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Il vuoto dentro
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Due sconosciuti si incontrano nel retro di una squallida bottega e sono pronti a mettere a rischio anche la propria vita pur di raggiungere il proprio obiettivo.
Perché sì, parlare con i morti si può.
Ma a che costo?
A deciderlo la signora Felicita e qualcos’altro…
Le ferite di un passato mai sopito tornano a riaprirsi per un gioco che avrà un solo vincitore.
Perché sì, parlare con i morti si può.
Ma a che costo?
A deciderlo la signora Felicita e qualcos’altro…
Le ferite di un passato mai sopito tornano a riaprirsi per un gioco che avrà un solo vincitore.
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Anteprima del libro
Il vuoto dentro - Giorgio Borroni
7
Giorgio Borroni
IL VUOTO DENTRO
Pubblicato da © Pubme - Collana Ater
Prima Edizione Settembre 2020
Immagine di copertina: autore Mads Schmidt Rasmussen -
https://unsplash.com/
Impaginazione e grafica: PubMe staff
Il logo di Ater è stato creato da Antonio Esposito.
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da considerarsi puramente casuale.
Questo libro contiene materiale coperto da copyright e non può essere copiato, trasferito, riprodotto, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’autrice, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge 633/1941).
1
Quel che resta di un temporale
BIAGIO
L'acquazzone non è servito a niente. Eppure ci speravo, mentre sull'autobus fissavo istupidito le gocce che si inseguivano sul finestrino opaco. Le vedevo inglobarsi a vicenda e come un idiota desideravo che questa pioggia si portasse via tutto. Un'idea del cazzo, non c'è che dire, un attacco di idiozia breve quanto il temporale che aveva già esaurito la sua bizza appena sono sceso alla mia fermata. Il mondo era sempre lì, ad accogliermi in tutto il suo schifo. Stavolta insieme a quest'afa che da un'ora abbondante mi sta prosciugando i liquidi. Ma chi voglio prendere in giro? Magari è solo il peso che mi porto dentro ad affaticarmi. Fatto sta che ora sono le gocce del mio sudore a rincorrersi sotto la camicia fradicia. Ho perso la strada un paio di volte, perché qui in periferia le vie sembrano tutte uguali nel loro squallore. Le finestre delle case nascondono sguardi di sbieco e persiane pronte a sbattere quando li incontri. Un po' come quando mi trovavo in Sezione. Sono immune alle occhiate furtive, sono immune al sentirmi controllato sempre e comunque. Dopo un po’ci si fa il callo, e il carcere ti mantiene in esercizio.
Svolta dopo svolta, i vicoli lerci dal ventre tatuato di scritte oscene mi hanno scaricato in una piazzetta spoglia, come se fossi un rifiuto dei suoi cassonetti stracolmi. Qui, sotto una cappa di immondizia macerata e interiora di pesce, un monumento affiora al centro, tra le pozzanghere. Sembra quasi sfottermi con la sua arroganza da arte moderna, eppure mi sembra solo una colonna spezzata di cemento, anche se sfoggia quasi con orgoglio una targa che nessuno avrà mai letto neanche se ne avesse avuto l'intenzione, coperta com’è dai graffiti dei vandali. Sto cominciando a spazientirmi, e questo non porta mai nulla di buono. Mi sono stancato di aggirarmi alla cieca, asfissiato dalla canicola e dalle esalazioni marce, per un quartiere che sembra uscito da un film postatomico da due soldi: quelli che danno in TV a tarda notte tanto per tenere compagnia alla tua insonnia. Questo sole malato e debole pare spuntato solo per gettare la sua luce sporca su palazzine che stanno su per miracolo. Fra i balconi delle ringhiere arrugginite e sdentate i loro muri giallognoli si scrostano come la pelle di un lebbroso, fanno una veglia funebre alla piazzetta su cui si affacciano. Neanche tale solennità è da prendere sul serio, turbata com’è da tonfi atoni e da uno scalpiccio concitato.
Quattro mocciosi corrono dietro a un pallone grigio che ormai ha ben poco di sferico, evitando le pozzanghere sull'asfalto bucherellato con agili balzi e slalom repentini.
«Passala, Lucio!», «Tira, Giulio, palla di lardo!» intervallati da grida e sbuffi di fatica, manco stessero giocando la finale del Campionato del Mondo: si affannano a tirare il pallone fra il monumento e un piolo storto divorato dalla ruggine. L'unica porta del terreno di gioco da conquistare anche a costo della vita.
Un sibilo mi sfiora l'orecchio accompagnato da un coro urlante di disappunto. Schivo di istinto, coprendomi il viso con l'avambraccio, come se dovessi evitare un cazzotto e un attimo dopo sento rimbalzare il pallone alle mie spalle. Di nuovo tonfi atoni che rallentano progressivamente, mentre invece il cuore comincia a pompare sempre più veloce.
Arriva senza preavviso. Il lampo bianco mi si para di fronte agli occhi. Brusco e prepotente. Questa volta mi rendo conto che è solo un timido flash. Roba da niente. Posso controllarlo, è già qualcosa. Non lascerò che diventi un enorme velo latteo che mi appanna la vista. Affondo i denti nel labbro inferiore fino a sentire male. Il dolore fa brulicare un formicolio di pensieri, mi viene in mente che stamani non ho manco preso le medicine.
«Che… me la passa signore?»
Ad aver parlato è uno dei mocciosi, il più alto, canottiera larga su cui campeggia uno SpongeBob che ha subito parecchi lavaggi. Gli altri tre ansimano sudati fradici, ancora pervasi dall'eccitazione della partita: chi ha fretta di rifarsi, chi di convalidare il risultato.
«Scusi...» fa il bambino, stringendo le spalle rachitiche come se volesse dire che un errore può capitare in una finale così importante e protende le mani avanti per sottolinearlo meglio.
Con un lungo respiro lascio che l'aria fetida e rovente mi gonfi i polmoni e annuisco, mi passo una mano sulla fronte per tergermi il sudore. Il respiro torna regolare, e insieme a lui le pulsazioni. Pur non avendo inveito o avuto alcuna reazione violenta, quasi mi dispiace per l'attacco, anche se sono riuscito a disinnescarlo, così mi guardo in giro a cercare la palla attorno a me. Non la trovo.
«Mi sa che siete mongoloidi allora... qui non ci dovete giocare!»
La S moscia e la voce nasale possono essere solo quelle di Marione, ma la conferma mi viene dai suoi passi strascicati inconfondibili. Mi hanno tormentato intere notti, tanto che forse è stata la sua insonnia a contagiarmi. Cinque anni nella stessa cella non sono uno scherzo. Marione mi si ferma accanto, usa sempre il solito dopobarba dolciastro, sembra quasi un estratto di zucchero filato. Che qualcuno si è cacciato in culo, perché con l'afa è più sgradevole del solito, dando all’aroma alcolico un tocco guasto. Mi strizza l'occhio, Marione, senza farsi notare dai ragazzini, poi torna a fissarli accigliato, impettito e con il pallone sul palmo teso verso di loro. Ha un atteggiamento da boss e di certo non si addice a un ometto che sembra un comico di avanspettacolo degli anni '70, ma con i bambini forse funziona più la sua fama che la sua posa. Per loro adesso è come se io non ci fossi, infatti scrutano lui con le labbra schiuse, gli occhi sgranati, manco fosse l'Uomo Nero, anche se in definitiva lo è. Ci vedo gli ammonimenti dei loro genitori in quelle facce terrorizzate, sequele di «State lontani da Marione!», magari senza ulteriori spiegazioni, mai pronunciando il termine pedofilo
, che i figli non capirebbero e che loro forse manco conoscono.
L'uomo si ferma a pochi passi dai quattro, quello più piccolo stringe il piolo che delimita la porta, quasi gli servisse a reggersi in piedi. Ha un fremito nelle gambe, forse è lui ad aver sbagliato la traiettoria del pallone, o forse l'altro che tira su inutilmente col naso, visto che la lacrima di muco che gli tocca il labbro rimane dov’è. Il quarto, quello che chiamavano «palla di lardo», si scosta dagli occhi atterriti i ricci umidi che però finiscono subito dove erano prima. Indietreggia goffo, poi scatta e se la dà a gambe, tirando dritto senza neanche schivare le pozzanghere. Gli altri rimangono dove sono, come inchiodati. Della loro fifa Marione pare goderne come si leccasse le dita sporche di dessert, si vede da come si gratta compiaciuto il ventre fasciato dal grembiule sporco, per poi soppesare teatralmente il pallone sbucciato. Andato come questo luogo. Il bambino rachitico che per primo si è rivolto a me sta per dire qualcosa, le parole stanno quasi per spiccare il volo dalle labbra tremanti, ma la voce stridula del mio ex compagno di cella fa morire sul nascere qualsiasi approccio.
«Se me la sfondate io vi
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