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Eco: La Mano dell'Eroe
Eco: La Mano dell'Eroe
Eco: La Mano dell'Eroe
E-book897 pagine13 ore

Eco: La Mano dell'Eroe

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Info su questo ebook

Bambini cresciuti in un mondo di ombre e bugie, ragazzi in lotta per la propria sopravvivenza e in cerca di un’identità in cui ritrovare sé stessi, nessuno ha mai spiegato a Theiryn e a Léw i motivi della loro diversità.
Entrambi sanno bene che l’unico modo per sfuggire al controllo della setta dei Telepati e a quel destino di sofferenza che sembra essere già stato tracciato di fronte a loro è scappare. E l’occasione di farlo si presenta quando un gruppo di eroi leggendari decide di arruolarli nei propri ranghi, aprendo loro le porte di un mondo di storie antiche e miti dimenticati che sembra essere destinato ad accoglierli.
Ma nulla è ciò che sembra e la verità che i due ragazzi stanno disperatamente cercando sembra destinata a rimanere sepolta sotto a nuove menzogne; almeno fino a quando non capiranno di dover cercare la propria verità, quella verità che non riguarda gli dei né il mondo, e che è per questo l’unica verità in grado di renderli gli eroi di cui la loro epoca ha bisogno.
LinguaItaliano
Data di uscita11 gen 2019
ISBN9788829593750
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    Anteprima del libro

    Eco - Irene Castelli

    Irene Castelli

    Eco

    La Mano dell'Eroe

    UUID: d841b470-14ee-11e9-9b9d-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Primo Quadro

    LA CADUTA

    UNA BAMBINA

    UN BAMBINO

    THREA E UNA RAGAZZA

    THREA E UN RAGAZZO

    UN LUOGO CHE NON MERITA POESIA

    DISTACCO

    CAMBIO DI PROGRAMMA

    LO SCAMBIO

    RAGNATELA

    SENZA PAURA

    LA VIA

    CHI VA E CHI RESTA

    DOMANDE

    Secondo Quadro

    IL PESO DELLA FARFALLA

    ULULATI NELLA NOTTE

    L'AVVERSARIO PEGGIORE

    STRADE CHE SI PERDONO

    PASSAGGI

    FERDA TAMIS

    GLI OSPITI E L’OSPITE

    SCOPERTE

    CHIESE, COS’É LA LIBERTÀ

    ILLHEAN

    PORTE CHIUSE

    LA VEGGENTE

    SANGUE SOTTO ALLE BANDIERE

    PERDERE E TROVARE

    Terzo Quadro

    PARTENZA

    OCEANI NELL’OCEANO

    SOGNI NERI

    LE SKOYLË DEMHARA

    ALI NERE

    LA CASA SUL LIMITARE DEL BOSCO

    IL GUARDABOSCHI

    MASCHERE FANTASMA

    NESSUNA RISPOSTA

    SOLTANTO UN SUSSURRO

    CASA

    LE CITTÀ GEMELLE

    PIÙ O MENO PIACEVOLI SCOPERTE

    CALORE

    POTREBBE FUNZIONARE

    PER CHI NON C’É

    NEVE

    ECHI DI PASSATO

    ANIMA D’ACCIAIO

    RITORNELLO

    RICORDO

    TANAR UTHERIA

    L’INIZIO E LA FINE

    Ringraziamenti

    Cause it’s true, I’m nothing without you

    (With Me, Sum 41)

    Per tutto quello che hai sognato e che sogni

    Per tutto quello che hai fatto e che fai

    Ma sopra ogni cosa

    Per tutto quello che sei stata e che sei

    A Teresa

    Primo Quadro

    Silenzio.

    È questo, il silenzio che a volte vorrei durasse per sempre. Eppure so meglio di chiunque altro che il silenzio non è che un'attesa e che ho atteso abbastanza a lungo, qui, aspettando di capire che cosa stessi aspettando.

    Quando il cristallo fragile del silenzio all'improvviso si spezza sobbalzo leggermente. Non è il ruggito dell'oceano che si scuote furioso centinaia di metri sotto i miei piedi a strappare la mia mente da questo torpore inquieto, e nemmeno il soffio del vento, così forte che i pochi alberi della scogliera imparano a crescere già piegati in un inchino perenne.

    Per un istante soltanto mi chiedo che cosa succederebbe se decidessi di non alzarmi mai; se scegliessi di non aprire mai la porta di quella che ho scelto come casa e di rimanere seduto a questo tavolo spoglio nel buio, aspettando, aspettando come ho sempre fatto. Il tempo per realizzare che non cambierebbe nulla non mi è concesso: mia moglie mi ha gettato uno sguardo che ha il sapore di un rimprovero stanco e si è alzata con troppa lentezza, la stessa lentezza con cui è andata ad aprire.

    Passi.

    Mi alzo a fatica, perché non c'è più niente che possa fare per evitarlo.

    Gli occhi dei miei ospiti brillano nella penombra squarciando arroganti la mia unica difesa.

    Cosa posso fare se non riconoscerli, alla fine, e costringermi a fare quello che devo?

    -Benvenuti.- esordisco dopo un attimo di silenzio imbarazzato. Il più basso dei due mi ringrazia e si lascia scivolare il cappuccio della mantella sulle spalle, ma il più alto si limita ad indirizzarmi un timido cenno del capo. Mia moglie scompare in cucina e la sento aprire vecchi cassetti alla ricerca di qualche candela da accendere, alla ricerca disperata di una tovaglietta ricamata per coprire la stranezza di quell'incontro e per infilarsi per l'ennesima volta nei panni della brava padrona di casa lasciando che quell'immagine di sé la tranquillizzi.

    Non sono sicuro che questa volta basterà.

    Ma in fondo non c'è più nulla di cui io sia sicuro, e il silenzio che colma la sua assenza in quella stanza troppo piccola non è che l'ennesima attesa: un'aspettativa, una previsione di quello che dovrei stare per fare e di quello che da me si aspettano. Devo trovare la forza, per me e per loro, per loro e per il mondo.

    Forse un tempo sono stato un uomo forte. Posso illudermi di esserlo ancora?Posso continuare a mentirmi, a sostenere che le mie labbra ricordino il sapore dei denti stretti e della voglia di non cedere?

    Ieri, cullato dall'illusione dell'oblio, sono andato sulla spiaggia e ho camminato. Quando mi sono voltato ho scoperto che il mare aveva già travolto nel suo dolce riflusso le orme dei miei piedi e qualcosa dentro di me si è strappato. Ho capito che il ricordo delle mie dimenticanze mi ha marchiato più di quanto io non voglia ammettere, ho realizzato che non posso scappare, che non posso cambiare: come potrei avere così poco rispetto per me stesso da spingermi, ora, con i capelli ingrigiti e le prime, polverose rughe attorno agli occhi, a cercare l'eco di una determinazione passata?

    Mia moglie emerge della cucina con tre mozziconi di candela stretti tra le mani.

    Capisce subito cosa sta succedendo. Non alzo gli occhi mentre appoggia i moccoli sul tavolo e mi guarda, di nuovo, come si guarda un bambino disubbidiente, mentre sorride a quelle due sagome indistinte e le fa accomodare di fronte a me che ricado di nuovo a sedere su di una sedia scomoda, mentre sparisce un'altra volta tra le ombre della sera con il cuore più pesante del mio.

    Forse lei è rimasta una donna forte.

    I vivaci occhi scuri del più basso di fissano su di me.

    -Stai bene?- mi chiede dopo un attimo di esitazione. Quella voce calda e roca mi sembra riecheggiare da un sogno. Quanti anni sono passati? Quanto incubi?

    Cerco di annuire.

    -Non è facile- preciso poi con voce meno ferma di quello che vorrei, e lui annuisce a sua volta.

    Non so cosa volesse significare quella mia ultima frase: vorrei che si sentisse in colpa, vorrei giustificare il tremolio delle mie mani, vorrei semplicemente che provasse a capire cosa mi è successo e provasse pietà per il fantasma che si trova davanti?

    Non ho risposta, per cui lascerò che sia lui a trovarla; è tardi. Sento già i passi di mia moglie sulle assi scricchiolanti del corridoio, seguiti da altri leggeri come carezze.

    Ora. Ora vorrei che il tempo si dilatasse all'infinito, dandomi modo di alzarmi, di dire addio alle pareti che hanno visto essere e morire i sogni dell'uomo che ero, di lasciare un bacio lieve sulla fronte della donna senza cui ora non sarei qui, di regalare ai miei figli troppo piccoli un ultimo abbraccio; e poi potrei farlo, camminare via nel grembo della notte lasciandomi alle spalle quella luce fievole di candela e correre sulle ali del buio fino a perdermi per sempre nel rombo dell'oceano.

    So che il tempo non mi ascolta: lo sento saltare in avanti, indispettito dalla mia richiesta di vigliacco. Sono già comparsi nella stanza. La maggiore stringe la mano di sua madre con una decisione che le invidio. Il più piccolo cinge il collo di mia moglie, il viso affondato nei suoi capelli morbidi e l'abbandono dolce del sonno nelle membra.

    Il mio orgoglio di padre non mi consente di provare tristezza eppure il sollievo, la felicità, la sensazione che nell'essere riuscito a salvare qualcosa risieda anche soltanto l'assaggio di un successo sono stati spazzati via da un'emozione più cupa: mi accorgo di aver sbagliato e sento che quei bambini non sono che errori, macchie d'inchiostro cadute da un pennino maldestro sul bordo di un libro. E mi pento di quegli sbagli: di fronte allo sguardo profondo di mia figlia e alla tenera delicatezza di mio figlio, mi pento.

    Il più basso dei miei ospiti prova a comportarsi come ogni adulto si comporta di fronte ad un bambino che crede ci conoscere. Rintraccia gli occhi liquidi di mia moglie in quel piccolo viso spruzzato di lentiggini, immagina i miei capelli di un tempo in quelli scompigliati della creatura che non lo guarda nemmeno in faccia. Gli sono grato.

    Il più alto abbassa la testa e io so a cosa sta pensando. Vorrei potergli intimare di non spezzare quell'attimo, di lasciarmi il tempo di accettare ciò che sta per succedere, ma il tempo ha già detto di non avere voglia di aspettarmi.

    -È tardi.- afferma alla fine. L’espressione del più basso sembra andare in pezzi.

    I bambini sbirciano intimoriti la sua figura, come stregati da quella voce inaspettata. Deve avere una quindicina di anni meno di me, calcolo abbandonandomi stancamente allo schienale della sedia, così giovane, così triste...

    La ragazza che ho di fronte sorride ai miei piccoli e mi accorgo di potermi fidare di lei. Devo poterlo fare.

    -Non c'è fretta.- ribatte allegramente il più basso appoggiando i gomiti sul tavolo -Rivedere i vecchi amici è sempre bello.-

    -Ho bisogno del tuo aiuto.-

    Sono parole precipitose, che colgono entrambi di sorpresa. Sposta gli occhi su di me con una felicità incredula.

    Capisco che mi ha considerato perduto. Capisco che lo sono, ma non voglio che questa consapevolezza pesi anche sul suo cuore.

    -Partirete prima dell'alba.-

    I due annuiscono con la sicurezza sincrona di chi è abituato a lavorare insieme.

    -Cosa vuoi che faccia?- chiede il mio vecchio compagno, lo sguardo che scintilla nella penombra.

    -Sei sempre stato bravo, quasi più di me, a raccontare storie.-

    Non ha bisogno di altro. Prima di rivolgersi ai miei figli mi getta un ultimo sguardo sollevato.

    -Ragazzo.- lo sento mormorare, già perso nelle parole che userà per creare un mondo e per donarglielo -Portami del tabacco, perché questo è un racconto che merita ben più di una marea per essere detto.-

    LA CADUTA

    Silenzio.

    Cos’era, il silenzio? Assenza di suono?

    No.

    Se fosse stato così allora il concetto stesso di silenzio sarebbe stato mutilato come un braccio senza una mano o un albero senza foglie, e allo stesso tempo troppo lontano dal poter esistere; perché anche in quel momento, se chiudeva gli occhi, poteva sentire il cuore battere con calma dentro di lui, poteva sentire il sangue scorrere con la forza di un fiume in piena nei suoi capillari, e allora il silenzio non c’era più.

    Ma c’era qualcos' altro, si disse aggrottando la fronte perfetta, qualcosa che spingeva gli uomini a dare un nome al silenzio. Ed quel qualcosa era l’unico nemico che il suo corpo possente di guerriero non poteva fronteggiare.

    La pesantezza.

    La sensazione di essere parte destinata a morire di un mondo che moriva ogni giorno, esaltata in quel vuoto di ritmo che si insinuava tra un respiro e l’altro.

    E adesso, nel silenzio solenne che vedeva la morte di una città, il Cavaliere Bianco non poteva che permettere al suo sguardo grigio di riempirsi di quelle stelle fredde e di quei fuochi, così tanti che le sue iridi gravi avrebbero voluto vomitarli: centinaia di piccoli punti danzanti che corrodevano rapidi lo scheletro annerito dal fumo che era stata Dûna-Hireed.

    Ricordava la prima volta che ci era stato, quando ancora la carcassa che gli bruciava sotto gli occhi era la Città Alta delle Miniere Ombrose, con le massicce torri di pietra a guardarne l’ingresso e le porte di bronzo sempre spalancate ai viaggiatori; quando ancora il suo centro era dominato dall'ombra smilza della Cittadella, quando la pietre che avevano visto la sua investitura e quella di decine di Eroi Pilastro prima di lui stupivano ancora i viaggiatori per la loro regolarità e le colonne sottili del Consesso conservavano quelle nervature di madreperla nanica che le avevano rese famose ben oltre il Dorlin Shadeaniad.

    Non era servito a nulla.

    Ora il suo compito era cambiato, e da combattente era diventato becchino. Fece voltare il cavallo con un colpetto gentile e discese il crinale senza fretta. Sarebbe stata superflua: era arrivato troppo tardi. Qualcosa in quel pensiero fece gonfiare il suo cuore fino a farlo cadere, o così gli parve, a battere nello stomaco.

    Avrebbe fatto la differenza, in fondo, se fosse arrivato durante l’assedio?

    No.

    Non sarebbe servito a nulla.

    Non avrebbe salvato quella città cui doveva tanto.

    Non avrebbe permesso di sopravvivere ad uno soltanto dei suoi abitanti e nemmeno al Principe dei Sussurri, che in quel momento lo stava costringendo a camminare tra le rovine di un’epoca.

    Raggiunse la strada maestra e il panorama di distruzione che aveva contemplato dall’alto gli si spalancò davanti in tutta la sua immensità, come se solo in quell’istante gli fosse stato dato di comprendere la portata di quello che era successo. Senza che il suo volto affilato tradisse la minima emozione, smontò agilmente dallo stallone bianco nel rispetto dell’antica consuetudine delle città dei nani che imponeva di non portare mai cavalli entro le mura e nel desiderio di calpestare quel terreno dilaniato facendosi tutt'uno con le sue ferite ancora aperte.

    Mosse i primi passi nella polvere della strada vuota. Si sentì ancora più piccolo.

    Ed eccolo, di nuovo, quel silenzio lo aveva accerchiato per attaccarlo, spezzato solo dal lamento cupo del vento e dal tuonare lontano di una tempesta ritardataria che non sarebbe stata onorata ai piedi del Giglio come si usava nelle terre degli Antichi Dei, dove anche gli uragani erano ritenuti importanti.

    Se fosse arrivata, quella pioggia, a cosa sarebbe servita?

    Il cielo avrebbe pianto su un terreno incapace di assorbire altre lacrime.

    Sapeva che non lo avrebbe trovato. Il suo cadavere non era altro che un corpo tra i mille altri che sarebbero stati inghiottiti dalla fame macabra delle fiamme, ma aveva bisogno di aggrapparsi ad uno scopo che lo costringesse ad andare fino in fondo.

    A varcare quella soglia.

    A scardinare i ricordi di quel luogo estirpando dalla sua mente nostalgica ogni seme di rimpianto.

    Si incamminò a passo tranquillo, un punto bianco ed anonimo nella fuliggine, ed oltrepassò senza fermarsi le pesanti porte di bronzo divelte e sciolte sui bordi dal calore del fuoco; soltanto allora si fermò, sorpreso per un istante dall'espressività delle mille facciate un tempo splendide che lamentavano le macchie scure sui loro visi. E dal silenzio.

    Quel silenzio, steso come un sudario sui luoghi troppo lontani dal loro tempo.

    E camminò, camminò per quelle strade lorde di sangue osservando il proprio volto liscio di immortale nei frammenti di vetro abbandonati sul lastricato grigio, camminò lasciandosi alle spalle una preghiera a Nhamia la Cieca per ogni cadavere che giaceva scompostamente in qualche scura pozza rappresa.

    E camminando raggiunse il grande slargo che si apriva al centro della città, il suo cuore un tempo pulsante di vita dove le grandi statue degli Antichi Dei dagli occhi marmorei fissi sul cielo scuro accerchiavano orgogliose il trono spezzato dello Stratega.

    Ëwherhal si avvicinò lentamente ad uno di quei simulacri troppo pallidi. Una picconata aveva aperto uno squarcio nella carne liscia della statua, che un tempo doveva raffigurare una donna dalla schiena ricoperta da una cascata di capelli liquidi; tra le mani immobili teneva quella che doveva essere stata una sfera sbozzata in modo grossolano dai colpi di un martello. L'elfo seppe di trovarsi al cospetto di Ileyan, Dea della notte e dei desideri impossibili.

    Lasciò che il suo dito scivolasse lungo quel profilo freddo, sfigurato dai colpi dei mazzapicchi, e cadesse ad accarezzare le dita della dea. Com'erano rigide, com'erano determinate nell'aggrapparsi a quel simbolo ormai privo di significato. Com'erano simili a quelle dei cadaveri riversi attorno a lei in quella piazza vuota.

    L'elfo arretrò di un passo, lanciando un'ultima occhiata alla bellezza malinconica della statua dei lunghi capelli, poi ruotò su sé stesso fissando il proprio sguardo di fronte a sé.

    Quando trovò ciò che stava cercando avvertì il suo petto sussultare, improvviso, come se il controllo che si era imposto gli fosse sfuggito dalle mani. Per un attimo soltanto temette di aver fatto un passo falso al quale non avrebbe più potuto rimediare.

    Concentrandosi ritrovò la propria espressione, quel sorriso, quella maschera.

    E sorridendo si incamminò: raggiunse il piedistallo della grande statua di pietra e si costrinse a sollevare gli occhi con lentezza, quasi a voler sondare ogni pollice della figura china su di lui.

    Era un uomo alto, dai muscoli armoniosi e veri come solo quelli di una statua lavorata nel cuore delle Miniere Ombrose potevano esserlo, accovacciato con le braccia tese lievemente in avanti.

    Verso di lui.

    Le sue pupille ebbero un guizzo improvviso verso l'alto, nel desiderio di intercettare quello sguardo di pietra. Sapeva che cosa avrebbe trovato, ma questo non gli impedì di provare un vago senso di raccapriccio. Se non avesse saputo che quella statua rappresentava Amerauth il Guardiano nemmeno lui, cresciuto nel rispetto degli Antichi Dei, lo avrebbe riconosciuto: non c'erano occhi su quel viso corroso dall'acido. Non più.

    Dentro di sé avvertì aprirsi con dolorosa tranquillità l'ennesimo strappo.

    Quel viso apparteneva al passato.

    Lui, il Cavaliere Bianco, apparteneva al passato ed al vuoto che gli si allargava nel petto.

    Tra le mani di Amerauth pendeva, spezzato, un giglio di pietra scura; il fiore che un tempo aveva significato la vita di un popolo. Il sorriso sulle sue labbra eterne si allargò mentre i suoi occhi rimanevano fissi su quello stelo piegato.

    Poi, prima in modo quasi impercettibile poi sempre più forte, in un crescendo di pazzia, l'elfo scoppiò a ridere.

    Una risata argentina, una risata calda. Una risata vuota, una risata folle.

    Un riso che rimbalzò lungo le vertebre annerite di Dûna Hireed, che aleggiò sulle iridi vitree dei cadaveri, che lacerò l'aria immobile; un riso che ben presto si mescolò alle lacrime, e divenne impossibile stabilire a che tristezza appartenesse il sorriso, e a che allegria ingiustificata fosse dovuta la disperazione.

    Eccolo, il vecchio errore.

    Rimase sospeso in quel limbo, figura bianca nella fuliggine dell'incendio, antico quanto il mondo e sconvolto come un bambino. Poi gridò.

    Si lasciò scivolare al suolo con un urlo disumano, sbatté pesantemente i pugni per terra e gridò fino a non avere più fiato, colpì con violenza animale il freddo pavimento lastricato e godette nel vedere il sangue delle sue nocche martoriate riempire la ragnatela bianca delle scanalature che correvano tra una pietra e l'altra.

    Ancora. Ancora sangue.

    E rimase riverso al suolo, rannicchiato su sé stesso, pregando in silenzio perché il mondo lo riportasse ad essere ciò che non era.

    Ciò che non sarebbe potuto essere, mai più.

    Silenzio.

    Il silenzio maestoso dei luoghi antichi, che drappeggiava il profilo imponente di quel palazzo circondato da una quieta, ingannatrice oscurità.

    La figura continuò la sua marcia leggera evitando il sentiero principale che conduceva alle ampie arcate del portico e tagliando invece attraverso il giardino addormentato.

    Non impiegò molto a raggiungere un piccolo portone di legno che si apriva su una corte secondaria del castello. I due guardiani in uniforme rimasero immobili al suo passaggio, le lunghe alabarde severamente strette tra le mani. Proseguì senza guardarli, silenziosa ed altera come una dea, ed imboccò un lungo corridoio che le aveva sempre ricordato la gola di qualche antica creatura con le sue arcate appuntite di legno simili ad ossa.

    La donna si fermò di colpo, il viso contratto nelle ombre del cappuccio, e nel buio i suoi occhi chiari ebbero un guizzo di cristallo. Poi, si mise a correre.

    Guadagnò la fine dell'androne in una manciata di secondi e svoltò rapida verso una semplice porta di legno chiaro, che spalancò violentemente.

    -Mio signore...-

    L'elfo biondo ritto al centro della sala si girò nella sua direzione e subito il suo volto cupo fu rischiarato da un sorriso.

    -Sìndaeril, Nyenen. An Thuldar aram su'ras.- scandì con una voce calda che risuonò in modo innaturale, quasi meccanico, tra le pareti della grande stanza vuota.

    -Sìndaeril, mio signore. Non c'è più tempo.- ansimò la donna liberando la folta chioma corvina con un gesto del capo -Ho sentito il loro odore.-

    -Lo so.- la interruppe lui gentilmente.

    -Le guardie, sanno...-

    -No. Le loro grida saranno il nostro segnale.- intervenne un’autoritaria voce femminile. Quando l’elfa si alzò con grazia dalle ombre di uno scranno di broccato l’onda dei suoi lunghi capelli scuri le ricadde sulla schiena, e la sua sagoma si delineò sullo sfondo delle pareti come un fantasma bianco partorito dalle tenebre.

    -Sìndaeril, mia signora.-

    -Non c'è tempo per i convenevoli, Nyenen.-

    Il riverbero rossastro della fiamma del camino si rifletteva sulla pelle di porcellana della regina, insinuava fili d'oro nella sua ricca chioma di mogano, si univa al fuoco proprio di quei grandi occhi d'oceano. Nyenen ricordava di essere rimasta intimidita, un tempo, da quell'elfa bellissima ed inflessibile; da quell'anima capace di piegare il ferro, ma che sapeva essere dolce come una madre; da quell'istinto di tigre che aveva mani di balia.

    -Ti è chiaro quello che devi fare, Nyenen. Non fallire. Non puoi fallire.-

    -Sapete che non fallirò, mia signora.-

    -Non è così semplice. Non si tratta solamente di portarla al sicuro.- la interruppe bruscamente la donna e la sua voce, dalla consistenza morbida del velluto, suonò tagliente come una lama -Non devi permettere che diventi debole.-

    Gli occhi sconfinati della regina si fissarono in quelli freddi dell'elfa.

    -Dovrà combattere contro troppe cose perché possa esserlo. Dovrà combattere contro sé stessa per imparare a non sentire più niente. Dovrà essere e basta, senza sapere, senza immaginare, limitandosi a fare quello per cui è nata senza cercare la verità.-

    -Mi assicurerò che non sappia nulla.-

    Sulla stanza scese un silenzio improvviso, rotto solo dallo scoppiettio caldo del fuoco.

    Nella penombra, il volto della regina era una maschera di granito bianco: incredibilmente perfetto nella sua eternità, incredibilmente altero nella sua durezza. Nyenen avvertì i proprio muscoli rilassarsi e si inchinò leggermente in avanti.

    Poteva farlo. Per questo era stata scelta: non avrebbe fallito.

    La regina le concesse un cenno del capo, e la soddisfazione che le increspò le labbra di corallo fu quella di un cacciatore che finalmente abbia trovato una preda per cui valga la pena partire all'inseguimento.

    -È un errore.- ammise alla fine senza tradire alcun pentimento -Un errore che si è reso necessario, ma pur sempre un errore. Qualsiasi cosa succeda, ricordalo. E se sfugge al tuo controllo, uccidila.-

    -Sarà fatto. Anche il bambino è pronto?-

    -Suo padre se ne è sbarazzato senza pensarci troppo.- intervenne il re scuotendo la testa -Non ci è costato molto.-

    -Meglio così.-

    -Hai una destinazione, Nyenen. Una destinazione precisa.-

    -La conosco, mia signora.-

    -Allora vai.-

    -Lierin, aspetta.-

    L'elfo si appoggiò con un mezzo sospiro al leggio di ferro battuto che dominava il centro della stanza e tacque, lo sguardo fisso sul vecchio libro rilegato in cuoio che vi giaceva sopra, addormentato come un'antica bestia quiescente ma mai domata. I suoi occhi del colore dell'oceano parvero velarsi per un istante, oscurati dall'ombra di un pensiero fugace, ma quando li riportò su Nyenen lei li trovò puliti e ridenti come erano sempre stati. Simili, e allo stesso tempo completamente diversi da quelli della regina.

    -Voglio che tu dica ad Ëwherhal che non avrebbe potuto farci niente. Il suo onore non ne sarà macchiato. Non deve seguire la strada di Samahun: deve sempre esistere un Cavaliere Bianco.- scandì in tono fermo. Nyenen annuì, chinando il capo.

    -Deve sempre esistere un Cavaliere Bianco.-

    - Ëwherhal lo saprà.-

    -Allora questo è quanto. Gli Obliatori hanno fatto la loro mossa a Dûna Hireed. Ora è il nostro turno.-

    -Mio signore, mia signora.- l’elfa si inchinò rapidamente, tradendo il disagio che provava –Prendo congedo.-

    -Sìndaeril, figlia della pioggia. An Thuldar aram su’ras.-

    Non le restò che accogliere quel saluto, scandito in modo stranamente solenne, e portarlo via con sé mentre si girava e scompariva da quel corridoio che non le era mai piaciuto.

    Non le restò che incamminarsi soffocando il rimorso, un fardello troppo pesante tra le braccia, le stelle che coloravano i suoi capelli di notte. Non le restò che emettere un fischio basso e montare in groppa al robusto stallone nero che le era venuto incontro, nato dal buio. Era ormai lontana, quando le prime grida disumane lacerarono il cielo, la sua anima, il suo cuore.

    UNA BAMBINA

    E anche oggi è una storia che volete sentire, eh?-

    Una ventina di piccole teste more si chinarono in un unico gesto mentre altrettante paia di occhi prendevano a brillare della stessa luce e si fissavano sul vecchio.

    Theiryn sorrise a mezza bocca. Ghard non si smentiva mai.

    -Bene.- concluse il cantastorie con uno sbuffo annoiato, abbandonandosi sullo schienale della sedia a dondolo tarlata che scricchiolò pericolosamente –Decidete voi quale, io me ne lavo le mani.-

    Un mormorio eccitato attraversò le fila di quello strano esercito sfociando subito in qualche lite passeggera. Lei tacque e si limitò a tendere le orecchie, facendosi vigile; ben presto, però, si rassegnò ad abbassare il capo.

    Niente di originale.

    Sollevò appena lo sguardo ed intercettò gli occhi vivaci del cantastorie, brillanti come carboni ardenti nella lieve penombra della stanza. Senza emettere suono l'uomo increspò pesantemente le sopracciglia e sillabò una parola soltanto: salvami . Theiryn gli rispose arricciando le labbra in un sorriso sghembo, poi alzò la mano con la pigrizia studiata di chi ama farsi pregare.

    I bambini ammutolirono di colpo, lasciando cadere in un mormorio esitante la discussione furiosa che avevano sostenuto fino a qualche istante prima, e si girano tutti a guardarla con lo stupore impresso sul viso. Ghard la autorizzò a parlare con un gesto secco del capo che solamente Theiryn intese per quello che era. Dentro, in quel petto corroso dalla malattia, il vecchio se la stava ridendo almeno quanto lei.

    -Marmocchia.-

    -Potresti raccontarci qualcosa di nuovo.- propose con un sorriso candido -Una storia che non ci hai mai raccontato.-

    Le sue parole caddero nel silenzio. Ora, nel caleidoscopio dei visi che la circondavano, guizzavano veloci le stesse emozioni. Alla sorpresa si mescolava il disappunto e al disappunto si sovrapponeva la paura. Poteva avvertire quell'accusa muta pesare su di sé: li stava privando della loro Educazione chiedendo qualcosa di diverso da ciò che era necessariamente giusto, stava barattando l'idea della bellezza con una merce sconosciuta e pericolosa che non poteva che rivelarsi scadente.

    -Che stai facendo?- sibilò Jaime al suo fianco. Lei gli dedicò un sorriso a metà ed alzò le spalle in un cenno di impotenza. Ghard sembrò ritirarsi per qualche istante nei suoi pensieri, le dita che giocherellavano agili con il cannello della pipa spenta; poi si lasciò andare ad un sospiro.

    -Potrei farlo.-

    Sui suoi piccoli clienti calò una cappa di quieta disperazione, ma nessuno si azzardò a contraddirlo. La bambina non poté reprimere l'ennesimo sorriso. Si potevano dire tante cose dei piccoli di Threa, ma quanto meno avevano imparato la lezione più importante di tutte: mai, in nessun caso e per nessun motivo, bisognava irritare il vecchio Ghard.

    -Tu.- chiamò aspramente il cantastorie indicando qualcuno dall'altro lato della stanza. Dopo un attimo di esitazione un bambino che doveva avere all'incirca la sua età si alzò in piedi e Theiryn dovette reprimere un moto di stupore. Era strano che lei, lei che si vantava di notare sempre tutto, non si fosse accorta della sua presenza quando quella testa biondo miele spiccava tra le mille teste brune che lo circondavano come un diamante sul greto di un torrente.

    Il bambino si fece avanti lentamente, strisciando i piedi e tenendo gli occhi fissi al suolo.

    In fondo non doveva essere una persona facile da notare, ed il pessimo carattere di Ghard ormai era leggenda: che ne fosse intimorito non era poi così incredibile. Il vecchio lo guardava, fieramente seduto sulla sedia a dondolo come l’Imperatore in persona sul Trono di Iltergend, e soltanto quando il bambino si fu fatto abbastanza vicino accennò alla mappa sbiadita che pendeva miseramente sulla parete spoglia al suo fianco.

    Lo sguardo del malcapitato si fece confuso, sollevandosi soltanto per un istante per poi ricadere verso il basso nell’imbarazzo più completo.

    -Avanti.- sbottò il cantastorie ripetendo il gesto -Indica. Un posto, qualsiasi cosa che non sia il muro. Dicci di cosa parleremo oggi.-

    Forse fu la secchezza del suo tono scorbutico a scuoterlo da quel torpore insicuro. Annuì con troppa fretta, poi raggiunse la mappa e, alzatosi sulle punte dei piedi, stese l’indice verso nord.

    Quel movimento determinato era bastato a tradirlo, rivelando che in lui c’era più di quella timidezza testarda.

    -Nehedred.- concluse il cantastorie smettendo per un istante di tormentare il cannello della pipa -Originale.-

    Il rossore conquistò in un colpo solo il viso magro del bambino. Theiryn sentì germogliare in sé un’istintiva simpatia nei suoi confronti: sapeva perfettamente che cosa significasse trovarsi esaminati dagli occhi rapaci di Ghard senza avere idea di cosa dire per compiacerlo.

    Se la stava cavando piuttosto bene. Non rispose, scrollò lievemente le spalle e tornò a sedersi all'altro angolo della stanza, subito dimenticato dagli sguardi invidiosi degli altri.

    -Marmocchio, aspetta. Come ti chiami?- sbottò il cantastorie riportando la scena su di lui.

    Il bambino parve ripiegarsi su sé stesso, ma allo stesso tempo alzò per la prima volta lo sguardo inquieto in quello del vecchio. In quelle iridi nervose si misurò il silenzio che seguì, un silenzio fatto di urgenza e di mistero, una conversazione che non aveva bisogno di parole ma che pesava più di un grido nell'atmosfera tesa della stanza troppo piccola.

    -Lléowin.- bisbigliò alla fine, malvolentieri.

    Ghard annuì con un cenno secco del capo, come suo solito, e tornò a concentrarsi sulla storia o a fingere di farlo. La bambina era abituata a fidarsi del suo istinto, e istintivamente seppe che i pensieri del cantastorie erano lontani da Nehedred, da Threa, da Neheran e anche da Shadea; ma fu l'unica ad accorgersene.

    -Nehedred è una parola antica.- esordì l'uomo, il busto abbandonato stancamente allo schienale della poltrona e il mento leggermente sollevato verso l'alto -Appartiene ad una lingua che non si parla più e che pochi ricordano. Potrei dirvi che significa vuoto, e che per questo i poeti si divertono a chiamare quel posto la Desolazione.-

    Scosse la testa con una lentezza di un vecchio attore, e come al solito la sua abilità di raccontare con la voce e di dipingere l'atmosfera con il corpo la lasciò stupefatta.

    -Ma non merita poesia. È un deserto di roccia brulla, dove non cresce niente, e proprio al centro di questo deserto c'è un vecchio castello abbandonato. Lo chiamano Ferda Nehedred. E sappiate che non è abbandonato per caso...- Ghard tacque per un secondo in una pausa studiata, gli occhi che brillavano nella penombra come carboni ardenti - È che c’è qualcosa nelle fondamenta di Ferda Nehedred… qualcosa che non dovrebbe esistere…-

    Il silenzio si fece più spesso, riempiendosi di colpo dell'attesa vibrante di ognuno di loro e delle aspettative che quell'attesa portava con sé. Quello era l'attimo più bello, e la bambina seppe gustarlo con il sorriso sulle labbra: l'istante in cui, sul viso di tutti i suoi lunatici compagni di giochi, compariva l'immagine unica ed irripetibile che in quelle menti si era formata; erano meravigliosi, e così ciechi da non realizzare che il vero spettacolo non era la storia di Ghard ma loro stessi, e che dall'alto della sua sedia a dondolo il cantastorie li stava fissando affascinato e commosso dietro all'enorme cicatrice che gli piagava il volto. Ghard sapeva misurare la bellezza delle cose. Lasciò che il silenzio durasse ancora un istante prima di spezzarlo, distruggendo quell'attimo di perfetta e pura umanità.

    -La verità è che Ferda Nehedred è stata costruita sopra ad un luogo molto più antico. Una lunga, buia galleria, un cunicolo che non ha fine se non al centro della terra. Un Ponte.-

    Jaime deglutì rumorosamente quando l’uomo si tese in avanti, gli occhi sfavillanti e un ghigno terribile impresso sul volto, e Theiryn sentì il proprio sorriso allargarsi: il grosso Jaime, che quel giorno era scappato dall’Educazione abbandonando suo fratello Cyel al suo destino soltanto per rifugiarsi nella baracca di Ghard a vantarsi della sua forza, aveva paura.

    -Un Ponte per dove?- pigolò debolmente il bambino facendosi ancora più piccolo.

    -Nessuno lo sa, perché nessuno è mai tornato indietro dopo esserci entrato. Rimane una strada che non si può percorrere: è il sentiero per un altro mondo.-

    Stavolta nessuno ebbe il coraggio di infrangere la totale assenza di rumori, né Theiryn né il ragazzino biondo che li aveva portati a sentire quella storia. La bambina girò appena la testa per poter sbirciare da sopra la spalla il fondo della stanza, ma rimase delusa nello scoprire che il posto in cui si sarebbe dovuto trovare quel Lléowin era occupato da un'altra testa perfettamente mora ed anonima quanto la propria. Si guardò attorno stupita: il ragazzino dai capelli color miele se n'era andato.

    Il pomeriggio passò più lentamente del solito, ma d'altronde era sempre così: quando aveva bisogno di Ghard tutto per sé, incredibilmente le storie da raccontare e le domande a cui rispondere si moltiplicavano. Ma fu paziente e ne fu premiata. Quando anche Jaime l’ebbe salutata allegramente e fu corso via per rientrare nei ranghi della sua vita e nelle lezioni dell'Educazione si trovarono soli, un vecchio fragile e sfigurato appollaiato sulla sua sedia a dondolo scricchiolante ed una marmocchia seduta a gambe incrociate sul tappeto di fronte a lui.

    -Sempre a ficcanasare, eh?- borbottò Ghard stringendosi addosso la pesante coperta a quadretti -Cosa vuoi stavolta, Theiryn?-

    -Devo parlarti.- rispose subito lei in tono così serio che persino l'amico dovette darle ascolto -Ho fatto un sogno, un incubo a dire la verità. Posso raccontartelo?-

    -E ti sembra che io non abbia niente di meglio da fare che stare a sentire i tuoi sogni?- grugnì l'uomo con arida sdegnata.

    La bambina non si fece ingannare. Aveva notato come i suoi occhi non l'avessero abbandonata e come ora la scrutassero con un'attenzione tutta particolare, quella che si riserva alle cose importanti. Prese fiato come prima di spingere la testa sott'acqua, consapevole di avere ottenuto il tacito permesso di iniziare a raccontare a sua volta, lì, tra quella quattro mura che ogni giorno si saziavano di parole; ed iniziò a farlo, senza distogliere lo sguardo dalle iridi nere e scintillanti del vecchio.

    Parlò di quella scena confusa, di quell'uomo e di quella donna dagli occhi simili che morivano contorcendosi tra fiamme nere e feroci in una sala dalle finestre ampie, mentre un silenzio crudele li schiacciava a terra senza permettere loro un grido. Non seppe descrivere altro, non i loro vestiti, non i loro visi, ma bastò questo perché le dita adunche di Ghard si stringessero ai braccioli della sedia al punto che le parve di poter vedere attraverso alla pelle fragile delle sue mani magre.

    Il cantastorie si diede una leggera spinta con la punta dei piedi e la sedia iniziò a dondolare in un concerto di cigolii.

    Non la interruppe e non fece domande, ma quando lei tacque abbassò gli occhi e fissò lo sguardo sulla piccola pipa spenta che cullava in grembo.

    Era un ometto gracile e piuttosto basso, con gli arti così leggeri da sembrare trasparenti. I capelli bianchi e ormai radi si ergevano sulla sua testa con la flessuosità molle delle tife di palude, rimanendo in piedi, separati dalla superficie rugosa della cute, e facendolo assomigliare ad un innocuo demone dei laghi; ma le sue iridi scure erano penetranti come quelle di un rapace e si aprivano improvvise, voragini senza fine incastonate in quella pelle grigiastra e stanca che tirava verso il basso, del tutto ricoperta dal marchio di una cicatrice antica di cui non le avrebbe mai parlato.

    Theiryn non aveva mai visto Ghard fumare, neppure una volta, eppure non riusciva a ricordarlo senza quella piccola pipa di legno chiaro attaccata alla cintura.

    -Allora?- si azzardò a chiedere gettandogli uno sguardo in tralice.

    Ghard sospirò, un suono profondo come il respiro del mondo intero, poi si tese leggermente verso di lei, rischiando di far cadere la coperta. La bambina scattò per impedirlo e si crogiolò per qualche istante nel suo sorriso grato.

    -Non so cosa dirti, marmocchia. Di sogni strani ne ho fatti parecchi, ma se passassi le mie giornate a raccontarli ai vecchi come me non farei che annoiarli.- il suo volto rugoso si contrasse quando l'uomo aggrottò un sopracciglio cespuglioso per sottolineare l'allusione -Ormai sei grande, quindi smetti di pensare alla superstizione e renditi conto che il mondo gira.-

    -Gira?-

    -Sì, anche se per ora non ci crede nessuno. E un giorno te lo dimostrerò, ma non devi dirlo a tua madre.-

    -Sarà… Lo sai che a Veria non dico mai niente, te l’ho promesso- borbottò lei poco convinta -Ma credo che qualcuno se ne sarebbe accorto. Ad esempio, Nyenen.-

    -Non capirò mai la tua ossessione. Avere un eroe preferito è legittimo, marmocchia, ma per gli Antichi Dei! Che sia almeno un eroe di cui si sa qualcosa!-

    Le iridi della bambina bruciavano di un fuoco sfrontato ed incredibilmente vivido.

    -Un giorno sarò proprio come lei. Lo giuro. Così potrai scrivere storie anche su di me e Cyel ti aiuterà, quando sarà diventato bravo.-

    -Se stai aspettando che Cyel diventi bravo allora potresti anche farcela. Convincilo che tramonto ed a-tramonto non fanno rima e forse ce la faremo prima che io crepi.-

    -Promesso.- le labbra di Theiryn si piegarono in un sorriso divertito -Ma non garantisco niente.-

    -Non sarebbe ora di tornare a casa, per te?-

    -No. Non voglio tornare a casa.-

    La sua voce risuonò prepotente nell'aria polverosa della stanza, un'ottava più alta rispetto a quanto volesse, e Ghard non replicò. Vi aveva intravisto le venature sottili della sua disperazione, aveva riconosciuto i germi della paura nella piega della sue labbra?

    Non voglio tornare a casa...

    -Molto bene allora. Vorrà dire che ti racconterò di Nyenen.- sospirò il vecchio -Ma quello che ti dirò...-

    -Non deve uscire da questa stanza. Non devo dirlo a Veria. Non devo dirlo neanche a Cyel.-

    -Vedo che qualcosa hai finito per imparare, marmocchia.- Ghard scoppiò in una risata piena di sole -La leggenda dice che Nyenen non è un semplice eroe. Appartiene ad un ordine antico quanto Shadea, quello degli Eroi Pilastro, ed ha ottenuto la sua nomina dopo la grande battaglia alle porte di Eondra. Fu versato molto sangue, quel giorno: fu lei a guidare l’esercito degli elfi contro l’invasione degli Stregoni Neri.-

    -Che cos’è un Eroe Pilastro?- lo interruppe Theiryn con gli occhi che scintillavano -Suona… meraviglioso.-

    Ghard si abbandonò nuovamente allo schienale della poltrona con un sospiro interminabile, come se la calma che stava cercando di ritrovare fosse un pennello per dipingere immagini nuove. Poi chiuse gli occhi.

    -Non è meraviglioso e non è divertente. Ti ho detto che questa leggenda è antica quanto me e te messi insieme, ed anche di più. L’Ordine degli Eroi Pilastro è formato da cinque persone e fu il più potente degli Antichi Dei, Amerauth, a fondarlo perché vegliasse su questo mondo mentre lui era impegnato nella lotta eterna contro il suo avversario, Bashul na’Math.-

    -E dopo tutto questo tempo sono ancora vivi?-

    Il cantastorie sorrise a mezza bocca, senza socchiudere le palpebre come faceva sempre.

    -Quando un Eroe Pilastro sente avvicinarsi la morte, allora nomina il suo successore. Se non riesce a farlo il suo successore viene nominato da quelli che rimangono. Chiaro? Ed essere eroi non significa soltanto sconfiggere eserciti. Non sono persone scelte per caso: di loro si dice che possono segnare il destino di tutti con le loro scelte. Un peso enorme da portare. Difficile da capire.-

    -E invece come si fa a capire quando uno è un Eroe Pilastro?-

    -Per gli Dei, marmocchia… Si capisce e basta. Ma se sei in dubbio, allora guarda alle orecchie: tutti gli Eroi Pilastro devono portare i Cinque Cerchi rituali, è tradizione.-

    -Cinque come loro?-

    -Cinque. Come loro.- confermò il vecchio annuendo con il capo -E ognuno ha un ruolo preciso. Fai attenzione a questa cosa, vedi, quando dico che uno degli Eroi Pilastro è l’Arciere non intendo dire che tira bene con l’arco: è qualcosa di più profondo, è il modo in cui quella persona si avvicina alla vita.-

    -Non sto capendo niente.- ammise la bambina con uno sbuffo di protesta che gli strappò un sorriso.

    -L'Arciere risolve i problemi allontanandosi per cercare una soluzione a distanza, e se non la trova li lascia perdere. Ora ti è più chiaro?-

    Theiryn annuì con un cenno esitante del capo. -E gli altri?-

    -L'Arciere, il Cavaliere, il Mago, il Bardo e lo Stratega, il più importante di tutti.-

    -E si è Eroi Pilastro per sempre?-

    -Per sempre.- confermò solennemente Ghard -Anche dopo la morte.-

    -E allora ho deciso.- concluse Theiryn con un ampio sorriso -Io diventerò un Eroe Pilastro e poi tu scriverai delle ballate su di me.-

    Non ottenne risposta. Gli occhi del cantastorie si erano spalancati di colpo, senza che lui abbassasse lo sguardo su di lei, e si erano fissati sul vuoto del soffitto.

    -Ho detto che diventerò un Eroe Pilastro come Nyenen, e che poi scriverai delle ballate su di me.- ripeté la bambina con voce ferma. Solo in quel momento Ghard la guardò, e nello sconvolgimento del suo sguardo vide il proprio riflesso di creaturina dalle braccia esili come zampe di ragno e dal volto ingombro di quelle iridi magnetiche in cui si scuoteva ruggendo l'oceano e dove si rimescolavano i suoi sogni folli.

    Il cantastorie non rise.

    Lo vide prendere un respiro profondo nel tentativo di mascherare il turbamento che le sue parole gli avevano scatenato nel cuore, ma d’istinto seppe di aver intuito più di quanto l'uomo non volesse e seppe anche che lui l'aveva capito.

    -Sarebbe un bel guaio averti come Eroe Pilastro in giro per Shadea, la Veggente non voglia!-

    -Qualcuno dovrà pur darti da lavorare...-

    -E allora scommettiamo. Se riuscirai ad entrare in un Ordine che non esiste allora io diventerò il tuo cantastorie personale, ma in caso contrario dovrai andare a prepararmi un infuso di tiglio. Di là. È nella scatola di legno.-

    Theiryn si alzò borbottando e sparì nella minuscola cucina della catapecchia. Il vecchio la sentì armeggiare con il bollitore di coccio e grugnire al momento di accendere il fuoco del caminetto, e non riuscì a smettere di sorridere.

    -Muoviti. Non voglio morire mentre ti aspetto.-

    La bambina masticò qualche parola che poco s'addiceva alla sua voce ancora troppo delicata ed alla rigida educazione di una famiglia benestante, per poi tornare ad accoccolarsi di fronte a lui. L’uomo le gettò uno sguardo vagamente preoccupato e Theiryn realizzò di non avere la stoffa dell’attrice.

    -Non dovresti fare battute del genere.- ammise dopo un attimo di esitazione -Non è… bello.-

    -Credi che l’idea di morire mi piaccia, marmocchia?-

    -No, ma… Ma Veria non voleva che venissi, ieri. Mi ha detto una cosa...-

    -Quand’è che imparerai a chiamare tua madre per quello che è ?- la interruppe Ghard sollevando le spalle in un gesto disperato che non riuscì a mascherare il suo sorriso soddisfatto. Theiryn scrollò il capo e abbassò lo sguardo. Le sue mani, abbandonate in grembo, erano mostruosamente piccole.

    -Veria mi ha detto che hai il Morbo Bianco. Mi ha detto che morirai presto e che… che segneranno la tua porta con la vernice.-

    -E se anche fosse?-

    -Ghard!- scattò la bambina risollevando gli occhi in uno scatto di rabbia -Hai il Morbo Bianco?-

    -Marmocchia, calmati.-

    -Veria mi ha detto che chi ha il Morbo Bianco diventa pallido, inizia a tremare, gli esce sangue dalla bocca e poi si ferma e non si muove più fino a quando muore!-

    -E ti sembra che io stia sputando sangue?-

    Ghard tamburellava con le dita sui braccioli della sedia a dondolo, come incapace di prenderla sul serio. Theiryn inghiottì rabbia e preoccupazione in un unico, amaro boccone. Non voleva sembrare ridicola: non di fronte a lui.

    -Il Morbo Bianco è la rabbia di Ejakim, il Dio delle Nuvole che ancora spera di sposare la Terra, Jorden, da cui sarà sempre diviso. Perché credi che il Morbo Bianco sia comparso quando tutti hanno dimenticato gli Antichi Dei sugli altari di Qarat, che ancora puzzano di vernice fresca? Loro vedono attraverso il tempo e le anime, Theiryn. Sanno bene dove sta la mia fede, e vedono che non scendo in piazza il giorno della Qarat Fanna.-

    -Credevo rimanessi in casa perché non riesci a camminare...-

    -E adesso sai la verità. Ma non devi dirla ad anima viva, né a Veria e né...-

    -Né a Cyel.- la bambina si alzò in piedi, lisciandosi inutilmente la gonna stropicciata e ricoperta di polvere -Ma abbiamo la prova che Qarat esiste. Il suo cuore è ad Iltergend, e batte in mezzo al tempio. Per questo è dio della vita, no?-

    -E questo chi te l’ha detto?-

    -Veria. Dice che...-

    -Veria è mai stata al Tempio delle Porte Battenti?-

    -No...-

    -Ha mai percorso tutte le sale fino a vedere il cuore pulsante di Qarat?-

    -No, soltanto il Sommo Sacerdote può farlo. Ma perché...-

    -Io ho visto i miei Dei. Ma nemmeno questo devi raccontare in giro.-

    -Te lo prometto. Devo andare, Ghard. Veria mi ucciderà.- ammise Theiryn avvicinandosi per dargli un ultimo abbraccio. Ghard l’accolse con un sorriso, fragile come sempre. A volte la bambina temeva che, se avesse stretto soltanto un po’ più forte, le si sarebbe spezzato tra le braccia.

    -Theiryn...-

    -Dimmi.- la bambina reclinò leggermente il capo di lato –C’è ancora qualcosa che devo sapere?-

    -L’hai messa l’acqua nel bollitore, vero? Non come l’ultima volta?-

    Il silenzio che seguì confermò i timori del vecchio che, troppo stanco per trattenersi, scoppiò finalmente a ridere.

    Fece i gradini tarlati a due a due, saltellando con l’allegria che le lasciava addosso quella vecchia casa assieme alla polvere e all’odore di pergamene consumate. Non aveva voglia né fretta di lasciarla, ma allo stesso tempo sapeva che Ghard non aveva voglia né fretta di parlare ancora.

    A volte le sembrava che l'energia del cantastorie stesse cercando disperatamente di evadere da quel corpo così sottile e di appigliarsi a quanto di più vivo aveva vicino. Era triste e naturale allo stesso tempo, Theiryn lo capiva. Per questo sarebbe tornata anche l'indomani, e il giorno dopo ancora, e l'avrebbe costretto a raccontarle qualcosa di nuovo senza badare alla sua stanchezza.

    Lo volevano tutti e due. Ne avevano bisogno tutti e due.

    Raggiunse la vecchia porta scricchiolante a passo lento e rimase a fissarla per qualche secondo.

    Stava per compiere il balzo.

    Sarebbe stato lo stesso, come ogni volta: passata quella linea sottile che la divideva dalle strade di Threa avrebbe smesso di sentirsi al sicuro. Ci sarebbe stato qualcosa di violento là fuori, c’era sempre, nell'aria, nel grigiore; ma scrollò il capo e si costrinse ad uscire con calma, le mani affondate nelle tasche assieme al pacchettino che le sembrava ora così pesante.

    Aveva promesso di non farlo vedere a nessuno, ma già sapeva che quando Ghard le faceva raccomandazioni di quel tipo lasciava sempre una scappatoia sottile, una finestra di libertà che portava un solo nome: Cyel.

    Avrebbe aperto il pacchetto con Cyel.

    La via si srotolò sotto ai suoi piccoli piedi, impolverata e monotona come ogni giorno, sempre la stessa melodia pronta a ripetersi nei passi disuguali e nelle voci lontane della gente che le scorreva attorno. Impiegò più tempo del solito per ritrovarsi davanti al portone di legno che dava sul cortile del retro e a varcarlo sovrappensiero, lo sguardo fisso al pavimento e la fronte corrugata.

    -Theiryn! Ma dov'era finita? Oggi la Gilda si è riunita qui!-

    La bambina sobbalzò violentemente e d'istinto si irrigidì. La voce di sua madre le faceva sempre quell'effetto. Veria era ferma, in piedi a braccia conserte di fronte a lei, le labbra piegate in un'espressione disgustata.

    -I tuoi capelli! Per Qarat, lo sai che non devi portarli così! Sei uno spettacolo assolutamente sconveniente... Evelien! Evelien, veloce, una spazzola!-

    Theiryn annuì meccanicamente, i denti stretti. La figlia di re Sazareth portava i capelli lunghi e raccolti sulla nuca, e nessuna figlia di famiglia benestante doveva permettersi di fare altrimenti.

    Non c'era nessuna regola scritta, nessun decreto reale che lo stabilisse: semplicemente non si poteva. Sembrava innaturale. Strano.

    Sembrava ciò che Ghard l'aveva scongiurata tante volte di non sembrare.

    Evelien arrivò di corse reggendo un piccolo pettine d'osso e lo porse a Veria, senza dimenticare di lanciarle un'occhiata sconsolata cui Theiryn non seppe rispondere se non con un'impercettibile alzata di spalle. Veria la afferrò bruscamente per un braccio e la costrinse ad offrirle il capo, poi prese a pettinarla con una violenza feroce che poteva solo essere figlia della frustrazione di non poter cancellare quello sbaglio dalla sua testa impura.

    -E i tuoi vestiti... Qarat sia lodato. Sembri una stracciona. Spero che non ti abbiano vista in molti, non so davvero che cosa potrebbe pensare la Gilda di tutto questo, la principessa non indosserebbe mai nulla di così sciatto, domani voglio controllare cosa ti sei messa prima che tu esca. E, per Qarat... ingrassata, ecco cosa, sei ingrassata!- la voce della donna si fece acuta, quasi isterica, mentre iniziava ad arricciare metodicamente le lunghe ciocche scure con le sue dita affusolate.

    Theiryn tacque.

    Nello specchio appeso in fondo al corridoio si delineava a tratti incerti la sua sagoma pallida, rachitica, sorretta soltanto da quelle gambe che sembravano fragili come ramoscelli secchi. Odiava quell'immagine.

    -Sei di nuovo andata a rubare dolci in cucina? Quante volte te lo devo dire, è per il tuo bene! Devi guardare alla principessa, ti sembra che abbia il viso tondo come il tuo?-

    -Ed è bionda e ha gli occhi azzurri e non ha lentiggini.- si lasciò sfuggire la bambina in uno scatto di rabbia.

    -In questo non posso farci niente. Stasera non cenerai. Non voglio che alla prossima riunione della Gilda tu faccia sfigurare la nostra famiglia.- tagliò corto Veria in tono tanto freddo che lei non trovò nulla da obiettare. Sentiva le unghie della madre graffiarle la testa mentre tirava indietro i capelli, ciocca a ciocca, fissandoli alla nuca. Improvvisamente, privata del loro morbido peso sulle spalle, si sentì nuda.

    -Cyel è tornato?- chiese cercando di cambiare argomento.

    -No. È ancora all'Educazione. E vorrei farti notare che quando ieri si è trattato di radersi come il principe prima della Qarat Fanna non ha fatto storie.-

    -Non ne sto facendo.-

    -E sarà meglio per te, che Qarat misericordioso mi protegga!-

    La donna finì di acconciarla frettolosamente e senza cura, tanto che quando un ricciolo evase al controllo ferreo delle sue dita esperte e le ricadde lungo la guancia si limitò a fare un cenno ad Evelien perché se ne occupasse lei e andò a chiudersi in camera propria senza più degnarla di uno sguardo.

    Theiryn rimase sola, un'ombra bianca che emergeva a stento nella tenebra dell'ingresso come una lucciola frastornata sul confine della notte.

    Si chiese che cosa avrebbe dovuto fare. Scappare da quelle mura scure e rintanarsi in qualche angolo ad aspettare il ritorno di Cyel, in compagnia di quel riflesso fragile e piatto come l'acqua che si vedeva davanti? Tornare da Ghard? Chiudersi alle spalle la porta della sua stanza fingendo di possederne la chiave?

    La verità era semplice. Non c'erano posti in cui nascondersi per sentirsi al sicuro, non lì.

    -Signorina Theiryn?-

    In quel sussurro riconobbe subito il timbro caldo della voce di Evelien. La donna fece capolino dalla porta della cucina e le fece un cenno con la mano, non senza dimenticare di guardarsi attorno prima. Il cuore di Theiryn sussultò di gioia e la bambina si affrettò a raggiungere la cuoca.

    Nella fragile protezione che i muri fumosi del locale potevano offrire, Eveline le consegnò un piccolo fagotto delle dimensioni di un pugno stretto in un panno di lino bianco.

    -Sono biscotti?- chiese lei tastandone la consistenza. Al tacito cenno d'assenso di Evelien le si illuminarono gli occhi.

    -Stasera forse riesco a portarti qualcos'altro, signorina Theiryn. Come al solito, due colpi.-

    -Evelien, grazie...-

    -Tu pensa a non scomparire, signorina Theiryn.- commentò saggiamente la donna. Si guardarono per un lungo attimo, gli occhi grandi della bambina fissi in quelli profondi e scuri della cuoca; poi Evelien le appoggiò una mano sulla spalla e sorrise, un sorriso fugace, rubato come la strofa di una vecchia canzone che Ghard si era sempre rifiutato di cantarle per intero. D'improvviso avvertì il morso della malinconia sotterranea che annidata in fondo alla sua anima, la sentì risalire a contaminare i suoi pensieri strappando loro ogni velo che la sua mente aveva cercato invano di porre tra lei e la realtà che aveva attorno.

    Non seppe risponderle, smarrita in quella casa troppo grande e troppo vuota, in balia di quel mondo troppo grande e troppo pieno. Semplicemente uscì dalla cucina fumosa abbandonando l'abbraccio alla cannella di Evelien e salì le scale con la calma finta di chi ha paura. Quando la porta della sua stanza si chiuse alle sue spalle non si sentì al sicuro, al contrario; il rumore secco del legno sul legno le ricordò quello del coperchio di una bara che si chiudeva inesorabile sulla sua infanzia, quello del cancello di una gabbia che aveva preso a costruirsi da sola e che non sarebbe bastata a tenerla per sempre lontano da ciò che la spaventava.

    Si arrampicò sull'ampio davanzale della finestra, che dava su una finestra della casa di fronte del tutto simile alla sua, e si sedette accoccolandosi su sé stessa con la schiena contro il telaio ligneo. Da lì avrebbe potuto alzarsi in piedi e, aiutandosi con la grondaia di ghisa che correva proprio lì accanto, raggiungere il tetto.

    Come tutti gli edifici di Threa anche quello aveva un tetto piatto dal profilo dolce, quasi morbido, che non aveva nulla di squadrato ma che non era nemmeno appuntito. Nei libri di Ghard aveva visto immagini delle case di Iltergend con i loro tetti appuntiti e ricoperti di tegole come le gonne a pieghe di una vecchia signora; ma per raggiungere Iltergend bisognava percorrere tutta quanta la Strada del Re, e Threa di tetti acuti non ne aveva bisogno. Forse rannicchiarsi in quello spazio soltanto suo l'avrebbe aiutata a sentirsi meglio, forse da lì sarebbe riuscita a vedere Cyel mentre rientrava a testa bassa dall'Educazione che a lei era preclusa, tuttavia non si mosse.

    Rimase con le ginocchia raccolte sotto il mento, gli occhi fissi su quel cielo splendido e troppo pulito, troppo estraneo. Troppo lontano da lì.

    UN BAMBINO

    Nessuno se n’era accorto, quando se n’era andato. Nessuno se ne accorgeva mai. In fondo, quando Ghard aveva fatto di testa sua raccontando quelle storie così strane non era stato l’unico a scegliere di uscire dalla catapecchia scricchiolante dove l’aria aveva l’odore delle cose vecchie.

    Un uomo lo urtò malamente, facendolo barcollare all'indietro, ma non alzò lo sguardo.

    -Piccolo figlio di puttana....- schioccò nell'aria la voce pesante di un ubriaco, investendolo con l'odore dolciastro dell'alcol. Non alzò lo sguardo e non replicò nemmeno, deviando rapidamente la propria traiettoria.

    Se non fosse stato per i discreti fiori rossi e bianchi che occhieggiavano dalle finestre non avrebbe saputo riconoscere casa sua: in quella parte della città gli edifici erano tutti uguali, tutti progettati perché i ricchi mercanti benestanti che vi abitavano potessero sentirsi importanti senza esserlo davvero.

    Prima di entrare gettò un rapido sguardo alle finestre della stanza al piano terra. Erano aperte, constatò con il consueto sollievo, e questo poteva solo significare che sua madre non stava lavorando. Poteva tornare a casa.

    -Léw, tesoro. Sei tu?- lo accolse immediatamente la voce calda e roca della donna, ancora prima della penombra fresca dell'ingresso, ancora prima del profumo di pane appena sfornato. Sua madre gli venne incontro con un sorriso ampio come il sole e come al solito impiegò qualche istante a riprendersi dalla vista della sua bellezza. Cosa importava se qualche dente si era annerito con il tempo e se la sua fronte era solcata da rughe troppo profonde che poco si addicevano alla sua gioventù sciupata?

    -Sei stato dal cantastorie? Sei tornato presto! Non ti sei divertito? Vi ha raccontato qualcosa di bello?- senza smettere di cinguettare allegramente lo fece sedere, accarezzandogli i capelli con la punta delle dita -Guarda un po' cosa ti ho appena fatto. Anzi no, chiudi gli occhi, è una sorpresa!-

    Léw ubbidì docilmente, mentre il peso che per tutta la mattinata gli aveva schiacciato lo stomaco si affrettava ad evaporare. La sua mente era sempre stata veloce, e per questo imprevedibile: quando si trovò a visualizzare sotto le palpebre l'immagine della bambina dagli occhi grandi che da Ghard aveva alzato la mano mettendolo in quella brutta situazione non seppe spiegarsene il motivo.

    La vedeva spesso tornare a casa attraversando la piazza e sentiva nel suono riluttante dei suoi passi un bisogno di rimanere libera da quelle pareti in cui doveva rinchiudersi come in una prigione, una richiesta muta di aiuto che non riusciva ad attraversare il suo cipiglio aggressivo.

    Non doveva aver mai pensato di stare tornando a casa.

    A volte gli faceva pena.

    -Puoi aprire gli occhi adesso.-

    Il bambino lo fece. La prima cosa che notò fu lo sguardo pallido della donna inginocchiata di fronte a lui, illuminato da un sorriso pieno di aspettative; la seconda il vassoio di legno che lei gli aveva messo sulle ginocchia, dove una giaceva una pila di grumi bruciacchiati che dovevano essere stati biscotti.

    -Non sono molto brava a calcolare i tempi di cottura.- ammise lei con una risata imbarazzata -Ma ho pensato che non sono tutti da buttare via. Prometti di dirmi la verità, quando li avrai assaggiati?-

    -Te lo prometto.-

    -Se mentirai, stanotte verranno i nani a portarti con loro al centro di Shadea.-

    -Mamma, i nani non esistono.-

    -Sei sempre il solito saputello...-

    -Ce lo hanno detto all’Educazione. I nani sono estinti da tanto tempo.-

    -E allora perché un giorno un viaggiatore mi ha detto che lontano dall’Impero, sul Dorlin Shadeaniad, ce n’è addirittura una città tutta piena? Dûna Hireed, così l’ha chiamata- lo smentì la donna mentre le sue labbra troppo rosse si piegavano verso l’alto e nelle sue guance si scavavano due fossette allegre. Léw sorrise di rimando e scelse il più nero di tutti, addentandolo con dolce coraggio.

    -Sono buoni.-

    -Non è vero. Fai attenzione ai nani, stanotte.- la donna gli schioccò un bacio sulla fronte e corse ad appoggiare il vassoio sul vecchio tavolo scrostato –Ma te li porto in camera lo stesso. Stasera sono impegnata. Verrà qui il capo del Distretto.-

    Il buio scese in quelle parole e nel cuore rassegnato del bambino.

    -Grazie.-

    -No, Léw.- il volto di sua madre parve brillare nella penombra tranquilla, e la sua voce curvarsi sotto il peso di un’improvvisa, tenace disperazione. Gli gettò ancora uno sguardo stranamente umido, prima di voltarsi e scomparire nella piccola cucina fumosa. –Grazie a te.-

    Il suono della porta che si chiudeva con un colpo secco alle sue spalle lo fece trasalire, un frammento di normalità inattesa che non era mai riuscito a fare sua.

    In quel momento, lo sapeva, assomigliava alla bambina dagli occhi grandi: chiuso in quelle quattro mura, un vassoio di biscotti appoggiato sul davanzale e il cuore pesante, nessuno spiraglio d'aria che gli consentisse di volare via perché dabbasso sua madre stava iniziando a lavorare insieme al tramonto e alla notte troppo silenziosa. Non poteva dormire.

    Ci sarebbero state lacrime da asciugare, ci sarebbero stati lividi da coprire con l'impronta lieve di un bacio su quella pelle giovane che pure stava iniziando ad invecchiare troppo in fretta. C'erano sempre.

    Rimase fermo nella penombra, un guscio vuoto e privo di ogni desiderio. A quell'ora i suoi sogni gli sembravano sempre così infantili, le sue aspirazioni nulla più che desideri vuoti.

    Prese un respiro profondo.

    Di fronte a lui il riflesso di un bambino lo fissava dalla finestra chiusa: una testa color miele perennemente arruffata, gli occhi resi piccoli dalle occhiaie che scavavano trincee nerastre nel suo pallore di spettro; occhi vecchi, dove il brillio delle pupille andava tramontando con il sole; occhi dove il respiro delle illusioni andava facendosi fioco, spazzato via dalla violenza di quella realtà che non potevano allontanare.

    Quello era Lléowin, figlio di nessuno? Quella lucciola frastornata sul confine della notte?

    Appoggiò le mani sulle proprie guance magre, facendole scorrere verso l'alto, verso le linee confuse delle ciglia e poi ancora più su, tra le ciocche disordinate che gli nascondevano la fronte. Quelli i suoi lineamenti, quello il suo essere trasparente, quella sua debole volontà di esistere?

    Le sue dita indugiarono ancora un momento sulle palpebre chiuse, accarezzando l'idea di strappare via quegli occhi e di lasciarli orfani, finalmente puniti per l'orrore che lo costringevano a sopportare ogni giorno.

    Quello Lléowin, che il giorno successivo avrebbe ripreso ad andare all'Educazione per cui sua madre era stata costretta ad implorare i burocrati e che si sarebbe, inevitabilmente, perso lungo la strada?

    Non ebbe risposta.

    Le sue braccia ricaddero lungo i fianchi, esauste, e finalmente i suoi pensieri tacquero.

    Ora

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