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L'odore della paura
L'odore della paura
L'odore della paura
E-book327 pagine4 ore

L'odore della paura

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Info su questo ebook

La famiglia Sarti convive con il dramma della malattia del piccolo Daniel, una forma rara di epilessia. Il loro matrimonio ne risente, sia per i solchi indelebili che ha lasciato la malattia di Daniel, sia per l’assenza del marito. Un giorno, la polizia piomba nella loro vita. Il commissario Mizio Serra segue le tracce di un serial killer, soprannominato la Bestia, che rapisce adolescenti e le restituisce fatte a pezzi. Le indagini seguono il normale corso, fino a quando, viene trovata un’auto abbandonata e al suo interno rinvengono oggetti appartenuti a una delle vittime. Da quel momento è caccia spietata all’assassino inseguendo le sue tracce in un passato che stravolgerà il presente dei protagonisti.
LinguaItaliano
Data di uscita10 ott 2023
ISBN9791222458267
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    Anteprima del libro

    L'odore della paura - Manuela Fanti

    1

    La televisione accesa squarciava il silenzio.

    Sul secondo canale trasmettevano il gioco a premi delle diciannove. Era una falsa presenza, che a lungo andare teneva compagnia.

    Quando la sigla s’interruppe, Alice si affacciò dal rimpetto delle scale e chiamò suo fratello più volte. I capelli rossi ondeggiavano sospesi nel vuoto, la sua voce si mischiava a quella del conduttore televisivo.

    «Daniel! Daniel, ci sei?» Attese qualche secondo e ricominciò a chiamare. «Daniel, cazzo, rispondi!» Ancora silenzio.

    Allora scese le scale di corsa, il cuore iniziò a tamburellarle nel cervello. Un ritmo che aumentava ogni secondo perché sapeva che ogni secondo era prezioso.

    L’ultimo scalino e già vedeva il corpo di Daniel immobile sul divano. Testa in bilico tra collo e spalliera. Occhi chiusi, e bocca spalancata come quella di uno squalo.

    Ormai era abituata, o forse no. Come ci si poteva abituare a una cosa del genere?

    Suo fratello interrompeva la propria vita ogni giorno, come se con un telecomando lo mettessero in pausa: un fermo immagine che terrorizzava.

    Erano gli attimi, in quelle circostanze, a fare la differenza tra la vita e la morte. Attimi che spesso diventavano ore, in cui il terrore che il fermo immagine non smettesse, era più forte di qualsiasi altro pensiero. Alice gli si sedette a fianco.

    Daniel mugugnava, rantolava senza emettere una parola sensata.

    Alice sentiva i morsi dell’angoscia conficcarsi nella carne, ogni volta, come fosse la prima, e come se quell’incubo non finisse mai.

    «Daniel… Daniel respira!» con la mano gli accarezzava la pancia. «Avanti Daniel, respira, così, dallo stomaco, bravo.»

    I lamenti erano continui, una a infinita che echeggiava nella stanza e diventava un’unica onda sonora.

    «Daniel, sono qui, stai tranquillo… respira Daniel.»

    Alice estrasse il cellulare dalla tasca dei jeans, cercò il numero di sua madre tra le chiamate in uscita.

    Uno squillo, due squilli… Rispondi, cazzo.

    La telefonata s’interruppe senza risposta. Richiamò. Prendi quel cazzo di telefono.

    «Pronto.»

    «Mamma! Daniel ha una crisi! Dove sei?»

    «Da quanto tempo?»

    «Non lo so…» Alice continuava ad accarezzare il fratello, non era sicura di farlo per tranquillizzare lui o se stessa.

    «Cosa vuol dire che non lo sai?» Il tono divenne apprensivo.

    «Vuol dire che quando sono scesa, lui era già così.»

    «Maledizione, Alice! Quante volte ti ho detto che devi tenerlo sotto controllo!»

    «Cosa faccio? Non piscio? Non mangio? Non vivo?»

    Dall’altra parte un sospiro riempì il microfono. «Sto arrivando, faccio il prima possibile, cerca di non agitarti. Andrà tutto bene.»

    «Ansima come se fosse posseduto… ho paura, non so che fare.» Le lacrime spingevano dietro agli occhi.

    «Non ti agitare, lo sai, è normale, cerca di stare tranquilla, ora passa. Fai quello che hai sempre fatto, nulla di più.»

    Daniel si assentò dalla vita quasi nove minuti in tutto. Ad Alice parvero un’eternità. In quell’arco di tempo accelerò il respiro, gridò alternando acuti spaventosi e mosse una mano in maniera quasi convulsa. E ogni volta lasciavano una cicatrice che Alice definiva taglio nella psiche. Ferite che spesso la mente riapriva all’improvviso e le inviava come diapositive: una dopo l’altra. Senza logica.

    In quei momenti eterni, in cui Daniel metteva la sua esistenza in pausa, si domandava dove andasse in realtà.

    Si accorse che il fratello stava per riprendere coscienza quando la bocca iniziò ad aprirsi e chiudersi in modo continuo. Allora smise di lagnarsi, come quando si abbassa il volume fino a non sentire più niente, gli occhi ricominciarono a muoversi insieme alle altre parti del corpo.

    Solo in quell’istante Alice si liberò dal senso di colpa che sentiva premere sul petto.

    Quello di sentirsi inutile.

    2

    Il laghetto era incastonato tra le colline.

    Dall’alto, sembrava un imbuto dal fondo scuro e luccicante con gli alberi intorno. Le colline, oltre a custodire quello specchio d’acqua, nascondevano anche diversi calanchi in cui lo sguardo si perdeva e si confondeva in quell’arido beige roccioso. Non tirava un filo di vento, mai.

    Mizio sedeva sul bordo.

    Ogni volta provava a lanciare l’amo in mezzo a quelle acque torbide e calme, e ogni volta si stancava di attendere che qualcosa abboccasse. Gli sarebbe bastato anche solo vedere il galleggiante oscillare. Non c’è vita dentro a quella pozza.

    Era ciò che si diceva di quel lago.

    Stava seduto per ore, immobile, a fissare lo stesso punto. L’acqua sembrava petrolio, non vedeva nemmeno il riflesso della sua canna, perché il sole non arrivava fin lì sotto.

    Mizio lo sapeva bene, lo aveva sempre saputo. Ma a lui non interessava il sole, lui aspettava se stesso. Attendeva la tensione che gli si arrampicasse su per la schiena come una cavalletta con le zampe ruvide a farsi strada tra la pelle e i vestiti. La stessa sensazione di allora. I respiri diventavano profondi e il tempo sembrava fermarsi.

    Distolse lo sguardo da quel galleggiante giallo come una pannocchia, e lo inchiodò al cielo. Nuvole scure e gigantesche si rincorrevano, si univano e di nuovo lasciavano spazio all’azzurro che riportava il respiro alla normalità.

    Il tempo era alleato ai ricordi, più trascorreva e più i pensie ri si ammucchiavano come la polvere sui mobili. E lui tornava lì apposta, si sedeva su quella roccia, per affrontare i ricordi e per rimuovere la polvere. E lo rivedeva sempre, al posto del galleggiante: quel corpo ormai senza vita. Le stesse domande, ripetute negli anni, nei mesi, nei giorni. Non trascorreva un istante della sua esistenza senza quel ricordo.

    Se non mi fossi addormentato? Se non avessi avuto la musica nelle orecchie, lo avrei sentito gridare? Ha implorato aiuto mentre affogava? Quanto ha gridato prima che i suoi polmoni si riempissero d’acqua?

    Con lo stesso gesto meccanico di sempre, Mizio afferrò la canna, avvolse il mulinello che iniziò a tirare la lenza verso di lui, mentre osservava il galleggiante spostarsi su quel mantello scuro e oleoso.

    Non c’è vita dentro a quella pozza.

    In verità non era privo di vita, c’era quella più importante di tutte, si ripeteva dentro di sé mentre estraeva il galleggiante dall’acqua.

    All’improvviso si rivide immergersi nel lago, qualcosa lo bloccava, ripensandoci a mente fredda era il terrore. L’acqua era gelida, paralizzava gli arti, fino a sentirsi trafiggere il petto. Il cuore sembrava compresso in una morsa di ghiaccio, credeva si fosse fermato di colpo. La voce tremava, impastata, balbuziente. Senza forza. Gridava il suo nome, almeno ci provava mentre tentava di raggiungerlo. Qualcosa lo tratteneva, era solo l’angoscia che lo trascinava verso il fondo. E quell’odore di stagno, di alghe marcescenti, di putrido che entrava dritto nel naso e prendeva lo stomaco. Un’altra bracciata, e una ancora, e finalmente raggiungeva la Timberland gialla, ormai marrone impregnata da quell’acqua fetida. La mano che la sfiorava. Il corpo si allontanava e di nuovo quella sensazione di affondare. Il cuore impazzito, un respiro profondo e una bracciata ancora. Qualcosa lo sfiorava sotto di sé, o forse gli sembrava. È un ramo, si ripeté, qualcosa di duro e sottile, che sembrava volerlo fermare, ma in quel momento solo la morte avrebbe potuto farlo. Allora si divincolò, quel movimento allontanò suo figlio. La mano si allungava per afferrare il nulla.

    Il suono del cellulare lo riportò al presente. Respirò a fondo.

    Erano quasi le undici di mattina. Si sfregò gli occhi.

    «Serra.»

    «Commissario, abbiamo ricevuto una denuncia di ritrovamento di un cadavere.»

    «Dove?»

    «Nella parrocchia di Ezzano.»

    «Dove?!» Mizio corrugò la fronte, non aveva mai sentito quel nome.

    «A Ezzano. Un Comune montanaro, scendendo sulla Porrettana, oltre Sasso Marconi.»

    «Va bene, mandami la posizione.»

    «D’accordo, commissario.»

    «Che significa nella parrocchia?» riprese il discorso.

    «Ha chiamato il parroco, ha detto che stava andando nel pollaio a dare da mangiare alle galline, quando ha visto un sacco di plastica penzolare dal castagno dietro la chiesa.»

    «Un sacchetto?»

    «Sì, quelli che compri al supermercato e che poi ti restano per quando torni a fare la spesa.»

    «Veniamo al dunque.»

    «Sì, commissario. Ha detto che lo vedeva oscillare legato a un ramo.»

    «Era vuoto?»

    «Be’, avvicinandosi si è accorto che dal fondo gocciolava qualcosa.»

    «Gocciolava?»

    «Sì, gocciolava sangue.»

    3

    Sonia spalancò la porta di casa, lasciò cadere la borsa a terra e si precipitò in salotto gridando il nome di sua figlia.

    «Sono qui!» La voce di Alice la trascinò per il corridoio.

    Si fiondò sul divano, accanto ad Alice che stringeva Daniel tra le braccia. Prese il polso al figlio per sentirne il battito mentre lui fissava il soffitto privo di espressione.

    «Ora sta meglio» sussurrò Alice.

    Sonia sospirò. «Grazie al cielo!»

    «Grazie al cielo?» sbottò Alice: «Grazie a me! C’ero io qui, mica il cielo a tenergli la testa indietro perché non soffocasse.»

    Daniel, stordito, si divincolò da quell’abbraccio. Si sfregò gli occhi ancora umidi dalle lacrime. Spesso, i suoi attacchi si concludevano con un pianto straziante, come se fosse una valvola di sfogo indispensabile per tornare alla realtà.

    «Mamma» sussurrò guardandola, «che succede?»

    Sonia gli accarezzò il viso, gli sistemò i capelli tutti scompigliati e madidi di sudore, e gli sorrise.

    «Nulla… nulla di grave» gli disse, con la voce graffiata dalle troppe sigarette.

    Daniel inchiodò gli occhi in quelli di Alice.

    «Ho avuto una crisi, non è così?»

    Alice mosse il viso, in senso affermativo. Non aveva mai mentito a suo fratello, nemmeno quando tutti lo volevano illudere di essere un bambino normale. Non lo era, e lei glielo spiegò senza mezzi termini. Alice era la sua ancora, il suo punto fisso, la sua verità. Sempre lei, nel bene e nel male. E lei c’era sempre, anche quando lui si assentava per quei pochi o tanti minuti che lo rendevano privo di coscienza, di memoria, di vita. Lei era la sua scatola nera.

    «Sono stato male?»

    «No, non più del solito» Alice gli rispose d’un fiato, senza titubanze. Lui cercava sicurezza, pur sapendo cosa gli accadesse. Alice lo aveva capito, ed era quello che tentava di fare. Proteggerlo. Significava dirgli la verità, non fingere che andasse tutto bene e che non fosse un bambino problematico.

    Si fissarono in silenzio, come se Sonia non ci fosse e dovessero rincuorarsi a vicenda.

    «Lo hai fatto?»

    Alice tentennò a rispondergli.

    «Hai fatto cosa?» Sonia si intromise nella conversazione.

    «Ho chiesto ad Alice di parlarmi mentre perdo coscienza, mamma.»

    Gli sguardi dei fratelli si incrociarono un istante.

    «Sì» disse Alice.

    Daniel sembrò rincuorarsi.

    «E?» domandò Sonia, gli occhi che rimbalzavano sui visi dei figli.

    «E… niente» Alice osservò di nuovo suo fratello, «non mi sentivi ovviamente.»

    «Forse» rispose Daniel, «in verità, non me lo ricordo.»

    «È normale, non ti ricordi neanche gli istanti precedenti, e spesso, nemmeno quello che accade dopo. Come questa conversazione.» Sonia lo abbracciò.

    In quella stretta, Alice ci lesse il rimorso di ogni assenza, per gli attimi che stavano scivolando via nei giorni strappati alla vita come pagine scarabocchiate di un bloc-notes, e negli occhi, il riflesso del senso di colpa le sembrò lampante.

    «Lo accompagno di sopra, lo metto a letto mentre prepari la cena» Alice allungò una mano e attese che Daniel l’afferrasse.

    Il bambino si lasciò guidare dalla presa della sorella. «Papà?» Daniel lo domandò sottovoce.

    «Papà è fuori per lavoro, non tornerà prima di sabato» Sonia rispose con lo stesso filo di voce.

    «Vieni, andiamo a metterci a letto» gli disse infine la sorella, lasciando morire il discorso.

    Di sopra, Alice si avvicinò alla finestra. Osservò la luce accesa della stanza nella casa di fronte. Attese qualche istante prima di chiudere gli scuri. Aveva lasciato lo sguardo su quelle tende che nascondevano l’ombra di Lidia.

    «Uno, due, tre…» contava sempre fino a dieci prima di chiudere. Arrivata a otto, Lidia aveva scostato la tenda. La stava salutando. Alice fece lo stesso, e finalmente chiuse le finestre.

    Un attimo dopo si avvicinò a Daniel che l’attendeva seduto sul bordo del letto. Gli si mise a fianco ed estrasse il cellulare dalla tasca.

    «Era questo che volevi?» gli sorrise.

    «Sì, ma non potevo dirlo alla mamma, non credo che approverebbe.»

    «Se la prenderebbe con me» lo rassicurò Alice, mentre sollevava le coperte.

    «Ora togliti le scarpe e infilati il pigiama, la tua giornata termina qui. Come ti senti?»

    «Mi fa male la testa e mi sembra di sentire ancora il cuore che mi batte forte nelle orecchie.»

    «È quello che ti succede prima di avere una crisi?»

    Alice osservava il fratello guardarsi intorno. Il suo sguardo vagava per la stanza, rimbalzando sui poster di Naruto, sulla raccolta di fumetti, sulla finestra chiusa e infine si posò nei suoi occhi scuri.

    «Può darsi. Ne abbiamo già parlato, purtroppo non me lo ricordo. Però il buio e il cuore che batte credo facciano parte delle mie crisi.» Daniel allungò la mano verso la sorella. «Avanti, fammi vedere.»

    «Non c’è nulla di diverso» Alice scrollò le spalle.

    «Non importa, voglio vedermi come mi vedete voi.»

    «Noi ti vediamo come sei sempre, non a volte. Hai capito, Daniel?»

    Daniel storse la bocca e le strappò il cellulare dalle mani.

    Alice non obiettò e rimase ferma a guadarlo mentre cercava qualcosa nella galleria del telefono. Infine, selezionò il fermo immagine della sua faccia: era inclinata verso destra con gli occhi chiusi. Toccò lo schermo, e il video prese vita.

    4

    Il commissario Serra arrivò nella frazione di Ezzano che era quasi l’una del pomeriggio.

    La strada si snodava tra le colline, a tratti armoniose e altre volte aspre come solo i calanchi sanno essere. In certi punti le abitazioni delineavano la carreggiata e si aveva la sensazione di non essere i benvenuti. Da dietro quegli scuri, degli occhi invisibili osservavano sempre chi passava.

    Scese dall’auto e una ventata di aria gelida gli soffiò sotto al naso tutto l’odore di sterco che contraddistingueva la campagna.

    Un uomo alto con gli occhiali e un cappello che gli copriva a malapena la nuca, gli si avvicinò quando lo vide.

    «Salve commissario Serra, Nicola Gentile, scientifica.» Gli strinse la mano e additò il luogo preciso.

    «Cosa abbiamo?»

    «Tranci di corpo umano.»

    «Ha detto tranci?»

    «Sì, esatto. Padre Fausto ha visto un sacchetto appeso al castagno» indicò con il volto l’albero di fronte a loro, «ovviamente, non avendolo appeso lui, si è avvicinato per capire meglio di cosa si trattasse e quando ha notato che dal fondo della busta gocciolava sangue, è corso a chiamare la polizia.»

    Mizio si avvicinò al castagno, ancora penzolava la corda.

    «Il sacchetto?» domandò, guardandosi intorno.

    «Lo abbiamo solo slegato perché stava per strapparsi e avremmo rischiato l’alterazione e la dispersione delle prove.»

    Si spostarono di qualche metro.

    «Purtroppo, non riesco nemmeno a ipotizzare l’età della vittima» gli comunicò mentre si chinavano entrambi sulla busta di plastica aperta, «di certo non una persona anziana.»

    «Cazzo» Mizio aggrottò la fronte in una smorfia di disgusto.

    «Già. Sono pezzi degli arti, mezza testa e parte di un polpaccio. Il cranio è stato tranciato a metà, il taglio netto ha spappolato la fronte e l’occhio sarà balzato fuori dall’orbita. E quella è una parte di avambraccio, o quel che resta. La carne sembra essere stata strappata, anche nel polpaccio, vede» Gentile glielo indicò, «i brandelli lasciano pensare a una pressa che li schiaccia, e tirandoli, li lacera.»

    «È come se la vittima fosse stata macellata» Mizio corrugò la fronte.

    «L’assassino ha lasciato nella busta la carta d’identità tagliuzzata della vittima, non c’è traccia della foto, in centrale ci stanno già lavorando. Avremo presto nome e cognome e data di nascita.»

    «Che altro avete rilevato di utile per l’indagine?»

    «Ci sono delle orme, sembrano stivali di gomma, ma potrebbero essere quelli del parroco, o di qualsiasi contadino dei dintorni, visto che chiunque da queste parti possiede una stalla o un pollaio in cui probabilmente entra con degli stivali simili. La corda sarà esaminata, ma dubito che abbia lasciato impronte.»

    «Il prete non si è accorto di nulla?»

    «Dice di no.»

    «Nessun rumore sospetto?»

    «Commissario, Ezzano è una frazione montanara che conta meno di cinquecento abitanti. La chiesa è decentrata. Appena il sole muore, soprattutto d’inverno, stanno tutti rintanati in casa. Padre Fausto mette a letto le galline verso le quattro, quattro e mezza, per paura delle volpi e dei tassi, e poi verso le sei, chiude la parrocchia fino al mattino successivo. Così ci ha detto.»

    «Va bene, do un’occhiata in giro e mi fermo per fare due chiacchere con il parroco. Mi faccia avere notizie il prima possibile.»

    Mizio congedò Gentile e fece un cenno di saluto anche agli agenti che stavano liberando l’area. Sotto al castagno, il sangue sgocciolato dalla busta per tutta la notte era stato assorbito dall’erba alta. Il commissario aveva ancora impressi davanti agli occhi quei pezzi di carne, le lacerazioni, i segni sulla pelle. Scosse la testa.

    Arrivò fino alla recinzione del pollaio. C’erano sette galline spelacchiate e un gallo che gironzolavano brontolando di tanto in tanto. Oltre, era campagna che terminava salendo verso un bosco. Nessuna strada, nessun sentiero, solo campo. Mise una mano in tasca ed estrasse le sue Marlboro rosse morbide. Avrebbe smesso di fumare prima o poi, pensò, come sempre.

    Entrò in parrocchia. Lo accolse l’odore della cera e il freddo umido di quei luoghi sacri che, anche d’estate, mantenevano la stessa temperatura. Era lunga e stretta, al centro un tappetto rosso usurato separava le due file di panche, e terminava davanti all’altare. A destra, due confessionali in legno scuro e a sinistra, file di candele che consumavano ossigeno regalando dei bagliori tremolanti. Le raggiunse. Mise una mano in tasca ed estrasse un pugno di monete. Le ombre allungate sulla parete sembravano pennellate di fumo. Cazzo fai, Mi! Si disse, senza farci caso, e inserì una moneta nella piccola feritoia che cadde nel vuoto emettendo un tonfo secco.

    Si ricordò di sua madre, afferrando la candela da accendere. La sua mano esile che gli stringeva le dita. Pregare è desiderare qualcosa di bello. Lui che guardava la fiamma generare altro fuoco, il fumo nero che si alzava, sua madre che staccava le due candele. Un soffio, e moriva un bagliore. Una vita per una vita.

    Oltre l’altare, nascosta da due colonne, si aprì una porta laterale da cui uscì un uomo alto e robusto. Si osservarono per qualche istante.

    Mizio gli andò incontro.

    «Salve, sono il commissario Serra, vorrei farle due domande» l’uomo lo interruppe.

    «Sono Padre Fausto, ho chiamato per quella busta appesa all’albero» gli tese la mano.

    Mizio restò un secondo interdetto, non si aspettava di certo un uomo in maglione e pantaloni di velluto. «Molto piacere» gliela strinse.

    «Come posso aiutarla? Ho già detto tutto agli agenti poco fa.»

    «Sì, mi hanno riferito la sua deposizione. Vorrei avere informazioni sulla sua comunità. Ezzano non conta molti abitanti, immagino lei li conosca tutti, almeno di vista, non è così?»

    Il prete mosse le labbra sottili e accennò a un sorriso.

    «Sì, sono quasi tutti praticanti, signor…»

    «Commissario» sorrise, «Serra.»

    «Sì, mi perdoni, non ho buona memoria per i nomi. Dicevo, frequentano quasi tutti la mia parrocchia, a parte alcuni come il signor Fabbri che è alcolizzato e incolpa Dio per la morte della moglie, altri che fanno parte della comunità straniera di Ezzano. Però, di vista, ci si conosce tutti.»

    «E cosa pensa?»

    Il prete scrollò le spalle, d’istinto, come se si fosse scottato toccando la pentola sul fuoco e volesse togliersi di dosso quella domanda.

    «Cosa intende?» Il parroco sembrava stupito.

    Mizio si fece più serio.

    «Perché appendere un sacchetto con una vittima fatta a pezzi al suo interno, nel parco della sua chiesa? Di questo, cosa pensa?»

    «Non ne ho idea» sgranò gli occhi chiari e sollevò le mani.

    «Ci rifletta… qualcuno vuole recapitarle un messaggio? O forse, potrebbe non essere così amato come crede?»

    «Non ne ho idea. Se così fosse, commissario, lo ignoro.»

    «Qualsiasi informazione può essere fondamentale. Quindi se le viene in mente qualcosa: un rumore, una visita, un pettegolezzo, una confessione…»

    «Una confessione?» socchiuse gli occhi.

    «Sì, perché?»

    «Dovrebbe saperlo, commissario.»

    «Cosa dovrei sapere?»

    «Le confessioni muoiono con noi.»

    5

    Alice, come Daniel, aveva gli occhi inchiodati sullo schermo. Nel video sentiva la sua voce mischiarsi al lamento altalenante di disperazione del fratello. Si domandava come Daniel si osservasse dall’esterno, ogni volta che si riguardava.

    «Sembro un burattino senza controllo» disse.

    «Un burattino?» Alice sospirò.

    «Sì, afferrato da un bambino piccolo che lo muove a caso.»

    «Be’, in un certo senso, sembra che ti muova a caso» Alice, ridendo, gli scompigliò i capelli.

    Lui la guardò, senza sorridere. Lo sguardo serio, quello che preannunciava una domanda scomoda. Ma Alice era abituata alle

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