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La Donna di Susa
La Donna di Susa
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E-book172 pagine2 ore

La Donna di Susa

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Pigro, demodé, vegano ma non troppo (un paradosso per un calabrese), il suo massimo sforzo fisico è la digitazione sulla tastiera del computer e lo spoglio di un libro giallo. Eppure Luca Fazio svolge bene il suo lavoro da cronista di nera, lo fa con passione e dedizione, a patto che i tempi restino quelli letargici diElpìde. Un’accelerazione nella sua vita sarebbe devastante.
Ma il delitto perpetrato nel cimitero della cittadina sconvolge questo ordine sonnecchiante, costringendo Luca a interessarsi alla soluzione del caso, suo malgrado.
Le indomite e fallibili paranoie di cui è vittima lo porteranno a essere inghiottito dai contorni della vicenda, spingendolo a elaborare decine di ipotesi nella sua mente in perenne movimento e in errore costante.
Fazio subirà se stesso, ne sarà vittima, fino all’inaspettata soluzione finale.
Sullo sfondo diversi personaggi, spruzzate di folclore calabro e mediterraneo, capaci di dare vita a un quadro d’insieme bizzarro e divertente ma, allo stesso tempo, realistico e fatalista.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mar 2016
ISBN9788868224028
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    Anteprima del libro

    La Donna di Susa - Alessandro Stella

    mancato

    I

    «Sto andando al cimitero, forse è meglio se mi raggiungi».

    Il successivo mutismo del telefonino mi fa rilevare la sconsiderata accelerazione del muscolo cardiaco.

    Prendo fiato, mi concentro sui battiti, cresciuti fino a diventare un subwoofer da rave party, cercando vanamente di non farmi travolgere. Tracanno di botto tutto il caffè d’orzo biologico servitomi da Nello e corro via, raggiunto dall’invito del barista a omaggiare il brigante Manilonga, sepolto a pochi passi dalla mia meta.

    Avvampato dalla bevanda scura e dai trentuno gradi che mi si appiccicano addosso sotto forma di minuscole goccioline, mi scontro con uno dei carabinieri che affollano il locale alle sei del mattino, il momento del cambio turno, e mi precipito fuori dal Brigante senza neppure scusarmi, con un solo obiettivo nel mio cervello trafficato: raggiungere la fonte di quel suono costante e ondulato che per me è una sinfonia pucciniana, ma che è classificato dai soggetti privi di turbe psichiche come sirena dei Carabinieri.

    Detta così, potrei benissimo essere vestito di nero, gli occhi coperti da grandi lenti scure e una leggera barbetta che mi allampana ulteriormente il viso già scavato: il perfetto iettatore, da manuale pirandelliano.

    In realtà, niente di quanto elencato mi descrive per ciò che sono, a parte la barbetta incolta, il viso allampanato e gli occhiali scuri.

    Infatti, odio vestirmi di nero ma, soprattutto, odio ascoltare il suono di una sirena senza conoscerne il motivo. Sarà una deformazione professionale, sarà il ricordo del mio defunto cane Bukowski, impegnato in ululati transilvanici ogni qual volta ne percepiva il suono in lontananza, ma tant’è, ci convivo da sempre, senza essere mai ricorso alle cure di uno specialista, la cui unica specialità sarebbe stata l’emissione compulsiva di illeggibili ricette con nomi di ansiolitici da romanzo fantasy.

    Il mio Prozac in questi casi si chiama Fulvio Coppola, indossa i gradi di capitano dell’Arma, ha il fascino di un attore da fiction e una relazione stabile con il sottoscritto.

    A essere più precisi, sono io ad avere una relazione stabile con lui.

    E mi riferisco a rapporti professionali.

    Il nome Luca Fazio sul display del suo cellulare ha il medesimo effetto sortito da Furio per la povera Magda, ma in fondo, veramente in fondo, a profondità abissali, mi stima, e l’ha dimostrato pochi minuti fa, invitandomi a seguirlo al cimitero, anche se sul luogo dell’appuntamento ci potrebbe essere qualche sospetto.

    In ogni caso, a giudicare dal tono della voce, rugosa e cosparsa di un marcato accento partenopeo, dovrebbe trattarsi di qualcosa di importante.

    Adesso però il discorso si fa serio: mi tocca fare i conti con Bettina e sono sicuro che troverà il modo di farmi ritardare la corsa, inventandosi chissà quale problema.

    Indispettita dalla mia fretta, sbuffa una prima volta, emettendo una nuvola di fumo che intravedo dallo specchietto retrovisore: è grigio scuro e mi lascia ipotizzare una dipartita molto vicina. Non mi arrendo e provo ancora una volta ad alzare la levetta sotto il freno a mano, cercando di dare più gas. Ancora uno sbuffo ma questa volta è bianco:

    «Habemus machina!», mi esce spontaneo, proiettandomi sulla balconata di San Pietro accanto al Camerlengo.

    Dopo qualche secondo di estasi papale torno a Elpìde e innesto la prima mentre, boccheggiante, abbasso il finestrino a manovella per fare entrare un po’ di ossigeno. L’effetto, però, è quello di un enorme asciugacapelli che mi costringe ad assumere le sembianze di un alano sbavante.

    Accendo lo stereo, avvio nuovamente il cd di Vinicio Capossela e decido di resistere per i due chilometri che mi separano dal cimitero, considerando la scarsità di traffico, visto l’orario. Nel frattempo, il mio cervello sviluppa mille ipotesi sulle cause dell’intervento delle gazzelle:

    «Droga? ‘Ndrangheta? Un’altra rissa al Nibiru?»

    Senza rendermene conto, arrivo in prossimità della meta, parcheggio in piazza Garibaldi, accostandomi al muro di cinta del cimitero, e mi guardo intorno, scorgendo soltanto divise dei Carabinieri e nastri bicolori.

    Non appena mi avvicino alla transenna, un bestione di un metro e novanta per cento chili mi blocca, mettendomi una mano sul petto:

    «Per cortesia, circolare!», mi intima con aria di sufficienza. La camicia azzurra d’ordinanza, attillatissima e chiazzata di sudore, sembra scoppiare sotto il gonfiore di quella massa di muscoli.

    Mi soffermo sulle scarpe, come d’abitudine.

    Scontatissimo: il piantone indossa anfibi in pelle minuziosamente ingrassati, dal che deduco che sia un fanatico collezionista d’armi, osservatore dei doveri militari fino alla fucilazione e, cosa più importante, non molto sveglio, vista la pesante cappa di calore che, a occhio e croce, dovrebbe portare la temperatura dei suoi piedi sopra i cinquanta gradi. L’espressione da primate conferma le mie ipotesi, quindi decido di mettere in atto i precetti gandhiani, optando per la non violenza, quantomeno per i primi trenta secondi. Gli rispondo che ho il permesso di entrare, essendo in contatto con il capitano Coppola, ma lui non ne vuole sapere e si appella all’osservanza di ordini superiori.

    Come volevasi dimostrare.

    «Ti sto proprio dicendo che ho il permesso di un tuo superiore, orango col cervello da ameba!»

    Le mie labbra si schiudono ma il fiato, fortunatamente, non oltrepassa le corde vocali e riesco a reprimerlo a stento. L’istinto di sopravvivenza mi consiglia di prendere tempo e provare a risolvere la questione ancora una volta in stile orientale. Cerco nelle tasche il cellulare per chiamare Fulvio. Dopo aver frugato in ogni anfratto dei jeans sdruciti, capisco di averlo lasciato in auto e di essere munito soltanto del tesserino dell’Ordine dei Giornalisti.

    «Questo può servire?» mi rivolgo al bestione, serrando le mascelle per sfogare l’incazzatura che sta montando.

    In attesa di una risposta accettabile, immagino di sferrare un cazzotto in pieno volto a quell’unoenovantapercento e, naturalmente, anche l’immaginazione mi consiglia di lasciar stare: unoeottantapersettanta non avrebbe sicuramente la meglio sul primate.

    «Le ripeto che ho ordini di non far passare nessuno» mi ribadisce a muso duro, volgendo subito dopo lo sguardo nella direzione opposta a quella in cui mi trovo, visibilmente infastidito dalla mia insistenza.

    Mi passo una mano sulla testa rasata per asciugare il sudore provocato dall’incazzatura e mi avvio verso Bettina. Durante il breve tragitto, però, una voce dall’accento napoletano mi conforta:

    «Luca!»

    Mi volto, sollevato, e mi avvio verso il bestione che, nel frattempo, riceve un cenno di intesa dal capitano. Supero di corsa il nastro bicolore, guardando il primate con aria soddisfatta. Lui prende fiato e gonfia il petto ma si controlla per la presenza del superiore: capitolo rissa chiuso. Spero.

    «Allora, di che si tratta?», chiedo subito a Fulvio, senza pormi il problema di mascherare l’incontenibile curiosità da zitella bigotta. Lui mi risponde inarcando il sopracciglio sinistro:

    «Omicidio».

    «Omicidio? Al cimitero? Almeno non pagano il trasporto!»

    Il mio improbabile humour nero lo lascia impassibile:

    «Barberis Donatella, detta Masha. Non aveva documenti addosso ma in paese la conoscono tutti. Adesso lavorava qui, lontana da occhi indiscreti…» pianta la spiegazione a metà, lasciando alla mia fantasia il seguito.

    «Masha, la prostituta?», domando con la speranza di non aver capito.

    «Sì, la conoscevi?»

    La conferma mi opprime, aprendo le porte per il passaggio di un vento gelido dentro di me:

    «Sì, l’ho intervistata qualche mese fa. Una persona meravigliosa, non ha mai provato vergogna per il lavoro che svolgeva, dimostrandosi sempre sorridente e disponibile con chiunque. Una donna di un’eleganza artistica, quasi pittorica, come ce ne sono poche».

    Scosso dalla notizia, titubo nel compiere il passo successivo, ossia la visione del corpo. Il buonsenso mi consiglia di non farlo, potrei pentirmene. Dopo una lotta farsesca dall’esito scontato sin dal principio, la curiosità ha la meglio:

    «Posso vedere il corpo?»

    «Non adesso, stiamo aspettando i Ris da Messina e l’area deve restare vergine».

    «Va bene, ma almeno dimmi come è morta», lo incalzo.

    «E che ne sacc’io! Tiene la gola tagliata. Forse l’assassino la stava montando da dietro e di colpo…zac!»

    Nella mia mente si materializza la scena appena ascoltata, un brivido mi percorre tutta la spina dorsale, fermandosi dietro la nuca. Provo un leggero solletico all’altezza della gola, proprio dove immagino si sia conficcata la lama. Istintivamente porto una mano al collo, deglutendo un filo di saliva che fatica a scendere nella trachea inaridita:

    «Cazzo! Avete fermato qualcuno?»

    «Totò il custode. Ha scoperto lui il corpo alle cinque e mezza e ci ha chiamati. Anzi, devo andare in caserma per interrogarlo».

    «Ma Totò non sapeva niente di tutto questo?»

    «Mò vediamo come ce la racconta. Sicuramente sapeva tutto ma un vecchio alcolizzato come lui si compra con due birre».

    «E Del Vecchio?»

    «Il Procuratore è partito da Tonnara venti minuti fa, dovrebbe essere qui a momenti».

    Mi assento per qualche secondo, sviluppando sul mio volto un’espressione inebetita. L’occhio mi cade sulle inglesine nere di Fulvio, impeccabilmente pulite ed eleganti. Poi, come se avessi letto l’ispirazione sul decoro a coda di rondine, proseguo con le domande:

    «Ovviamente, l’arma non è stata ritrovata…»

    «Ovviamente. Per il momento non è stato trovato niente ma la zona non è stata battuta. Te l’aggio ditt: stiamo aspettando i Ris».

    «E quindi?» gli domando, guardandolo in una maniera che conosce bene.

    «E quindi fatti bastare queste cose, sono più che sufficienti. Per oggi non ti dico più niente. Mangiati ‘na cocuzza delle tue, e vattinn’a mare!»

    «A mare? Con questo caldo? Lo sai che amo il mare solo al tramonto e odio l’afa. Ho un animo notturno. Notturno e sepolcrale, come Coler…»

    «Sì, sì, comm’a Coleridge, lo sappiamo già…»

    «Va bene, seguirò il tuo consiglio: vado a casa e stendo il pezzo ma tra mezz’ora al massimo sarò di nuovo qui, aspettando che i Ris finiscano il loro lavoro e che sua eccellenza mi conceda di vedere il cadavere».

    «Va’ va’, stamm buon».

    Mi allontano, pensando all’incipit dell’articolo che dovrei scrivere non appena rientro a casa. Prima, però, devo contattare Nicola Barillari, il pitbull, direttore de Il Calabrone, il giornale per cui lavoro da cinque anni.

    Arrivato all’auto e raccolto il cellulare dal sedile passeggero, digito sulla tastiera manuale del mio telefonino cretacico e scopro di non aver risposto a ben sette chiamate. Capisco subito che i prossimi cinque minuti non saranno piacevoli, ma la cosa mi diverte.

    Il numero del direttore appare nuovamente sullo schermo. Stavolta rispondo, ma non faccio neppure in tempo ad aprire bocca che un fiume di parole quasi incomprensibile mi viene vomitato addosso, trasportandomi in una sacrestia durante un rito esorcistico:

    «Ma chi cazzu di fini facisti? Stavi dormendo? È da mezz’ora che ti chiamo! Corri subito al cimitero! Hanno ammazzato una donna!»

    La possessione di Barillari si abbatte sul mio povero orecchio. Non posso fare altro che allontanare il cellulare e aspettare che il demonio lo abbandoni. Provo ad abbozzare una timida risposta, ben sapendo che non vedrà mai la luce:

    «Direttore…»

    «Direttore un cazzo! Muoviti! E chiamami appena sai qualcosa!»

    Il cellulare smette di gracchiare, perde vita, come se la possessione l’avesse abbandonato sotto l’azione purificatrice dell’acqua santa.

    La sfuriata non mi intimorisce affatto. Anzi, mi diverte far incazzare Barillari, totalmente incapace di controllarsi di fronte a qualunque essere vivente che non sia il suo cane.

    È un tipo c’ij cazzi il direttore, vuole sempre il massimo dai suoi sottoposti, soprattutto in termini di tempistica: «Il web è come una mandria di bisonti, viaggia a velocità sovrumane e, se non gli stai in scia, fai la fine del fiore nella prateria e ti scammaccianu».

    Quelle parole me le sono scolpite in testa la prima volta che l’ho incontrato e non le ho più perse di vista. È la pura

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