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Scintille di follia: Raccolta di racconti
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Scintille di follia: Raccolta di racconti
E-book298 pagine3 ore

Scintille di follia: Raccolta di racconti

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Info su questo ebook

Dieci scintille, dieci guizzi di fuoco nero che bruciano, alimentati dalla follia. L'autore crea le sue storie percorrendo un sentiero che si perde nel buio e lo conduce in luoghi diversi, dove l'aria è viziata e ha l'odore stantio della paura; dove la luce non riesce ad arrivare. Luoghi distanti tra loro, ma accomunati da un elemento comune: la follia umana. Le scintille del titolo nascono da un fuoco che spesso può ardere nell'animo dell'uomo e da cui si generano frammenti di realtà a volte violenta, a volte malata. Come un desiderio malsano di farsi del male, un gioco innocente che diviene pericoloso, oggetti misteriosi che mutano le coscienze umane, o l'avidità del tempo che vorremmo piegare al nostro volere. Dieci neri racconti per un viaggio nella paranoia e nell'ansia, generate dalla follia.
LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2018
ISBN9788829573295
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    Anteprima del libro

    Scintille di follia - EMANUELE SILVESTRO

    © 2018 Lupi Editore

    Via Roma 12, 67039 Sulmona (AQ) 

    Tutti i diritti riservati 

    www.yndy.it

    ISBN 978-88-99663-73-5

    Finito di stampare nel mese di agosto 2018 

    presso Universal Book srl - Rende (CS) 

    per conto della casa editrice Lupi Editore

    Raccolta di racconti

    SCINTILLE DI FOLLIA

    di 

    Emanuele Silvestro

    1

    PRO LUDUM

    [1]

    Niente da dire: fu una giornata strepitosa. Quel giorno nacque la Banda delle giovani speranze e il motto che l’avrebbe accompagnata per i tempi a venire.

    Joshua, Max, Scott e Donnie finirono di costruire la loro base operativa, il loro piccolo pezzo di mondo fuori dalle regole. Quattro giovani quindicenni e un sogno che si avverava per dare vita a un nuovo ciclo di avventure. I quattro amici si trovavano nel cuore del bosco Pidens, nella regione dei laghi di Green Mountain, uno dei posti più belli che avessero mai avuto la fortuna di visitare. Beh, in realtà l’unico che avessero mai visto, dacché ci erano nati e cresciuti.

    Per loro, quel pezzo di natura verde, selvaggia e profumata di erba era il Paradiso Terrestre, quello di cui avevano sentito parlare nelle lezioni di religione del prete Durban. Mancavano pochi ritocchi alla loro base, alla casa sull’albero alto e maestoso che avevano scelto come sede per il loro centro operativo. Scott avrebbe dato il tocco finale, posando l’ultimo asse del tetto; cosa che stava per realizzare, con l’emozione alle stelle. Il ragazzo si sporse oltre la piattaforma inchiodata su cui sorgeva la casetta e allungò il braccio verso Max che, da terra, quasi quattro metri più in basso, gli stava porgendo l’ultimo asse di legno rivestito di catrame. Il catrame era stata un’idea di Scott e allora spettava a lui completare l’opera, il loro capolavoro.

    «Occhio, scimunito, a sporgerti così verrai giù!» disse Max con gli occhi puntati in alto, verso il suo migliore amico di sempre.

    «Smettila di gufare e pensa a passarmi in fretta quell’asse: mi si stanno frantumando le palle contro la piattaforma!»

    Scott prese l’asse con un grugnito e si tirò indietro, a forza di gambe e addominali. Mancò un pelo che finisse di sotto, come aveva predetto quel corvaccio di Max, ma riuscì a mantenersi stabile proprio all’ultimo. Si rialzò a fatica e con il basso ventre indolenzito si apprestò a salire sulla scala che portava al tetto della base, ma si accorse che mancavano i chiodi.

    «Che palle!» sbraitò.

    Preso dalla foga di finire e dall’impazienza di completare l’opera che li aveva tenuti occupati per tutta quell’estate indimenticabile, Scott mise da parte la prudenza e, dalla scala, tentò un balzo per appiattirsi più in fretta vicino al bordo della piattaforma. Ma non calcolò bene la spinta e rotolò inesorabilmente verso il ciglio della struttura di legno cadendo nel vuoto. Annaspò in bilico per un istante: «Oh merdaaaaa!» gli sfiatò dalla gola mentre cadeva.

    Max, Joshua e Donnie, con lo sguardo rivolto in alto, in attesa che l’amico urlasse per l’esultanza di aver completato l’opera, videro precipitare Scott oltre il bordo, a una velocità impressionante.

    Max: «Porc... .»

    Donnie: «Oddio!»

    Joshua non aprì bocca: fu sotto la traiettoria di caduta di Scott in un secondo netto. Un tonfo sordo e Scott capì di trovarsi su Joshua solo quando questi sbottò con voce roca da sotto la sua schiena.

    «...ezzo di... cretino... mi stai... soffocandooo!»

    Scott rotolò di lato e liberò l’amico dal suo peso. Joshua prese a tossire forte e si piegò in posizione fetale tenendosi la pancia mentre si contorceva sull’erba. Tutti si precipitarono verso di lui.

    «Joshua, aspetta, fa vedere.» Donnie aiutò l’amico a distendersi e provò a spostare le mani di Joshua che si artigliava il ventre, nella speranza di farlo respirare meglio. Max e Scott, illeso e incredulo grazie alla prontezza dell’amico, corsero a prendere dell’acqua dagli zainetti buttati sotto la quercia. Per fortuna dopo qualche secondo, Joshua tornò a respirare normalmente. Si calmò, prese qualche respiro profondo e riaprì gli occhi fissando il cielo. Inginocchiati accanto a lui i suoi amici lo guardavano con apprensione.

    «Ancora acqua, per favore...»

    Scott gli allungò ancora la borraccia: «Bevi, amico, bevi... dai che va meglio.»

    Si sentiva maledettamente in colpa per quello che era successo e si diede dell’idiota per essere stato tanto imprudente. Josh gli aveva quasi certamente salvato la pellaccia, o almeno una lunga degenza all’ospedale Jackson, ma non ci sarebbe stato da stupirsi se ci fosse finito il suo coraggioso amico di lì a poco. Joshua bevve avidamente e sembrò riprendersi. Stava ancora guardando il cielo del pomeriggio, ma negli occhi era tornata una scintilla vivace.

    «Ditemi cosa sto muovendo, ragazzi.»

    «Oltre ai nostri stomaci?»

    «Zitto, Donnie. Stai muovendo le dita del piede destro, Josh» annuì soddisfatto Max.

    Joshua scrollò la testa: «Merda... ero sicuro di muovere il sinistro.»

    Max sgranò gli occhi e divenne bianco come un fantasma: «Porca puttana, Josh, dici sul serio?»

    «No, coglione. Stavo scherzando.»

    Joshua si mise a ridere, tossicchiando un po’ e gli altri si unirono a lui. La tensione si smorzò in un soffio e la Banda delle giovani speranze poté tornare a sperare e continuare a essere una banda al completo.

    Aiutarono Joshua a rialzarsi e lo tirarono in piedi.

    Donnie si grattò la testa ammirato: «Dio, Josh, ci hai fatto prendere un colpo incredibile. Sei stato un diavolo di eroe! Hai salvato Scott dalla paraplegezza!»

    «Paraplegia idiota» sogghignò Max.

    «Va beh, è uguale.»

    Scott rimase in silenzio, continuando a fissare l’amico con evidente apprensione.

    «Josh, scusami. Sono stato uno stupido, credo tu mi abbia evitato una gran brutta botta. Come stai?»

    Joshua gli passò un braccio intorno alle spalle e gli sorrise: «È ok Scotty, rilassati. Sono un po’ indolenzito, ma il mio culo è duro da scalfire!»

    «Mi sono spaventato da morire, Josh... davvero, scusami. Sono stato un pazzo, non merito di finire io l’opera. Spetta a te, amico, a pieno diritto.»

    Josh guardò per un lungo momento l’amico poi allargò lo sguardo anche agli altri e scrollò le spalle: «D’accordo. Ma vi dirò di più: mi è venuto in mente pure il nostro motto.»

    «Davvero?!» esclamò Donnie. «Il motto della banda?!»

    «Davvero Don, già che ci siamo credo possiate concedermi anche questo contentino. Che ne dite?»

    «Dico che potresti anche ritinteggiare la casa sull’albero di rosa e disegnarci sopra tanti cuoricini argentati, per quanto mi riguarda. Mi hai salvato il culo oggi, bello.» Scott parlò per tutti, nessuno aggiunse nulla e rimasero in attesa che l’amico svelasse loro il suo motto. Il volto di Joshua si aprì in un sorriso smagliante.

    «Pro ludum» disse.

    [2]

    Gli amici guardarono Joshua, smarriti.

    «Pro ludum!?» cincischiò Max. «Che roba è? Sembra il nome di una casa produttrice di avventure punta e clicca.»

    «Beh, in senso stretto, ci starebbe benissimo» ribatté Joshua, sorridendo.

    «Ma che lingua è? Non mi pare di averla sentita prima d’ora.»

    «Lo credo, sei un giovane ignorante, Donnie.» Joshua guardò l’amico con un ghigno sarcastico.

    «È latino. Va bene che non è una materia obbligatoria, ma seguiamo tutti il corso del prof Morse... se avessi ascoltato qualcosa sapresti almeno di cosa parlo.» Donnie sbuffò infastidito.

    «Che fosse latino l’avevo capito» disse Max. «Ma che significa, Josh?»

    «Qualcosa a che fare con il giocare, direi» azzardò Scott.

    «Bravo Scotty, ti sei avvicinato parecchio!» annuì Joshua. «Vuol dire Per gioco: mi sembra un motto fichissimo per una banda di cerebrolesi come noi.»

    «Tua sorella» ribatté Donnie.

    «Mia sorella è due anni luce avanti a te, Don. E ha solo sei anni. Sei un caso disperato, ragazzone.»

    La banda scoppiò a ridere. Donnie si unì agli altri dopo un attimo di esitazione, scuotendo la testa divertito e rassegnato.

    «Comunque non suona male» annuì soddisfatto Max. «Pro ludum... per gioco. Mi piace cazzo!»

    «Già, niente male, in effetti» incalzò Scott. «Un po’ pomposo, ma fa effetto. Ci sto.»

    Joshua si voltò verso Donnie: «Allora Don? Manchi solo tu.» Erano tutti in piedi, si erano spostati sotto l’altra grande quercia, la loro vecchia sede operativa fino a quel giorno. Il sole del pomeriggio rischiarava i loro occhi facendoli brillare vivaci. Donnie piegò la bocca in una smorfia disgustata, poi: «Tanto mi avete fregato. Ancora. Pro ludum? Onestamente mi fa schifo, mi ricorda la marca di quei disgustosi tappi rosa per le orecchie che usava mio padre, ma sono in minoranza e quindi posso anche infilarmela dove so io, la mia opinione, giusto?»

    Scott si mise a ridere e gli mollò un pugno sulla spalla: «Vedi che sei intelligente, quando vuoi?»

    Donnie si massaggiò la spalla imbronciato: «Almeno spiegaci che senso ha, Josh, perché proprio il latino? Non è una lingua dimenticata da Dio?»

    «Nessun senso particolare, ragazzi. Siamo quattro amici cazzari che fanno un sacco di cavolate e che si vogliono bene. Non pensiamo al futuro e ci piace giocare con tutto, o no? Credo che vogliamo prendere la nostra vita e le scelte che faremo, per gioco. Almeno ancora per un po’. Ho pensato che fosse un motto leggero, poco impegnativo e realistico per noi. Il tocco latino ci fa sembrare più fighi. Ed è meno dimenticato di quanto credi, Don.»

    «Beh, Josh, ripeto: oggi mi hai allungato la vita di qualche anno. Avessi deciso di usare come motto mutande sgommate in kazako, non avrei comunque avuto obiezioni.» Scott sorrise all’amico. «Dammi il cinque!»

    «Ok, allora è deciso! La Banda delle giovani speranze ha finalmente un motto e una nuova base! Lunga vita alla banda!» urlò Max.

    «Lunga vita!» esplosero tutti insieme.

    «Che ne sarà della vecchia quercia, ora?» chiese Joshua, accarezzandone la corteccia rugosa.

    Scott posò una mano accanto a quella dell’amico e accarezzò l’albero maestoso: «Ci indicherà le stelle e ci farà respirare il sapore della vita, come sempre.»

    Donnie e Max imitarono gli amici. Fu un momento indimenticabile, pregno di amicizia e speranza nella vita. Niente da dire.

    [3]

    Joshua diede i tocchi finali alla casa sull’albero: posò l’ultimo asse di legno sul tetto piatto della costruzione e piantò i chiodi fissandolo al legno dell’intelaiatura. Poi la compagnia di amici guardò tramontare il sole sulla veranda sopraelevata di quella nuova base che profumava di impregnante, a più di tre metri di altezza.

    «Non ci credo che abbiamo finito» mormorò Scott con lo sguardo perso nella palla di fuoco che si stava tuffando oltre la linea scura dell’orizzonte. I suoi occhi sembravano due biglie arancioni rivestite di scintille. Ardevano nel buio che stava ingoiando la sera, come quelli degli altri tre amici.

    «Credici, amico» rispose Max. «Ce la siamo meritata fino all’ultima goccia di sudore.»

    «Già, e lo abbiamo fatto insieme, come sempre» ribatté Joshua.

    «Come una banda!» esclamò Donnie.

    Rimasero in silenzio per un po’, ognuno a pensare quanto fosse bello quel tramonto, quanto fosse completo quel momento. Donnie guardò il legno ruvido delle assi che formavano le pareti della nuova base e ricordò quando le aveva tagliate con il padre nella segheria di famiglia.

    Max ripensò ai molti pomeriggi trascorsi, fra risate e patatine, a imparare come fare nodi scorsoi e di gancio doppio necessari a tirare sulla piattaforma tutte quelle assi e a fissare la struttura portante con il tetto. Avevano fatto un lavoro splendido, molto duro, ma soddisfacente.

    Scott si rammaricava dell’ormai prossima fine dell’estate, avrebbe voluto che potesse durare per sempre. E invece tra pochi giorni a riempire la loro vita sarebbe tornata la scuola: vale a dire tanto tempo lontano dagli amici e poco tempo da dedicare alla nuova base.

    Joshua non pensò a nulla per un po’, poi decise che avrebbe trovato il modo di occupare le prime giornate della nuova base, fino all’inizio della scuola, con delle idee stravaganti, ma che sarebbero state irresistibili. Qualcosa di mai provato prima. Nella sua mente si formò ben presto un gioco da proporre, che avrebbe condiviso con la banda non appena si fosse sentito davvero pronto. Sarebbe stato molto elettrizzante.

    A rompere il silenzio quasi rituale di quel momento fu Donnie: «Spero non piova per un bel po’ ancora, ma sono troppo curioso di vedere l’idea di Scotty in azione.»

    «Ti riferisci al catrame?» chiese Max.

    «Già, è stata un’idea stupenda.»

    Scott si strinse nelle spalle: «Beh, in realtà l’ho visto fare su Youtube. Io non c’entro una mazza.»

    Donnie guardò Scott sbigottito. Tutti scoppiarono a ridere.

    Tornarono a casa dopo che il sole era tramontato da un paio d’ore, ma prima fecero il battesimo del fuoco della nuova base e fu il momento culminante di una giornata già ricca di emozioni. Scott accese il suo Samsung Galaxy. Poco dopo si diffusero le note di una musica new age che aveva scaricato per l’occasione, poi vuotò il contenuto di un sacco di tela che si era portato da casa in una ciotola metallica che aveva procurato Max.

    Gli altri tre fecero altrettanto e alla fine la ciotola traboccava di un’accozzaglia di strani oggetti che sembravano provenire dalla bancarella di un mercatino delle pulci: un piccolo diario, un segnalibro usurato dal tempo, una coccinella ornamentale, un flauto artigianale a tre fori, una sfera cava di legno con delle tessere mobili che ricordava gli incastri del cubo di Rubik, un ricettario vecchio e unto, un mucchietto di stuzzicadenti usati tenuti insieme da un elastico verde e una cornice di legno senza foto.

    Si sedettero intorno al recipiente sui cuscini che Scott aveva portato da casa e osservarono gli oggetti in religioso silenzio sulle note di una musica quasi metafisica. Joshua prese una latta di combustibile per accendini e la riversò nel recipiente, innaffiando di liquido trasparente soprattutto gli oggetti di carta. Poi accese un fiammifero e ce lo gettò sopra.

    Guizzanti fiammelle giallo-arancio incendiarono subito la carta, e via via iniziarono a consumarsi il flauto, la sfera cava, la cornice e, da ultimi, gli stuzzicadenti. Meno di un minuto e nel recipiente crepitava uno scoppiettante focherello che consumò veloce tutti gli oggetti.

    Gli amici attesero in silenzio e con le facce serie che il fuoco si spegnesse. Quando anche le ultime fiamme soffocarono lasciando solo un po’ di brace ardente, Max prese la parola: «Per le giovani speranze della banda, perché le fortune prosperino e i sogni non siano disattesi, io ho offerto i miei giochi di bambino: la sfera a incastri e il flauto magico del folletto Jin, il mio migliore amico fino all’età di sei anni.»

    Qualche attimo di silenzio, poi toccò a Scott: «Per le giovani speranze della banda, perché le fortune prosperino e i sogni non siano disattesi, io ho offerto i miei passatempi migliori: il mio diario di ricordi – che possano bruciare in eterno nel fiume del tempo – e il vecchio ricettario della nonna; le frittelle di mele che ho mangiato quando era ancora viva sono state le migliori che abbia mai assaggiato. Mi mancano.»

    Poi, fu la volta di Donnie e di Joshua, che dopo la formula di rito, offrirono i loro doni più preziosi nel rituale di iniziazione della banda. Donnie offrì i suoi stuzzicadenti usati, amici inseparabili dai tempi delle medie: uno stecchetto di legno non gli mancava mai all’angolo della bocca, anche se per quella sera vi rinunciò volentieri. Offrì anche la sua coccinella portafortuna, ricevuta in dono dalla sorella quando si era sposata cinque anni prima.

    Joshua offrì il segnalibro che aveva trattenuto pagine e pagine di libri e fumetti; letture che avevano segnato la sua infanzia e che ancora riempivano di magia la sua adolescenza. La cornice di legno fu un dono che portò con gran peso nel cuore, ma che consegnò con gioia: aveva ospitato la foto di sua mamma, morta quando lui era ancora piccolo. Fu dura offrire un simile pezzo della sua vita, ma le regole del gruppo erano state chiare: oggetti semplici e di grande importanza emotiva. Lui aveva offerto il ricordo più bello custodito nella sua anima, ma si era tenuto la foto della mamma, appiccicata con lo scotch alla testiera del letto, a casa. Non avrebbe mai bruciato il volto della mamma, seppur fosse impresso indelebile nel suo cuore. Al termine del rituale, non appena la musica terminò, Joshua recitò la formula finale: «Perché le stelle buchino ancora i cieli dei nostri cuori per molte notti a venire, perché la giostra del tempo giri forte nella corrente dei nostri pensieri e perché il motto del nostro gruppo, della nostra banda, accompagni in allegria i giorni della nostra adolescenza. Che sia tutto un gioco, per gioco e nel gioco. Pro ludum!»

    Si era già preparato quel discorso e quando finì di recitarlo, attese la reazione degli amici con speranza e un po’ di ansia. Sorrise di gioia quando gli altri lo guardarono ammirati e con gli occhi luccicanti di emozione.

    «Pro ludum!» proruppero tutti insieme.

    Non ci fu bisogno di altre parole; versarono un po’ d’acqua nel recipiente metallico con i resti fumanti delle loro offerte e si alzarono, uno dopo l’altro, guardando con rispetto la grande stanza che era il loro nuovo quartier generale.

    Uno alla volta, prima di uscire dalla piccola porta verniciata di rosso, posarono un bacio sul primo asse di legno che era stato inchiodato all’inizio dell’estate e accarezzarono il proprio nome, inciso con un coltellino alcuni mesi prima.

    [4]

    Sulla via del ritorno, nei pressi della piccola cittadina che si affacciava sul bosco e che li aveva visti nascere e crescere, Joshua iniziò a sondare le idee degli altri e attese il momento giusto per proporre la sua. Era strana, senza dubbio inquietante e forse anche un po’ stupida, ma era certo che avrebbe fatto subito presa sui suoi amici. Li conosceva troppo bene per dubitarne. Mancavano meno di due settimane all’inizio della scuola e sapeva che, da quel momento, la banda avrebbe perso gran parte dello slancio emotivo che li aveva animati in tutti quei giorni di spensierata frenesia.

    Non voleva che tornasse la noia, non voleva ritrovarsi a trascorrere lunghi pomeriggi piovosi davanti ai compiti e alle stupide sit-com che infarcivano la televisione. Quelle cazzate facevano ridere solo attempate ciccione svaccate sul divano con barattoli di gelato al cioccolato. Voleva sorprendere gli amici con qualcosa di veramente nuovo, mai fatto prima e sapeva che avrebbe avuto successo perché provare nuove emozioni in un paesello di provincia come quello in cui abitavano era davvero un’impresa. Anche per quattro giovani imberbi come loro. E poi, per la miseria, avevano sudato e sgobbato per l’intera estate per creare un luogo di ritrovo magico e unico: meritava di essere onorato con qualcosa di altrettanto unico.

    Scott propose l’idea più interessante: rimediare dei vecchi materassi (sua nonna ne aveva la cantina stipata), sistemarli alla base della vecchia quercia, sede del primo quartier generale, e collegare la nuova casa sull’albero al fusto della quercia con una spessa corda da arrampicata. Con dei ganci da macellaio, muniti di apposite maniglie realizzate con degli asciugamani arrotolati avrebbero poi potuto lanciarsi giù dalla casetta e terminare il percorso sui materassi.

    Un’impresa alla Tomb Raider, per intenderci. L’idea fu accolta da tutti, compreso Joshua, come una strafigata pazzesca. Ma poi si chiesero come si sarebbero procurati i ganci da macellaio. Max venne in soccorso di uno Scott preso in contropiede affermando che forse, in soffitta, suo padre poteva avere qualcosa di simile: appena possibile avrebbe controllato senza farsi beccare.

    Se i grandi avessero saputo cosa avevano in mente di certo non li avrebbero più fatti uscire fino all’inizio della scuola. E poi, anche i materassi sarebbero stati difficili da portare alla base senza che i genitori di qualcuno, vedendoli, non si insospettissero. E insomma, un’ottima idea, ma difficilmente praticabile. Convennero che ci avrebbero

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