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La prima luna storta
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E-book133 pagine1 ora

La prima luna storta

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Info su questo ebook

"Avere la luna storta" non è una colpa, di certo è una sfida alla quale non si sfugge. Lo sanno bene i protagonisti dei racconti presenti in questo volume, storie di vite ordinarie che impattano sui loro destini, a volte dolci, a volte amari. Si comincia con le difficoltà di comunicare in un agguerrito clima familiare-natalizio ("Vediamo chi è più povero"), si passa per la storia di un bambino che tenta misteriosamente di annegare a tutti i costi ("La prima luna storta") e il clamoroso hangover di tre disoccupati ("Spiegare una situazione inspiegabile a una persona improbabile"), fino a toccare il tema delle delusioni sentimentali ("Punto e a capo"; "La felicità bussa tre volte"; "Girare il mondo non ti salverà") e le inevitabili, disastrose conseguenze che esse comportano. In "Colpi di sfortuna", però, l'amore riappare in una componente imprevedibile, mischiandosi al magico mondo del cinema, dove il soprannaturale spunta lieve, come se l'intangibile facesse necessariamente parte, nostro malgrado, delle vite di ognuno di noi.
LinguaItaliano
Data di uscita13 gen 2020
ISBN9788893331715
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    Anteprima del libro

    La prima luna storta - Giovanni Algieri

    © Alter Ego s.r.l., Viterbo, 2020

    Alter Ego Edizioni

    Collana: Specchi

    I edizione digitale: gennaio 2020

    ISBN: 978-88-9333-171-5

    Progetto grafico: Luca Verduchi

    Progetto ebook: Luca Verduchi

    www.alteregoedizioni.it

    Al (piccolo) Duccio

    "Non si deve piangere sulle cose perdute,

    semmai su quelle non trovate".

    (Giorgio Gaber)

    Vediamo chi è più povero

    Una cavia peruviana in arrivo dal Molise.

    Già per questo motivo avrei dovuto rifiutare.

    E invece, fregato.

    Mi sono fatto abbindolare da quel teppista di mio cugino.

    Una cavia peruviana: ecco cosa aspettiamo alle 21.15 della vigilia di Natale, accostati in una piazzola dello svincolo autostradale.

    Fissando timidi fiocchi di neve poggiarsi sul parabrezza, attendiamo con un filo di nervosismo un tizio che dovrebbe consegnarci quello che, secondo mio cugino, è l’unico regalo in grado di conquistare Priscilla.

    Chi sia Priscilla non è dato saperlo.

    Quando gliel’ho chiesto mi ha liquidato con una sorta di frase-indizio in pieno stile cruciverba: sedicenne vegana dal ciuffo blu che a ricreazione raccoglie firme per Greenpeace. Stop.

    Poi ha acceso la radio e ha iniziato a cambiare compulsivamente le stazioni, senza mai fermarsi.

    Ora siamo in silenzio. Non ci guardiamo in faccia da un po’.

    Lui è sempre più agitato e io non faccio altre domande.

    Dice che arriverà da un momento all’altro, il tizio del Molise.

    E io non lo so, nemmeno lo voglio sapere per quale paranormale motivo qualche cervello deviato abbia deciso di creare un business di consegne a domicilio di cavie peruviane, perché adesso il problema non è questo, tantomeno la neve che comincia ad attecchire ovunque.

    Il problema sono le mamme. Mi sembra il caso di farlo presente:

    «Se tra mezz’ora non siamo a casa ci sgozzano vivi e ci friggono».

    «Eccolo! Eccolo!» urla d’un tratto Michelino, additando un furgoncino color senape.

    Si scaraventa fuori dalla macchina, lascia lo sportello spalancato e comincia a sbracciarsi in mezzo al bivio dell’autostrada.

    Un folle. Un vero folle innamorato. Del resto, ha sedici anni.

    Chi, a quell’età, non si è mai sbracciato sotto la neve come un forsennato a un bivio autostradale buio e desolato alle 21.22 della vigilia di Natale per acquistare una cavia peruviana?

    Michelino ticchetta sul cofano ripetutamente. Non riesce ad aprirlo. Spengo il motore e glielo apro da dentro.

    «Prova adesso» gli dico.

    E mentre il mio collo sta per atrofizzarsi e lui armeggia qualcosa nel bagagliaio con una calma che neanche un giocatore di scacchi, penso ai parenti famelici che, con i gomiti sul tavolo e l’acquolina in bocca, ci staranno maledicendo da almeno mezz’ora.

    Già li vedo. Lì. Pronti. Qualcuno propone di iniziare anche senza noi e qualcun altro – chissà chi, poi – chiede di pazientare almeno per altri dieci minuti.

    Michelino rientra in macchina e non dice niente. Non mi guarda.

    Sfrega le mani e ci soffia dentro. Sbatte le ginocchia freneticamente.

    «Be’?» gli faccio io.

    «Parti, parti» risponde lui.

    «E non me la fai manco vedere?» gli chiedo.

    «Una parrucca di Trump con gli occhi di Peppa Pig» afferma lui.

    Metto in moto pensando all’inquietante immagine della ragazzina dal ciuffo blu che scarta un pacco e ne estrae un parrucchino che respira. Penso a lei che lo accarezza. Lo porta a spasso. Gli fa il bagnetto. Penso a lei mentre gli asciuga il pelo e poi glielo fona. Lo mette a dormire accanto a lei. Gli dà il bacetto della buonanotte.

    Metto la prima e guardo l’orario: se tutto va bene, saremo da Michelino prima delle dieci. Quest’anno il cenone è a casa sua.

    Mia madre si è trasferita lì da circa cinque giorni per soffriggere ogni cosa che gli passa davanti e noi siamo in ritardo e malvestiti.

    «La conquisto. La conquisto» sussurra tra i denti mio cugino, fissando la strada deserta con occhi agguerriti. Poi si volta verso di me con uno scatto improvviso e domanda: «E tu? Sei pronto a farlo?».

    «Farlo… cosa?».

    «Ma come? Avevi detto che stasera lo avresti detto ai tuoi…».

    «Vediamo come si mette» taglio corto io, aumentando il volume della radio.

    Alle 21.58 siamo davanti casa.

    Mentre scendiamo dall’auto per catapultarci verso il cancello, di colpo mi fermo e attendo di incrociare lo sguardo di mio cugino.

    «Dimentichi qualcosa nel bagagliaio, forse?!».

    Lui di colpo mi strappa le chiavi dalla mano, si volta e mi fa segno di entrare.

    «Nascondo la gabbia di sopra e vi raggiungo» mi fa sgusciando via.

    Mi avvicino alla porta d’ingresso e tiro un lungo sospiro.

    Mi dico che ce la posso fare. Afferro la maniglia. Apro.

    Il colpo d’occhio è notevole: l’intera stirpe entra in un solo sguardo.

    Per la precisione, la mia famiglia è composta da quattordici persone e trentanove tablet.

    Della tribù dei cugini, i più grandi siamo io e Michelino. Dopo di noi ci sono mio fratello Carlo e poi Luna e Mattia di sette anni, e via dicendo gli altri piccoli che in media possiedono, ognuno, dalle cinque alle otto mail personali, dai tre ai quattro dispositivi e innumerevoli follower su impronunciabili social che in Italia non esistono ancora ma che loro utilizzano in anteprima nazionale.

    Appena entro li trovo proprio come li avevo immaginati poco prima: tutti schierati nelle rispettive postazioni a ostentare smaglianti sorrisi che sembrano dire bentornato ma che in realtà significano anche se sei il cugino più grande, resti il solito minchione.

    Quando mia madre, di spalle, riconosce il suono della mia voce, inizia a servire il pane in tavola e, come un automa, quando mi passa accanto, senza guardarmi in faccia sussurra:

    «Stavo per chiamare i carabinieri ma non per cercarvi, per denunciarvi».

    Che in realtà risulta essere una minaccia ben al di sotto della soglia a codice rosso se consideriamo che, per esempio, da piccolo, quando non volevo mangiare o dormire, anziché utilizzare la classica intimidazione dell’uomo nero o della strega cattiva, minacciava di scappare per sempre in Nigeria per fare da mamma a cinquanta bambini più bravi e belli di me.

    Un sogno che secondo me cova tuttora.

    Per fortuna, a compensare questo perenne senso di colpa che grava sulle mie spalle da sempre, c’è mio padre che, fissandomi da lontano, molleggia su e giù il mento fino ad assicurarsi di incrociare il mio sguardo per comunicarmi che non ci siamo, caro il mio figlio, proprio non ci siamo.

    Appena Michelino fa il suo ingresso in sala, a smorzare gli animi ci pensa zia Jessica che fa partire un fragoroso applauso di apertura cena al quale i commensali si accodano con fervore.

    Mio cugino e io paralizziamo il sorriso e scorriamo lungo la tavolata sfiorando le mani di tutti, come fossimo delle rockstar, per poi giungere ai nostri rispettivi posti.

    Faccio finta di nulla. Ho un’espressione da demente. Cerco di ambientarmi per sondare il terreno, per capire se davvero, questa, è la serata in cui mi libererò del più grande fardello della mia giovane vita.

    Nella lunga tavola a forma di elle, il posto che mi è stato assegnato è quello nell’angolo in cui la L si flette, nonché il posto che divide l’ala dei grandi da quella dei piccoli.

    Per distogliermi dal centro dell’attenzione, comincio a interloquire proprio dal lato di quest’ultimi.

    I cuginetti seduti accanto a me sono sei e, in questo preciso istante, nessuno dei loro sguardi si sta incrociando.

    E nessuno pare intenzionato a farlo.

    Così mi impiccio per stuzzicarli, per svegliarli. Ma ottengo ben poco. Quasi nulla.

    A Luna e Mattia fa piacere che io spii i loro display, ma ciò non implica che loro siano disposti a dialogare con me.

    Gli altri piccoli, invece, non appena mi avvicino si indispettiscono, non spiccicano parola, corrugano la fronte e nascondono i dispositivi sotto il tavolo per non rendermi partecipe. E io sono spiazzato. Deluso. Non so davvero come fare per trattenere queste forti ondate di pateticità che sento di emanare nel rimproverarli senza ricevere un briciolo di reazione.

    Mentre le donne di casa iniziano a imbastire la tavola di piatti caldi, sfodero una paternale vociona da orco malvagio con la quale ordino ai bimbi di spegnere i tablet perché quando si mangia non si gioca: mi ignorano totalmente. Glielo ripeto. Mi ignorano ancora.

    Mi appello al buonsenso di Luna, in teoria la più grande del gruppo, ed ecco che, dalla regia, sento partire una sonora e crivellante pernacchia. Una di quelle fatte bene, nel momento giusto, che ti fanno sentire un perdente.

    Perciò taccio. Ho fatto il mio dovere, e anche oltre.

    Per rivederli tutti insieme probabilmente dovrò aspettare un anno.

    Mi piacerebbe sapere cosa fanno a scuola, cosa li fa ridere e cosa li fa spaventare, mi piacerebbe sapere quali cartoni animati guardano e che soprannomi danno alle maestre, malgrado ciò il massimo esito che riesco a raggranellare è un invito a scaricare MyCountry, un’app attraverso la

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