessun segno del mandante. – Mmm. – Si alzò e prese una moneta. – È una comunissima moneta imperiale – commentò sollevandola sopra il suo viso, mentre la pioggia continuava a scivolarle addosso.

    – Certo! – sbottò il messaggero. – Quanti tipi di monete credete che esistano? Chariza ripose la moneta nella borsa, che si legò alla cintura, e sorrise in modo accondiscendente al messaggero. – Più di quanti immagini, ti assicuro, più di quanti immagini. Ora andiamo! – ordinò infine, rimontando in sella.

    La donna riprese la sua folle corsa verso la capitale, ma questa volta, oltre alla ruga di preoccupazione che le attraversava la fronte, le sue labbra disegnarono sul suo viso un’espressione di malcontento che il messaggero non sapeva se attribuire alla scarsità di denaro trovata addosso ai loro aggressori oppure al fatto che Chariza stesse cercando qualcosa che non aveva trovato.

    La collina era rimasta avvolta dalla nebbia per tutta la mattina, ma Chariza non l’aveva mai persa di vista un attimo, ignorando la pioggia che le pizzicava il viso. Conosceva bene quella strada, poiché l’aveva percorsa un’infinità di volte da quando era tornata nello Si-hai-pai. Sapeva che dalla cima di quell’ultima altura avrebbe avvistato le mura di Hoh-ma, la Splendente, capitale dell’Impero, e che avrebbe lasciato le strade di terra battuta per prendere una delle cento vie lastricate che entravano in città.

    Solo quando fu arrivata al culmine della collina ricoperta da pascoli, lieta che lassù la pioggia fosse meno fitta e più lieve, fermò il cavallo e aspettò che il messaggero la raggiungesse e si portasse al suo fianco.

    – Siamo arrivati – disse indicando la pianura sotto di loro. – Laggiù, nascosta da questa foschia innaturale e da questa pioggia che sembra vapore, c’è Hoh-ma. L’uomo si sforzò di vedere attraverso il muro di fumo bianco che scivolava dalle cime che circondavano la Valle del Chiaro di Luna, giù nel bacino, ma non riuscì a scorgere nulla.

    – Riconoscerei Hoh-ma anche a occhi chiusi – mormorò Chariza, sorridendo per la prima volta da quando si erano messi in viaggio. – Sbrighiamoci! – disse. Avvolse il costato del cavallo con i polpacci, questa volta con maggior leggerezza, e lo spinse al galoppo.

    Il messaggero non aveva mai percorso tanto rapidamente la distanza che separava la regione di Birodo, dove sorgeva il feudo del nobile Kaoru in cui era riuscito a scovare Chariza, e la capitale, e aveva perso la cognizione del tempo a causa della marcia forzata imposta dalla donna. Non era quindi certo che l’intuizione della sua compagna di viaggio fosse esatta, tuttavia la stanchezza, la fatica e la fame erano troppo forti e, unite alla speranza di scendere dalla sella per stendersi in un letto caldo e morbido, lo costrinsero a fidarsi una volta di più di Chariza.

    La seguì lungo il fianco della collina, sorridendo però solo quando le luci delle cento torri di Hoh-ma apparvero come spettri nella foschia; finalmente anche il messaggero prese un profondo, soddisfatto respiro quando vide le alte mura che gli erano parse fino a poco prima così vicine e così irraggiungibili, con i loro fuochi di segnalazione, le guarnigioni calde, i magazzini pieni.

    Chariza però fermò il cavallo sul ciglio della strada e smontando avanzò tra l’erba bagnata. Il messaggero sbuffò e la seguì con lo sguardo, domandandosi che cosa avesse ancora in mente quella donna. Lei si inginocchiò scomparendo tra i giunchi e l’uomo dovette alzarsi sulle staffe per notare il cadavere sul quale era china. Il viso era riverso nel fango e Chariza fu costretta a voltare il corpo per esaminare la sua uniforme. Il drago dorato che si intravide tra le macchie di sangue, terra ed erba non lasciò dubbi alla guerriera.

    Chariza staccò dalla cintura del soldato un tubo di bambù chiuso con la ceralacca e, rialzandosi, ruppe il sigillo facendo poi scivolare nella mano destra la lettera che, come aveva immaginato, era indirizzata a lei e scritta con la stessa elegante calligrafia corsiva del messaggio che la stava riportando a Hoh-ma.

    – Signora… che cosa è successo? – chiese il messaggero, esortandola a sbrigarsi, sentendosi poco sicuro così esposto lungo la strada. – La città è vicina. Chariza annuì, nascose la lettera all’interno della manica della giacca e si diresse verso la porta scura che si intravedeva, come le fauci di un enorme demone, oltre la pioggia che non accennava a diminuire di intensità.

    Le guardie si pararono di fronte a loro, ma si scostarono immediatamente quando lo stendardo imperiale, che il messaggero aveva portato sulle spalle per tutta la durata del viaggio, uscì dall’ombra del grande arco di pietra. Chariza chinò il capo in segno di saluto e i due uomini, in armatura nera, risposero con un profondo inchino; per quel che ne sapevano, lei poteva essere il giovane rampollo di una nobile famiglia. Non a tutti, infatti, era consentito viaggiare mostrando il simbolo del casato Ryokin.

    La lunga e ampia via principale si apriva ora di fronte a lei e al suo compagno di viaggio. Al termine di essa si potevano già scorgere le Mura Celesti, l’imponente cerchia entro la quale si trovavano il Palazzo Imperiale e le ville dei nobili. Chariza si guardò attorno in cerca di eventuali spie o mercenari pronti ad attaccarli, e tirò un sospiro di sollievo quando fu assolutamente certa che il benvenuto ricevuto lungo la strada sarebbe stato l’unico, almeno per quel giorno.

    Avanzando tra le vie Chariza cercava di mantenere un’andatura spedita, benché non potesse più lanciarsi al galoppo verso la sua destinazione, e il messaggero le stava dietro domandandosi con una certa inquietudine dove la guerriera lo avrebbe condotto. Le strade, normalmente affollate di persone, sulle quali si affacciavano numerosi negozi che vendevano i prodotti provenienti da ogni parte dell’Impero, erano deserte e le insegne colorate delle botteghe erano state ritirate, così la città appariva triste e spenta, priva di quegli odori intensi e di suoni vivaci che la caratterizzavano. Solo raramente qualcuno, annoiato dalla lunga permanenza tra le mura domestiche, si affacciava alle finestre e alle porte, incuriosito dal passaggio della bizzarra coppia di viandanti che spezzava la monotonia di quelle giornate grigie e che avrebbe dato di che discutere per almeno un paio giorni.

    Chariza lanciò loro qualche divertito sguardo con la coda dell’occhio, ma evitò di passarci davanti troppo lentamente.

    "Così potranno crogiolarsi in ipotesi assurde!" pensò, mentre osservava una bimba che la scrutava con occhi sognanti e impauriti, come se avesse visto una donna-serpente, demone della pioggia.

    Voltandosi verso il suo compagno di viaggio gli fece cenno di seguirla e lo guidò attraverso l’intrigo di ampie strade e vicoli, in zone della città in cui non era mai stato e che neppure immaginava esistessero, fiancheggiando case e templi, botteghe e ristoranti, locande e baracche, finché il messaggero non si accorse di trovarsi sotto le Mura Celesti, da cui spuntavano i tetti a pagoda, di tegole rosse, legno scuro e decorazioni dorate, delle ville dei nobili e dei ricchi signori dell’Impero. Ma Chariza non alzò neppure lo sguardo e continuò ad avanzare costeggiando quelle splendide mura, dirigendosi verso una porta di legno dipinta di rosso sulla cui sommità erano stati intagliati due draghi stretti in un appassionato abbraccio.

    Il messaggero, stupefatto, provò più volte a protestare. – Ti prego… signora… aspetta – la implorò tentando di affiancarla. Quello era l’ingresso del quartiere dei piaceri, lui non vi era mai entrato e non desiderava farlo ora, per seguire una donna dal carattere brusco e dai modi sgarbati.

    – Taci! – ordinò Chariza, confermando l’opinione che l’uomo aveva di lei, e proseguendo senza neppure voltarsi a controllare se la stesse ancora seguendo o se, alla fine, l’avesse abbandonata.

    Lui però era ancora lì; deglutì e fissò gli occhi sgranati dei due draghi. "Santo cielo, sono un uomo pensò, mentre il suo cavallo superava i piloni della porta. Un uomo rispettabile, ma, per gli Dèi, pur sempre un uomo. Se entra lei e con tanta disinvoltura, perché io non dovrei seguirla?"

    Il messaggero fissava incredulo le facciate, intonacate di un bianco abbagliante nel luccichio della pioggia, delle case a due piani, nascondendo la testa tra le spalle a ogni improvviso scoppio di risa che da esse proveniva. Vedeva le sagome delle donne che si muovevano dietro quelle finestre, come libellule nere che danzavano al suono soffocato di flauti e chitarre a cinque corde, ne udiva il canto melodioso e ne immaginava i profumi delicati. Rosso in volto a causa dei pensieri che attanagliavano la sua mente, e i suoi lombi, era talmente impegnato a celarsi nel suo mantello che non si accorse di aver superato Chariza, finché lei non lo chiamò facendolo arrossire ancora di più per l’imbarazzo.

    Chariza si era fermata di fronte alla locanda Kankaku e aveva alzato lo sguardo verso la figura ammiccante dell’insegna, sorridendo mentre abbassava leggermente il capo come in segno di saluto.

    – Non vorrete entrare qui, signora? – chiese indignato il messaggero, che fissava con falso disgusto l’insegna, mentre Chariza, che era scesa da cavallo, stava spostando la tenda color amaranto dell’ingresso.

    Lei si fermò e si voltò verso di lui sforzandosi di metterlo a tacere definitivamente con l’espressione infastidita dipinta sul suo volto, anche se la mano destra stava già accarezzando l’elsa della spada.

    – Ho detto taci! – gli ricordò, tornando a scrutare l’ingresso scuro della locanda.

    All’interno numerosi uomini di tutte le età e condizioni sociali si intrattenevano bevendo liquori e tè, discutendo tra loro e con le affascinanti fragili ragazze che, come farfalle colorate, volteggiavano nelle stanze dispensando sorrisi, cantando, recitando poesie e danzando, lasciando scie di delicati profumi floreali.

    Chariza assaporò quell’odore misto di riso bollito ed essenza di calendula che caratterizzava la locanda Kankaku, e cercò con lo sguardo la vecchia proprietaria o qualcuna delle kiniru che aveva conosciuto nella sua ultima visita alla capitale, ricordando con affetto il periodo in cui aveva vissuto presso di loro. Avanzò tra i bassi tavoli attorno ai quali erano seduti i clienti, trascinandosi dietro il messaggero che, con le guance arrossate, fissava le ragazze che lo provocavano lanciandogli baci, ammiccando, sorridendo e spostando le vesti di seta per mostrare la nuca e le spalle dalla pelle bianca e delicata.

    – Benedetti siano gli Dèi! – La voce dell’anziana donna colpì Chariza alle spalle e la fece voltare tanto rapidamente che urtò il messaggero, mandandolo a cadere tra le braccia di due esperte kiniru, che cominciarono a lasciargli i segni di appassionati baci sul viso e sul collo mentre lui si dimenava per liberarsi e invocava l’aiuto di Chariza, che si era dimenticata di lui.

    – Sei tornata giusto in tempo, figlia mia! – la accolse la vecchia Oku, abbracciandola come se fosse stata davvero una figlia, e invitandola con un gesto della veste di seta a seguirla nei più tranquilli appartamenti privati oltre la parete di carta sul fondo della stanza principale della locanda.

    Chariza però non poteva aspettare e, non appena furono fuori dalla portata degli orecchi dei clienti, strinse il braccio dell’anziana donna imponendole di fermarsi.

    – Non ho tempo – le disse fissandola con sguardo implorante.

    – È davvero così grave? – chiese la donna liberandosi dalla presa. – Non avrei mai pensato di vedere l’impassibile Chariza alle prese con l’impazienza! – la canzonò poi, cercando di alleggerire la tensione che sentiva scorrere in tutte le membra della giovane amica. – Non sarai stata colpita da una nuova maledizione? Chariza si sforzò di rispondere allo scherzo con un sorriso, ma non smise di dirigersi verso una porta in fondo a uno scuro corridoio.

    – Io no di certo, ma pare che lui… – Si fermò mordendosi il labbro. – Forse tutto lo Si-hai-pai è stato colpito da una maledizione! La vecchia donna sospirò, sfilò dall’ampia manica un mazzo di chiavi e cominciò ad aprire i numerosi lucchetti che chiudevano la porta che le kiniru usavano per raggiungere la residenza imperiale quando dovevano andare a servire i nobili.

    – Non vorrai presentarti così? – chiese poi, accarezzandole i capelli gocciolanti che cadevano scomposti sulle spalle.

    – Ti prego… – sbottò Chariza aggrottando la fronte. – Non è il momento. La vecchia si sfilò un bastoncino di legno dalla crocchia in cui teneva legati i lunghi capelli argentati e lo avvolse attorno a quelli di Chariza, sistemandole l’acconciatura come meglio poté.

    – Fai attenzione – le disse la Oku, aprendo la porta e guardandola con affetto. – Se le cose dovessero andare per il peggio nessuno di noi sarebbe più al sicuro all’interno delle Mura Celesti! – Lo so – disse Chariza. – Ma lui ha bisogno del mio aiuto… ancora una volta. Detto questo scomparve nell’oscurità del passaggio che conduceva dalla locanda Kankaku alle stanze private dell’Imperatore. Mentre camminava, Chariza affondò la mano in una tasca della giacca e trovò un foglietto di carta spiegazzato: il messaggio che l’aveva posta nuovamente in viaggio. Chariza lo strinse come se fosse un tesoro e si domandò cosa avrebbe trovato alla fine di quel lungo corridoio.

    I ricordi andarono al giorno in cui aveva ricevuto quella breve lettera e la sua vista si offuscò: l’immagine del castello del nobile Kaoru riapparve, inondata dalla luce del caldo sole di quei giorni.

    Castello del nobile Kaoru, prefettura di Birodo; seconda settimana del terzo mese dell’ottavo anno di regno dell’Imperatore Yoshio Ryokin.

    Chariza attraversò il grande arco di pietra che segnava l’ingresso nel primo cortile, lasciando gli ombrosi e ripidi sentieri del giardino interno della residenza privata del nobile Kaoru, presso cui prestava servizio da qualche settimana poiché egli, come molti signori di provincia, temeva per la sua vita e le sue ricchezze.

    Il sole stava ormai tramontando e Chariza dovette pararsi gli occhi con la manica della giacca di seta blu, che indossava sopra degli ampi pantaloni a gonna e a una camicia, per poter scorgere i soldati seduti nella veranda che si affacciava sui lati corti del cortile e dalla quale si accedeva agli appartamenti della guarnigione. Appena gli uomini si accorsero di lei smisero di svolgere qualsiasi attività, di lucidare le spade, di pulire gli stivali, di affilare le lance, di cucire le uniformi, e si voltarono a fissarla incuriositi. Lei, algida come sempre, li osservò inespressiva cercando di cogliere nell’ombra della sera qualche viso conosciuto, poi li salutò con un leggero cenno del capo e attraversò l’ampio spazio in terra battuta, dove alcuni soldati si stavano allenando nella scherma, avvicinandosi alle torri che fiancheggiavano il portone d’accesso. Entrò senza che le guardie, accaldate dalle pesanti armature che erano costrette a indossare, provassero a fermarla e salì sui bastioni delle mura esterne.

    Da quel punto d’osservazione privilegiato poteva godere di tutta la bellezza della vallata sottostante l’altura su cui il castello del nobile Kaoru era stato costruito. Le colline che circondavano la valle erano ricoperte da boschi di pini e cedri, nella parte più alta, e di castagni e bambù dove i fianchi scendevano dolci verso la pianura, nella quale si potevano scorgere, nell’intrigo di strade rialzate, canali d’irrigazione, campi e alcuni piccoli villaggi di contadini. Il sole a occidente aveva i contorni sfumati per la foschia serale che già iniziava ad alzarsi, ma splendeva di un intenso color arancio mentre si nascondeva lentamente dietro le colline. Chariza osservandolo pensò che nel punto in cui le due alture si incrociavano passava una strada che conduceva alla capitale dell’Impero.

    Tutta la vallata era stata inondata da una marea dorata che riportava alla memoria della giovane donna lo sfarzo e la ricchezza dei palazzi di Hoh-ma e degli abiti dei nobili residenti nelle Mura Celesti, ma, più d’ogni altra cosa, i colori del tramonto le facevano tornare alla mente l’immagine del Drago d’Oro.

    Il vento soffiò dalla pianura, agitando le chiome dei pini e portando fin sui bastioni il profumo di resina e di qualche susino che cominciava a fiorire. Chariza chiuse gli occhi scuri e prese un profondo respiro, lasciando che la sua immaginazione ricreasse la scena di un uomo avvolto da un’ampia veste di seta nera bordata d’oro che, solo, sedeva in una veranda sorseggiando tè profumato al gelsomino e ammirava i boccioli di ciliegio agitati dalla brezza di primavera.

    Quando finalmente si fu decisa a lasciare andare quel fugace ricordo e ad aprire gli occhi, la notte aveva già fatto la sua comparsa e le prime stelle brillavano trepidanti in cielo. Chariza fu percorsa da un brivido, si strinse nella giacca e si diresse verso le scale per tornare alla residenza. Una folata gelida proveniente da nord la colpì in viso e fece sciogliere la crocchia con cui aveva tenuto fermi sopra la nuca i lunghi capelli neri. Chariza si voltò verso il vento con aria di sfida, poiché qualcosa dentro di lei l’aveva fatta sussultare: avvertiva una sensazione di disagio che non sapeva spiegarsi, e assumendo la sua consueta espressione severa e contrariata scrutò il cielo sopra le cime dei monti a nord, dove ammassi di nuvole temporalesche cominciavano ad addensarsi.

    Qualche giorno più tardi il nobile Kaoru la congedò prima del consueto e lei ne approfittò per tornare ad ammirare il paesaggio. Stava passeggiando sui bastioni delle mura quando la sua attenzione fu attirata da una nuvola di polvere che avanzava lungo la strada in salita che portava al castello.

    Chariza si era sentita turbata non appena l’aveva avvistata. Stringendo i pugni sulle pietre cui si era appoggiata, senza accorgersi che le mani erano diventate fredde e sudate, mentre in volto si sentiva avvampare, si sporse per osservare meglio chi si stava avvicinando con tanta rapidità al castello, e vide un uomo vestito completamente di nero che avanzava al galoppo sfrenato portando sulla schiena una bandiera rettangolare, anch’essa nera, su cui era dipinto un drago dorato che sembrava aver preso vita tanto era agitato dalle sferzate d’aria che colpivano lo stendardo.

    Una goccia di sudore scese lungo la tempia della donna.

    – Ryokin – sussurrò mentre osservava, immobile e vinta da una viva apprensione cui non osava dare il nome di paura, il messaggero che fermava il cavallo tirando violentemente le redini e si apprestava a urlare le sue credenziali alle guardie del portone, che presto si aprì nel frastuono degli argani di metallo.

    "Ho una gran brutta sensazione" pensò, alzando gli occhi verso il cielo che cominciava a farsi grigio. – Se ha mandato un messaggero imperiale significa che non ha nulla di buono da comunicarmi – disse tra sé, osservando un ammasso di gonfie nuvole scure che si erano radunate sopra i monti e che minacciavano di scendere nella valle da un momento all’altro.

    Il messaggero era stato accolto dai soldati della guarnigione, che gli stavano chiedendo insistentemente notizie della capitale mentre offrivano acqua e cibo per lui e per la giumenta baia su cui era arrivato, che era così esausta e mal ridotta che due stallieri le avevano dovuto immediatamente portare del fieno e la stavano già strigliando per ripulirla dal sudore e dalla fanghiglia di cui era coperta.

    Appena Chariza fu giunta nel cortile, il messaggero si voltò a osservarla con sguardo indagatore e lei restituì quell’occhiata celando così la sua preoccupazione. L’uomo era coperto di polvere da capo a piedi, la treccia in cui aveva legato i capelli all’inizio del viaggio si era sciolta nell’impeto della cavalcata, il viso era scavato, gli occhi lucidi per la stanchezza. Non aveva un aspetto dignitoso, ma Chariza non aveva dubbi sulla sua identità e provenienza: era un messaggero appartenente ai cavalieri Ryokin, la guardia dell’Imperatore, e veniva senz’altro dalla capitale.

    – Siete Chariza? – chiese l’uomo, avvicinandosi timoroso di alzare lo sguardo sulla donna che lo stava ancora esaminando. – Siete Chariza del monte Tōmei? – disse sforzandosi questa volta di incontrare gli occhi neri di lei.

    – Sì, sono io – si limitò a rispondere Chariza, convinta che una parola di più avrebbe tradito la tensione che la attraversava, facendole tremare la voce.

    – Ho un messaggio per voi. – L’uomo si rilassò per la gioia di aver trovato il destinatario della missiva e sorrise a Chariza, ma nel suo sguardo la donna leggeva l’ansia che doveva essere provocata dal contenuto del messaggio. – Ecco… L’Imperatore ha bisogno di voi a Hoh-ma. Ordina che rientriate subito a corte. Chariza si ritrasse sconcertata. – L’Imperatore ordina? A me? – chiese sorridendo in modo beffardo di quelle affermazioni inverosimili. Lei sapeva perfettamente che Ryokin avrebbe tutt’al più chiesto, ma mai ordinato, a lei di fare qualcosa, ma era cosciente del fatto che per un cavaliere Ryokin ogni parola proferita dall’Imperatore non poteva essere altro che un ordine.

    – Sì, signora – si limitò a rispondere il messaggero, che aggrottò la fronte contrariato dalla poca serietà con cui Chariza aveva accolto l’ordine del sovrano e sforzandosi di osservarla meglio per tentare di capire perché la donna fosse tanto sorpresa, anche se in realtà stava ancora cercando di determinare perché, con tutti i soldati e i guerrieri dello Si-hai-pai, l’Imperatore lo avesse mandato in giro per metà dei territori dell’Impero a cercare quella donna armata di spada e che a lui non pareva neppure molto attraente.

    Chariza notò lo scontento del messaggero alla sua reazione e tornò seria. – Così l’Imperatore vuole che torni a Hoh-ma. Avrà sicuramente i suoi buoni motivi, ma lui sa bene che io non rispondo agli ordini di nessun Drago, quindi dovrà sforzarsi un po’ di più se vuole convincermi a lasciare un lavoro per il quale sono molto ben pagata. – Lo aveva previsto – disse il messaggero. – Mi ha consegnato questa. – Sfilò dalla tasca interna della giacca un rotolo sigillato con della ceralacca su cui brillava il drago rampante.

    Chariza perse immediatamente l’espressione ironica, che ancora le faceva brillare gli occhi di una furbizia volpina, e con la quale aveva stuzzicato il messaggero. Gli strappò il rotolo dalle mani senza più preoccuparsi di mostrare a tutti gli uomini della guarnigione che quella lettera dell’Imperatore turbava l’impassibile compostezza del suo animo.

    – Dice che è urgente – aggiunse il messaggero, mentre Chariza si voltava dandogli le spalle per evitare di esporre ulteriormente agli sguardi curiosi dei presenti l’inquietudine che si era impadronita di lei e che sapeva trasparire dal suo viso pallido.

    Il cielo divenne scuro con una rapidità quasi innaturale, le nuvole grigio-violacee coprirono il sole e la pioggia cominciò a scendere leggera e fitta. Una goccia cadde sulla guancia di Chariza e lei si accarezzò il volto per asciugarsi mentre scorreva le frasi scritte con una calligrafia corsiva, elegante e delicata.

    Quando ebbe finito di leggere le poche righe che componevano la lettera, Chariza si voltò, di nuovo padrona di se stessa, fissando con severità il messaggero. – Se è così urgente partiamo immediatamente! – disse, stropicciando la lettera che stringeva nella mano. Si voltò verso gli uomini della guarnigione del castello e sospirò notando i loro sguardi sconsolati, quasi afflitti. – Ma insomma! Siete soldati o concubine? Che vi prende? Cosa sono quei musi lunghi? Invece di star lì a fissarmi come se mi vedeste per la prima volta, portatemi carta, pennello e un panetto di inchiostro. Non posso certo abbandonare il nobile Kaoru senza una parola. E voi tre… – gridò diretta a dei ragazzini che avevano da poco terminato l’addestramento ed erano stati mandati al castello per il tirocinio come guardie. – Andate a prepararmi un cavallo! Il più veloce che abbiamo. E delle provviste. – Poi Chariza si ricordò del messaggero e, nuovamente, ma con maggior interesse, ne valutò l’aspetto. – Portate anche una cavalcatura per il nostro amico, quella povera bestia con cui è arrivato morirebbe lungo la strada se non la lasciassimo riposare. Un giovane soldato le porse gli strumenti necessari per scrivere, inchinandosi rispettosamente, ma Chariza, che era riuscita a intravedere il suo viso prima che egli lo nascondesse, capì che quello era solo un misero tentativo per evitare che lei vedesse le lacrime che inumidivano i suoi occhi.

    – Grazie – sussurrò la donna, prendendo gli strumenti dalle mani del giovane. Poi diede ancora uno sguardo al primo cortile del castello del nobile Kaoru e ai soldati che, pur cercando di rimanere concentrati nelle loro faccende quotidiane, non smettevano di fissarla. Lei si ritrovò invece a valutare quanto fosse ben protetta la residenza del nobile Kaoru, sia per la sua ottima posizione rialzata, sia per le sue solide mura, sia per la presenza di coraggiosi e onesti soldati.

    "Andrà tutto bene, qui. Se la caveranno anche senza di me pensò, dirigendosi verso i suoi alloggi per scrivere la lettera di congedo. E poi tra qualche mese molti di loro torneranno a Hoh-ma e allora potremmo anche rincontrarci. Questi sciocchi soldati… Anche se questo è uno dei luoghi dove ho trascorso più tempo da quando sono tornata nello Si-hai-pai, non capisco perché dovrei soffrire a lasciarlo… Sarà che mi dispiace perdere la paga di questa settimana…"

    Un paio d’ore più tardi due cavalli perfettamente equipaggiati per un lungo viaggio attendevano i cavalieri al centro del cortile. Chariza montò in sella, sistemò la sua spada Kageboshi in modo che non la infastidisse durante la cavalcata e ordinò ai soldati di aprire il portone. Davanti a lei si apriva la vastità delle colline e delle vallate che separavano la regione di Birodo dalla Valle del Chiaro di Luna; tutto sembrava avvolto da un incantesimo, poiché la pioggia faceva brillare i germogli che riempivano i rami delle betulle, dei noccioli e delle querce che crescevano poco al di sotto dei pini secolari che circondavano le mura del castello. La strada che conduceva alla capitale si perdeva tra le colline e spesso scompariva alla vista a causa della nebbia che saliva dal terreno ormai umido.

    Chariza colpì il costato del cavallo che immediatamente si lanciò al galoppo giù dalla collina, lungo il sentiero che ne seguiva le morbide, ondulate forme. Così lasciò il castello e si mise nuovamente in viaggio per raggiungere la capitale, per raggiungere l’Imperatore, che era stato il suo miglior datore di lavoro, ma soprattutto per trovare una risposta ai dubbi che quella lettera aveva suscitato in lei.

    Ora, mentre attraversava il passaggio delle kiniru, quei dubbi che l’avevano tormentata stavano per trovare una risposta, perché l’aria si faceva più secca e fresca e un delicato profumo cominciava a pizzicarle le narici. La fine del corridoio era vicina, poteva già vedere la debole luce attorno ai cardini della porta dalla quale sarebbe uscita. Esitò. Gettò il mantello di paglia e prese un profondo respiro.

    – Lui mi sta aspettando – si disse, appoggiando la mano all’elsa della spada per infondersi coraggio.

    Non appena Chariza ebbe aperto la porta facendo scorrere il pannello di legno, un fresco profumo di incenso la avvolse e lei si sentì accapponare la pelle sotto la forza dei ricordi.

    "Non è il momento di essere sentimentali!" pensò, ordinando al suo corpo di rimanere calmo e impassibile.

    Le donne che si occupavano degli appartamenti reali nell’ala occidentale del palazzo non erano ancora passate a bloccare con le assi di legno le pareti di quelle stanze, la fioca luce entrava quindi filtrata dalla carta bianca dei pannelli chiusi, mentre alcuni erano stati lasciati aperti in corrispondenza della veranda che congiungeva quell’ala del palazzo a un’altra dove si trovavano le residenze provvisorie dei consiglieri. Chariza si guardò attorno sorpresa dal fatto che nessuna guardia stesse facendo la ronda in quella zona della residenza imperiale, ma il suo istinto le suggeriva che anche quell’accortezza doveva essere stata studiata appositamente per favorire il suo passaggio.

    Spostò un pannello e percorse un corridoio stretto tra le pareti di carta e illuminato solo dalla luce delle lampade a olio accese all’interno delle stanze. Arrivò così di fronte a una porta di legno massiccio cui erano di guardia due cavalieri Ryokin. Chariza appoggiò entrambe le mani sulla pesante porta della camera imperiale e la spinse con tutta la forza che le rimaneva finché non riuscì a spalancarla, incurante delle lamentele e delle suppliche che le guardie le rivolgevano amichevolmente tentando di fermarla.

    Tutte le persone che si trovavano all’interno si voltarono sconcertate per l’inaspettata intrusione e la guardarono per qualche istante senza riconoscerla, pronte a gridare per chiamare i soldati. I medici di corte si ritrassero spaventati dietro una delle tende del baldacchino, mentre i dignitari cercarono nella stanza il luogo in cui avevano deposto le armi per poter essere pronti a impugnarle; i generali invece strinsero immediatamente le elaborate else delle loro spade cominciando a sfilarle dai foderi.

    Chariza non aveva un aspetto molto rassicurante. Il suo mantello gocciolava copiosamente sul pavimento di legno, gli stivali infangati avevano lasciato impronte lungo tutto il suo tragitto, ciocche di capelli umidi le cadevano sulla fronte nascondendola in parte, l’espressione tesa del suo viso era resa ancor più inquietante dal pallore delle guance e dalla luce vitrea degli occhi scuri. Chiunque l’avrebbe creduta un demone, venuto magari per cibarsi dell’anima dell’uomo disteso al centro dell’imponente letto a baldacchino.

    Lei alzò il volto fissando quel poco che si poteva riconoscere di lui, avvolto com’era dalle numerose coperte, si slacciò il mantello lasciandolo cadere a terra e si ripulì il viso con una manica della camicia per rendersi più presentabile.

    Il suo sguardo freddo e indecifrabile indusse tutti ad allontanarsi, tra inchini e borbottii, abbassarono il capo per nascondere i loro volti avviliti e privi di speranza. Chariza non badò a nessuno di coloro che erano nella stanza, come se non fossero neppure presenti, poiché la sua attenzione era tutta concentrata sul malato. Si sedette in un angolo del letto accanto a lui e allungò una mano verso quella dell’uomo che vi era steso, stringendola e sentendo con orrore che era gelida. Cercò solo allora una rassicurazione nei volti dei presenti, ma nessuno di loro osò ricambiare il suo sguardo. Poi avvertì un movimento impercettibile e tornò a fissare il viso del sovrano scavato dalla malattia.

    – Yoshio – lo chiamò sottovoce, sorpresa lei stessa di aver osato chiamare l’Imperatore per nome.

    Lui volse il capo verso di lei e aprì gli occhi sbattendo le palpebre, come se stesse cercando di mettere a fuoco la vista. – Chariza? – chiese con un filo di voce, volendo accertarsi di non essere in preda a una qualche allucinazione.

    – Sì, Heika, sono io, sono proprio qui – rispose lei, sforzandosi di rimanere seria e impassibile così come era sempre stata nei loro precedenti incontri. – Mi avete fatto chiamare e io sono venuta. – Sì, come sempre – disse lui. – Che cosa vedono i miei occhi? Chariza, non sarai preoccupata per un Drago? – cercò poi di canzonarla per allentare la tensione che leggeva nella sua espressione.

    L’Imperatore allungò la mano libera verso il viso di Chariza, ma un attacco di tosse interruppe la loro conversazione attirando l’attenzione dei medici e dei consiglieri.

    – Lasciatemi in pace! – ordinò il sovrano. – Volete farmi morire prima del tempo? All’udire quelle parole Chariza fu attraversata da un brivido. "Allora sta morendo?" si chiese.

    Osservò l’uomo che cercava di agitarsi per allontanare i medici, il suo viso aveva assunto quel colorito giallastro tipico delle persone che non vivono all’aria aperta e le guance piene erano ora scavate, gli occhi scuri e un tempo penetranti erano lucidi e velati, pesanti borse e occhiaie ne segnavano il contorno, le mani erano secche e rugose. Quell’uomo malato, invecchiato anzitempo, non poteva essere l’Imperatore che lei ricordava, non poteva essere il giovane che sfidava la sua pazienza facendo leva sul suo insano amore per i soldi, per poi affidarle qualche incarico assurdo e rischioso. Non si erano incontrati che in quelle occasioni, riunioni d’affari per lo più, ma lei una volta gli aveva salvato la vita e da allora tra loro era nato un bizzarro legame di rispetto reciproco. Tanto bizzarro in quanto lei era una ladra, un’assassina, una mercenaria che vendeva la sua abilità con la spada al miglior offerente oltre che, secondo il punto di vista di alcuni, una traditrice dell’ordine a cui era appartenuta la sua vita prima che la maledizione dell’avidità la colpisse, mentre lui era la luce dello Si-hai-pai, il Drago d’Oro, l’Imperatore, il fulcro di quel vasto Stato sottoposto al rigido controllo dell’Alleanza.

    Chariza si allontanò di qualche passo da lui, per permettere ai medici di avvicinarsi al paziente e per nascondere al sovrano il reale stato delle sue condizioni di salute che in quel momento avrebbe potuto leggere senza difficoltà sul suo viso.

    Questa volta era arrivata tardi, non aveva potuto impedire ai nemici del Drago d’Oro di prendersi la loro vendetta su di lui, non era riuscita a salvare l’unico Drago che si era meritato la sua fiducia, l’unico che lei ritenesse degno di prendersi cura dello Si-hai-pai.

    Chariza si sorprese di provare un dolore tanto acuto al petto. Non stava dando peso alla presenza degli ori, dei gioielli, delle sete e dei broccati, nulla di tutto ciò che avrebbe potuto risvegliare il suo demone riusciva a raggiungere il suo animo, tutto ciò a cui riusciva a pensare era l’Imperatore morente, circondato solo da medici e consiglieri.

    Dopo tanti anni era riuscita a dominare al meglio gli istinti provocati dalla maledizione che l’affliggeva, ma in quel momento non era la sua ferrea volontà a prevalere sull’avidità, era una sincera preoccupazione, un dispiacere intenso, un’ansia crescente. Si era affezionata a quell’uomo che la trattava come un suo pari anche quando le dava degli ordini, che non la faceva sentire colpevole quando le rimproverava qualche furto, e che la ricompensava lautamente quando portava a termine con successo una missione; quell’uomo che, lo sapeva, un tempo aveva avuto paura di lei e della sua furia, ma che presto non l’aveva sentita poi così lontana dal suo stesso risentimento contro chi lo aveva attaccato.

    Alle spalle di Chariza la parete scorrevole che univa la camera dell’Imperatore a quella della moglie si aprì, e l’Imperatrice comparve attorniata da sei delle sue ancelle. Chariza si voltò a guardarla rimanendone affascinata. Anche se il suo aspetto non lo rivelava, era stata istruita dalle figlie del Drago Verde. La Signora del monte Heisei in persona l’aveva scelta come prima sposa dell’Imperatore, perché figlia di una nobile casata devota all’Alleanza. Si diceva che fosse così devota al Drago Verde da aver ricevuto da esso non solo una bellezza impareggiabile, ma anche un animo forte e generoso.

    Chariza l’aveva incontrata solo in rare occasioni nelle sue precedenti visite al Palazzo, e non le era mai sembrata tanto splendida come in quel momento. Sembrava un fiore rosso di peonia circondato da delicati boccioli. Indossava una lunga veste cremisi con ampie maniche bordate d’oro e stretta in vita da un’alta fascia color zafferano; i capelli scuri erano raccolti sopra la nuca in un’elaborata acconciatura, dalla quale spuntavano bastoncini di legno su cui erano avvolti gli steli di fiori di loto bianchi; dalle orecchie piccole e perfette pendevano orecchini in oro e corallo, e il trucco, che sottolineava con pennellate nere la forma squisita degli occhi a mandorla e con altrettanta sapienza il cuore rosso delle labbra, faceva risaltare la delicatezza dei tratti del viso. Le sue dame parevano delle sue copie in piccolo

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