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Limbo: Lacuna 2
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Limbo: Lacuna 2
E-book230 pagine3 ore

Limbo: Lacuna 2

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Info su questo ebook

Thriller - romanzo (170 pagine) - Il secondo e ultimo atto della vicenda narrata in Lacuna.
L'imprevedibile destino di un essere umano digitale.
Il lucido e spietato testamento letterario di una penna visionaria.


Che cos’era, essere svegli? Era vedere, annusare, avvertire calore o freddo, avere un’idea della propria posizione nello spazio grazie a un sistema di cui non abbiamo il comando, che ci permette di non volare giù dal letto di notte. Ma ora non vedo. Non intuisco odori. Non ho idea di quale sia la temperatura e non so dove mi trovo.

Eppure sono vivo, lo so. Funziono.

Ma di cosa sono cosciente davvero, adesso, se si esclude il passato? Cosa posso dire sulla mia condizione attuale? Chi sono?


Giovanni Vincenzi (1970-2018), dopo una lunga esperienza nel settore energetico, nel quale ha ricoperto ruoli divulgativi di rilievo, si è dedicato ad aspetti educativi e sportivi, legati in particolare al motorsport per bambini e ragazzi.

Seguace di Asimov e convinto sostenitore dell’esistenza degli alieni, ha scritto Lacuna e Limbo per rispondere a una sola domanda: quale sarà il prossimo passo evolutivo dell’umanità?

LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2018
ISBN9788825407501
Limbo: Lacuna 2

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    Anteprima del libro

    Limbo - Giovanni Vincenzi

    9788825404302

    Prologo

    Blackie se ne accorse. Fu l’unico a vederlo, in mezzo a decine di volti contratti, provati, vuoti.

    Ma palladipelo, come lo chiamava Danny, non era altro che un tenero cagnetto, e non avrebbe potuto rivelare a nessuno l’anomalia di quella smorfia fuori luogo. L’espressione incomprensibile stampata sul viso dell’ultima persona che poteva permettersela in quella circostanza.

    Mentre innaffiava un albero, pochi minuti prima, quando tutti erano in fila al seguito di un uomo in abito scuro, aveva scorto per la prima volta il signore ora inginocchiato in prossimità del ruscello, la cui espressione stonata aveva attirato la sua attenzione. Perché Blackie, un bastardino di mezz’età, non era poi così stupido. E anzi, eccelleva in empatia. Sapeva bene che, in mezzo a tanta disperazione e tristezza, quel ghigno era del tutto fuori contesto. Che cos’era? Una particolare forma di commozione, forse?

    Sergio Fabbri si rialzò, le spalle rivolte al gruppo di presenti alla funzione, e le ginocchia gli parvero sul punto di spezzarsi. Aveva trascorso troppo tempo in una posizione che non gli era più amica dall’adolescenza, da quando saltava a canestro come pochi ed era l’unico della squadra a saper schiacciare. Ora i legamenti sembravano sempre sul punto di rompersi. Logori, consumati, come sarebbe stata anche la sua anima in quel momento, se quelle appena sparse sulle rocce e affidate alla natura fossero state davvero le ceneri di suo figlio Diego. Che poi, a ben guardare, in un certo senso lo erano. Nell’unico momento in cui tutti lo credevano raccolto in un momento di intimità e preghiera, Sergio, non visto da alcuno a parte il cane del migliore amico del figlio, azzardò un sorriso di soddisfazione per la riuscita del piano. Quindi prese fiato, sbuffò come fanno i corridori principianti per fingersi grandi atleti, e tornò a unirsi agli altri. Fu allora che la vide. Era l’ultima persona che si aspettava di trovare alla cerimonia laica che era stata disposta per rispetto del volere di Diego di essere cremato. Era venuta anche lei.

    Lisa restò in disparte, senza avvicinarsi a un nucleo famigliare al quale non apparteneva. Aveva riconosciuto tra i presenti solo il volto di Danny, già incontrato più volte al Saloon, quando Diego ci provava con lei come un ragazzino delle medie, le guance infuocate, nel cuore la paura di dire altro a parte un cuba libre, per favore. Osservò la funzione da posizione defilata, mordendosi con forza le labbra per trattenere il pianto. Inadeguata, sbagliata, ipocrita, falsa, stronza. Era così che si sentiva, nella piena consapevolezza di non avere niente a che fare con quel momento. Lei aveva solo ingannato quel ragazzo. L’aveva illuso. Si era concessa, gli aveva fatto perdere la testa e infine era fuggita senza dare spiegazioni. E ora lui era morto.

    Eppure sapeva bene perché si era sentita costretta a scappare. E quale inattesa e straordinaria sensazione le aveva avviluppato lo stomaco. Non poteva andare avanti. Non innamorarti di lui era una delle poche condizioni per quell’incarico. Doveva semplicemente sparire, da un giorno all’altro, e così aveva fatto. E ora di Diego non restava che un cumulo di ceneri riconsegnate alla natura. Di minuscoli granelli che erano già una cosa sola con l’acqua del ruscelletto artificiale che serpeggiava tra le rocce, mentre il padre del ragazzo si tirava su dopo un momento di estremo saluto e si ricongiungeva con i suoi cari. Un bastardino le passò accanto e le sembrò per un attimo un anziano signore che cammina pensoso con le braccia dietro la schiena e lo sguardo fisso sul selciato. Pareva perplesso. D’un tratto si fermò e la fissò con un’espressione di singolare sconcerto. Come se avesse appena visto qualcosa di strano, di insensato, e fosse in cerca di spiegazioni.

    – Andiamo, Blackie – gridò Danny prima di guardarsi attorno e ricordare a se stesso di trovarsi in un cimitero. File di mute lapidi lo osservavano con durezza, richiamandolo a un maggiore rispetto dei presenti, vivi o morti che fossero. Lui alzò appena le mani per scusarsi con i parenti dei Fabbri, anche se nessuno gli stava davvero prestando attenzione, poi lanciò un’occhiata eloquente al cane, che gli corse incontro.

    Un ultimo sguardo al rivolo d’acqua che si era portato via i resti del suo amico, un ultimo magone. Poi trasse un lungo sospiro e fece per voltarsi. Così com’era giunto, in silenzio, senza salutare nessuno a parte Sergio, così se ne sarebbe andato. Fu proprio Fabbri senior a venirgli incontro, con il fare benevolo di un vecchio zio. Aprì le braccia per accoglierlo e consolarlo, e lui tentennò per qualche istante prima di abbandonarsi al petto dell’uomo e lasciare che le lacrime trattenute così a lungo finalmente sgorgassero.

    – Non credevo che stesse così male… – singhiozzò.

    – Diego era unico, lo sai – commentò Sergio – Non voleva che nessuno lo compatisse.

    – Lei come sta?

    – Ero pronto – Sergio sollevò le sopracciglia e scosse la testa. – Ma che dico, nessuno è mai pronto per una cosa simile. Anche se conoscevo alla perfezione ogni aspetto della sua malattia. In realtà sono a pezzi.

    – E io che credevo che si trattasse solo di amnesie.

    I due si guardarono negli occhi per qualche istante, poi furono interrotti dal prete che, in silenzio, si avvicinò per richiamare l’attenzione di Sergio Fabbri.

    Danny si defilò senza aggiungere altro, seguito da Blackie, ma prima di imboccare il vialetto di ghiaia diretto all’uscita del cimitero i suoi occhi caddero sul profilo di Lisa.

    Da qualche parte, altrove, in un non-luogo ignoto al mondo, limbo e transito delle anime, qualcuno aspettava di tornare. Ma per il momento non era che probabilità statistica, informazione congelata, essenza di silicio.

    Era niente, nella speranza di tornare a essere qualcosa.

    Quanto tempo dei mortali lo separava da nuova vita?

    1

    Più tardi, di fronte a una tagliata di manzo che in altre occasioni sarebbe rimasta indigesta, Sergio Fabbri tirò finalmente un sospiro di sollievo. Anzi, forse fu proprio per allentare la tensione che fece accompagnare la carne da un buon vino rosso, e si permise di farla seguire da una crema catalana. Il cameriere non aveva idea che l’uomo venisse direttamente dal funerale di suo figlio, altrimenti avrebbe di certo pensato che il signore soffrisse di qualche disturbo di natura psicologica, di quelli che ti portano ad abbuffarti per affrontare meglio un trauma.

    Leda e Mauro, gli zii di Diego, erano di fronte a lui, non altrettanto affamati ma di certo sereni. Il peggio era passato. La farsa era finita. O appena cominciata.

    – Mi è venuto da piangere a vedere le facce dei suoi compagni di squadra – disse Leda a un certo punto, mentre con dei colpetti del palmo della mano sistemava la voluminosa chioma bianca d’altri tempi.

    – A chi lo dici – Sergio si pulì la bocca con un fazzoletto, che prese il colore del Bonarda. – Quando il mister Alberto mi ha abbracciato mi è venuta la pelle d’oca.

    – Quanto pensi di poter sostenere una situazione simile? – domandò Mauro, il volto di pietra. Lo zio non era mai stato troppo felice di custodire simili segreti di famiglia, ma per il bene di tutti aveva accettato il patto, sin dalla morte del piccolo Michele Fabbri. Negli anni successivi, il ristretto nucleo famigliare avrebbe dovuto compattarsi attorno alla ricostruzione della vita di Diego, e fingere che l’altro bambino non fosse mai esistito. Le memorie fragili di un infante di appena due anni e qualche mese avrebbero presto riscritto il presente. Del fratellino non sarebbe rimasto niente. Solo ricordi sepolti. Tesori dimenticati nelle sabbie del tempo.

    – Per quanto tempo abbiamo fatto finta che Diego fosse figlio unico? – fu la replica secca di Sergio.

    Mauro tacque. La loro storia famigliare era un romanzo dalle pagine strappate, e andava avanti così da più di vent’anni. Se erano arrivati fin lì, pensava Sergio, potevano benissimo andare oltre.

    – Ma ci hai parlato di un… corpo, l’altro giorno, al telefono – intervenne Leda, il piatto di carne di fronte a sé ancora intatto.

    – Ne è rimasto uno solo – rispose Sergio. – Devo riuscire a trovare il modo di portarlo via dalla clinica. Non sarà semplice. Qualcuno si offre volontario?

    Mauro scosse la testa e sbuffò, sogghignando. – Tu sei davvero fuori di testa. E dove la teniamo una teca con all’interno un corpo in criostasi?

    – Lo sai che è l’unico modo per restituire una vita umana a Diego, anche se per poco tempo. Quei corpi sono destinati ad ammalarsi e morire, tutti. È un destino segnato, ormai non mi illudo più.

    Leda cercò di addentare un angolino di tagliata, ma le si dipinse in viso una smorfia di disgusto. – Ma adesso, Sergio… lui dov’è?

    Fabbri senior poggiò le posate ai lati del piatto, poi puntò con lo sguardo la vetrata alla sua sinistra e ne superò i contorni lucenti, perdendosi tra le fronde degli alberi che si affacciavano sul parcheggio del ristorante.

    – La sua coscienza è al sicuro.

    – E tu saresti in grado di… reimpiantarla?

    – So a chi rivolgermi, una volta che la clinica sarà chiusa.

    Mauro si schiarì la voce. – Rispiegami perché dovrebbe chiudere.

    – Perché il dottor Hassler si starà, perdonate l’espressione non esattamente appropriata a tavola, cagando addosso. L’autoreset di Diego per lui è un dramma. Lo incontrerò questa sera, e dovrò sfoderare la mia migliore performance di arte drammatica. Secondo me quello chiude i battenti e sparisce in Guatemala. Se si viene a sapere cosa ha combinato a partire dalle ricerche in cui era coinvolta mia moglie…

    – Secondo te Hassler teme che Diego, prima di quella specie di suicidio digitale, si sia premurato di creare un dossier con tutte le informazioni che aveva appreso di recente e l’abbia inviato alla polizia?

    – È un’opzione.

    – Ah be’, allora sì. Gli conviene levarsi di torno. E in fretta anche. E anche tu non sei del tutto al sic…

    – Ma parliamo di un luminare della scienza – obiettò Leda, sovrapponendosi al marito. – Deve avere per forza preso delle contromisure negli anni. Non solo per coprire brutte vecchie storie, ma anche per difendersi nel caso qualcuno lo avesse accusato. Bastava un ex collaboratore, o tu stesso, Sergio. Sbaglio?

    – Non saprei – l’uomo tornò a fissare il piatto ormai quasi spazzolato del tutto. – Lui era pronto a uscire allo scoperto con la storia di Diego, della clonazione e del trasferimento di coscienza. Avrebbe coperto alcuni metodi non autorizzati che gli avevano permesso di portare avanti questi esperimenti negli anni, per venirne fuori alla grande. Ma non poteva aspettarsi la mossa di Diego. Non poteva prevedere che la creatura si ribellasse al creatore in quel modo.

    Leda e Mauro restarono in silenzio come due scolaretti, mentre Sergio continuava: – L’errore più comune che le persone commettono nella loro vita è dare per scontato. Lui ha dato per scontato che Diego si risvegliasse una volta ancora immacolato, senza ricordare quanto appreso il giorno precedente. Gli avrebbe consentito di vivere qualche altro mese nell’ultimo corpo e utilizzarlo come fenomeno da baraccone con la stampa, per poi disporre una nuova serie di cloni.

    – Neonati… – dedusse Mauro.

    – Esatto. A quel punto la storia sarebbe diventata di dominio pubblico. Diego sarebbe inevitabilmente morto, come è successo a tutte le altre repliche, e la sua coscienza sarebbe rimasta in una specie di server chissà per quanto tempo. Forse i media avrebbero convinto Hassler ad attivare il mainframe per appagare il desiderio di chiunque di dialogare con questa interfaccia umana, con questa vita sospesa prigioniera di un sistema informatico.

    – E tu ti saresti dovuto prestare a tutto questo – commentò Leda, poi bevve un sorso d’acqua e fissò il piatto con un senso di disprezzo ancora maggiore.

    – In quanto responsabile dei transiti, sì. Potete immaginare i titoli? Tutta la verità sul padre del ragazzo digitale; Il copia-incolla della coscienza umana è finalmente possibile; Il miracolo scientifico di Udo Hassler… e altre stronzate simili.

    – Non avresti mai potuto dichiarare di essere sotto ricatto da sempre.

    – Per il bene di Diego, no. Il dottore ci teneva tutti sotto scacco. Altro che ex collaboratori. Chiunque abbia fatto parte del team di Udo negli ultimi trent’anni è peggio di un impiegato dell’Area51. Nessuno esce da lì e inizia a chiacchierare, statene certi. Sanno tutti che quell’uomo ha appoggi… molto in alto. L’unica persona che poteva rovinare Hassler, insomma, era Diego. E ora che l’ha fatto non oso immaginare le conseguenze. Mi devo muovere con cautela.

    Mauro increspò la fronte e annuì. – A che ora lo incontri?

    – Dopo cena.

    – Noi restiamo in zona, nel caso tu avessi bisogno di…

    – Non vi preoccupate. Tornate pure a casa.

    – Sergio – Leda allungò una mano e afferrò le dita dell’uomo, stringendole. – Noi siamo la tua famiglia. Quel poco che ne resta, almeno. Permettici di starti vicino.

    Lo sguardo di Fabbri senior si fece malinconico. Un tenero sorriso introdusse la risposta: – Hai ragione. Dobbiamo restare uniti.

    – E forse so dove possiamo custodire l’ultimo corpo – concluse Mauro con un improvviso ghigno malizioso.

    2

    Il silenzio della mente è assenza di informazioni.

    Non è buio, non esiste il buio. Il buio è mancanza di luce. Una percezione ben precisa. La consapevolezza della non-presenza di fotoni.

    Così, fino a un attimo fa c’era il nulla. Nessuna informazione, nessun processo chimico. Ora, invece, c’è il sacro, benedetto buio.

    Quindi sono vivo. Sono tornato.

    Che cos’era, essere svegli? Era vedere, annusare, avvertire calore o freddo, avere un’idea della propria posizione nello spazio grazie a un sistema di cui non abbiamo il comando, che ci permette di non volare giù dal letto di notte. Ma ora non vedo. Non intuisco odori. Non ho idea di quale sia la temperatura e non so dove mi trovo.

    Eppure sono vivo, lo so. Funziono.

    Funziono, che diamine. Lo penso e me lo ripeto. Con chi sto parlando? Riesco a riflettere, ma non governo tutto il resto delle sensazioni umane. Allora sono semplicemente nello stesso posto in cui ero prima della fine. Sono in una macchina. Come lo chiamavano? Ah, sì, mainframe.

    Qui il tempo non esiste. Almeno finché non avrò accesso a qualche informazione sul mondo che mi circonda. Potrei essermi svegliato da un secondo o da un’ora. Ma in fondo, ragazzi, che importa? Ci sono ancora. Sono ancora qualcosa. Riesco a ricordare la conclusione della mia vita, e quell’ultima immagine rimasta impressa nella mia mente come un file salvato prima di spegnere il computer. C’era Michi. C’era amore. C’era la mia famiglia, in quel ricordo.

    E d’un tratto mi rendo conto che i ricordi mi restituiscono sensazioni, odori, percezioni ben precise. Processi chimici (o solo informatici, forse) che mi illudono di trovarmi ancora lì, in quella stanza, come in un meraviglioso sogno, anche se forse al momento sono rinchiuso in un software. Allora i ricordi sono vita. Bastano e avanzano, per considerarsi un essere umano cosciente.

    Ma di cosa sono cosciente davvero, adesso, se si esclude il passato? Cosa posso dire sulla mia condizione attuale? Chi sono?

    Ciccio…

    Che cosa è stato. Era… era davvero lui?

    Era un’improvvisa memoria sovrapposta per confondermi le idee? Un altro frammento di passato?

    Tesoro mio…

    No, è lui. Lui, ora. Qui, ovunque siamo. Forse sono passati decenni e ci troviamo nel paradiso delle menti, dove i pensieri interagiscono tra loro a un livello diverso, immateriale, non corporeo. Magari nel frattempo il pianeta è saltato per aria, e questo è ciò che chiamavano aldilà.

    Ma la voce la riconosco, ed è proprio una voce. Un timbro, una sinfonia di frequenze famigliari. Mi arriva come impulso sonoro, lo decodifico. È mio padre. Come posso rispondergli?

    – Ancora qualche istante, e… – dice la voce di senior. Ora è nitida, e invade ogni angolo di quello che sono adesso. È il mio tutto, come se io fossi solo il mio senso dell’udito.

    E invece no. Sono anche la vista, e accade tutto all’improvviso. Dal nulla alla realtà. Dal buio alla luce.

    Sergio Fabbri è di fronte a me. Seduto su una sedia in un ambiente illuminato da una luce fioca. Indossa una camicia grigia sotto una giacca nera. Ha due pesanti borse sotto gli occhi. Alle sue spalle, scaffali invasi da faldoni, come se si trovasse nella cantina di un

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