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Sherlock Holmes. Uno studio in rosso - Il segno dei quattro - La valle della paura: Ediz. integrali
Sherlock Holmes. Uno studio in rosso - Il segno dei quattro - La valle della paura: Ediz. integrali
Sherlock Holmes. Uno studio in rosso - Il segno dei quattro - La valle della paura: Ediz. integrali
E-book566 pagine16 ore

Sherlock Holmes. Uno studio in rosso - Il segno dei quattro - La valle della paura: Ediz. integrali

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Uno studio in rosso” è il primo romanzo che ci ha fatto conoscere l’investigatore privato Sherlock Holmes e il suo amico dottor John H. Watson. È un testo fondamentale nella lettura delle inchieste operate da questo straordinario personaggio perché entrambi i protagonisti ci vengono, per la prima volta, presentati con le loro caratteristiche salienti: Sherlock Holmes maestro nel metodo deduttivo-analitico, mentre il dubbioso dr. Watson suo personale biografo. Ne “Il segno dei quattro” i segreti e misteri in gioco, che provengono persino dalla lontana India, non verranno svelati finché non verrà catturato un uomo con la gamba di legno. “La valle della paura”: per la polizia sembrerebbe un caso irrisolvibile, ma non per Holmes che intuisce dalle sue investigazioni, influenzate dalla lunga mano del terrificante suo nemico prof. James Moriarty, che la realtà non sempre è quella che sembra. 
LinguaItaliano
EditoreCrescere
Data di uscita21 gen 2022
ISBN9788883382710
Sherlock Holmes. Uno studio in rosso - Il segno dei quattro - La valle della paura: Ediz. integrali
Autore

Sir Arthur Conan Doyle

Arthur Conan Doyle (1859-1930) was a Scottish author best known for his classic detective fiction, although he wrote in many other genres including dramatic work, plays, and poetry. He began writing stories while studying medicine and published his first story in 1887. His Sherlock Holmes character is one of the most popular inventions of English literature, and has inspired films, stage adaptions, and literary adaptations for over 100 years.

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    Anteprima del libro

    Sherlock Holmes. Uno studio in rosso - Il segno dei quattro - La valle della paura - Sir Arthur Conan Doyle

    Arthur Conan Doyle

    image 1

    SHERLOCK HOLMES

    Uno studio in rosso

    Il segno dei quattro

    La valle della paura

    Edizioni integrali

    © 2021 LIBRARIA EDITRICE S.r.l.

    CRESCERE Edizioni è un marchio di

    Libraria Editrice S.r.l.

    http://www.edizionicrescere.it

    Tutti i diritti di pubblicazione e riproduzione anche parziali sono riservati

    Per approfondire: Sherlock Holmes ed Autore - Link Wikipedia - Wikimedia Foundation Inc.

    A cura di Tina Alderighi Casati

    Edizione cartacea disponibile isbn - 9788883379994

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    Indice dei contenuti

    UNO STUDIO IN ROSSO

    Parte prima

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Parte seconda

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    IL SEGNO DEI QUATTRO

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    LA VALLE DELLA PAURA

    Parte prima

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Parte seconda

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Epilogo

    UNO STUDIO IN ROSSO

    Parte prima

    Ristampa dalle memorie del dottor John H. Watson, già appartenente al corpo medico militare.

    Capitolo I

    Il signor Sherlock Holmes

    Nell'anno 1878, conseguita la laurea in medicina alla London University, mi recai a Netley per frequentare il corso di abilitazione per diventare chirurgo nell'esercito. Avendo completato là i miei studi, venni debitamente distaccato al Quinto Corpo Fucilieri del Northumberland come assistente chirurgo. All'epoca, il reggimento era di stanza in India e, prima che io potessi associarmi, scoppiò il secondo conflitto afghano. Sbarcando a Bombay, venni a sapere che il mio reparto aveva già attraversato i passi di montagna ed era ormai all'interno del territorio nemico. Seguii la sorte, comunque, di molti altri ufficiali che si trovarono nella mia stessa situazione e riuscii, sano e salvo, a raggiungere il reparto a Candahar. Trovai il mio reggimento e in un colpo solo assunsi le mie nuove mansioni.

    A molti la campagna afghana portò onori e promozioni; ma a me non portò che sfortune e calamità. Venni trasferito dalla mia brigata e assegnato a quella dei Berkshire, con i quali partecipai alla fatale battaglia di Mainwand. In quel luogo venni ferito alla spalla da un proiettile di moschetto Jezail che mi fracassò l'osso procurandomi una lesione superficiale all'arteria succlavia. Sarei caduto nelle mani dei sanguinari Ghazis se non fosse stato per la devozione e il coraggio del mio attendente Murray il quale mi caricò in groppa a un cavallo da soma e riuscì a portarmi in salvo nelle retrovie inglesi.

    Consumato dal dolore e indebolito dalle avversità che avevo subìto, venni trasportato, con un lungo convoglio di feriti sofferenti, alla base ospedaliera di Peshawar. Iniziai a riprendermi, ed ero già talmente migliorato da potermi permettere di aggirarmi per le corsie e perfino di crogiolarmi al sole nella veranda, quando venni colpito da quella febbre enterica che è la maledizione dei nostri possedimenti indiani. Per mesi, rimasi in condizioni disperate e quando finalmente mi ripresi ed entrai in convalescenza, ero talmente debole e ischeletrito che una commissione medica decise che non un solo giorno dovesse essere perso per farmi rientrare in Inghilterra. Venni spedito di conseguenza su una nave per trasporto truppe, l'Orontes, e ripresi possesso della terra un mese dopo, quando sbarcai sul molo di Portsmouth, con la salute irrimediabilmente rovinata ma col permesso, paternamente concessomi dal governo, di impiegare i successivi nove mesi nel tentativo di rimetterla in sesto.

    Non avevo né parenti né amici in Inghilterra ed ero quindi libero come l'aria o, meglio, libero quanto si può essere con una rendita di undici scellini e mezzo al giorno.

    Date le circostanze, ovviamente fui attratto da Londra, quel grande pozzo nero nel quale tutti i fannulloni e gli sfaticati dell'Impero vengono irresistibilmente assorbiti. E a Londra rimasi per un po', in una pensione dello Strand, conducendo un'esistenza senza comodità e senza senso, spendendo troppo denaro come se ne avessi di più di quello che avevo in tasca. Così allarmante divenne lo stato delle mie finanze che compresi rapidamente che avrei dovuto abbandonare la metropoli e trasferirmi dovunque in campagna, oppure cambiare radicalmente il mio tenore di vita. Optai per questa seconda soluzione e cominciai a entrare nell'ordine di idee di lasciare l'albergo e stabilirmi in un alloggio con meno pretese e meno dispendioso.

    Il giorno stesso in cui giunsi a questa conclusione, me ne stavo in piedi al Criterion Bar quando mi sentii battere su una spalla e, voltandomi, riconobbi il giovane Stamford che era stato un guardarobiere quando ero medico a Bart. La visione di una faccia amica nella nostra giungla londinese è davvero una piacevole sensazione per chi è solo. A dir la verità, in passato non era mai stato particolarmente sodale con me, ma in quel momento lo salutai con entusiasmo ed egli, a sua volta, sembrò felicissimo di vedermi. Nell'impeto della mia gioia, lo invitai a pranzo all'Holborn e ci arrivammo insieme su una carrozza.

    «Come si è conciato, Watson?», mi domandò palesemente sorpreso, mentre noi stavamo attraversando le strade affollate di Londra. «È magro come un stecchetto e scuro come un tizzone.»

    Gli feci un resoconto delle mie vicissitudini che durò per tutto il tempo del tragitto.

    «Poveretto!», esclamò in tono compassionevole dopo avere ascoltato le mie peripezie.

    «E adesso, cosa conta di fare?»

    «Cercarmi un alloggio», risposi. «Cercar di risolvere il problema se sia possibile trovare una casa confortevole a un prezzo ragionevole.»

    «Che stranezza», osservò il mio compagno. «È la seconda persona, oggi, che ha usato questa espressione.»

    «E la prima chi era?», domandai.

    «Un compagno che lavora al laboratorio di chimica dell'ospedale. Stamattina si è lamentato appunto di non riuscire a trovare qualcuno con cui condividere l'affitto di un grazioso alloggio che ha visionato, ma che andava oltre le sue disponibilità economiche»

    «Per Giove!», esclamai. «Se ha veramente intenzione di dividere alloggio e spese, sono proprio quello che fa per lui. Preferirei avere un compagno anziché vivere da solo.»

    Il giovane Stamford mi lanciò un'occhiata abbastanza strana al di sopra del suo bicchiere di vino. «Non conosce ancora Sherlock Holmes», annunciò; «forse non gradirà molto averlo sempre presente come compagno.»

    «Perché, cos'ha che non va?»

    «Non ho detto che in lui ci sia qualcosa che non va. Ha delle idee un po' strambe… è un entusiasta di determinate branche della scienza. Per quanto ne so io, è un rispettabile compagno.»

    «Studente di medicina, immagino?» domandai.

    «No... Non ho idea di cosa intenda fare. Credo che abbia buone cognizioni di anatomia, ed è un chimico di prim'ordine; ma, a quanto mi risulta, non ha mai seguito sistematicamente dei corsi di medicina. I suoi studi sono privi di qualsiasi metodo e piuttosto eccentrici, ma ha accumulato una massa enorme di cognizioni insolite che lascerebbero a bocca aperta i suoi professori.» «Non gli ha mai chiesto cosa stia cercando?» Gli chiesi curioso.

    «No; non è un uomo facile da far parlare, anche se può essere molto comunicativo quando ne ha voglia.»

    «Mi piacerebbe conoscerlo», esclamai. «Se devo avere un coinquilino, preferirei una persona tranquilla e amante dei libri. Non sono ancora abbastanza in forze per sopportare rumori e agitazione. Ne ho avuto abbastanza di entrambi in Afghanistan da bastarmi per tutto il resto della vita. Come potrei incontrare questo suo amico?» «Sarà senza dubbio in laboratorio», rispose il mio interlocutore.

    «A volte ne sta alla larga per settimane, altre volte ci rimane a lavorare dalla mattina alla sera. Se vuole, possiamo andarci insieme dopo aver pranzato.»

    «Certamente», risposi, e la conversazione si spostò su altri argomenti.

    Mentre ci dirigemmo all'ospedale dopo aver lasciato l'Holborn, Stamford mi diede qualche altro ragguaglio sul gentiluomo che mi proponevo di prendere come coinquilino.

    «Non se la prenda con me se non ci andrà d'accordo», disse; «di lui, so unicamente quello che ho appreso incontrandolo ogni tanto in laboratorio. È lei che ha proposto questa soluzione, quindi non me ne ritenga responsabile.»

    «Se non dovessimo andare d'accordo sarà facile separarci», risposi. «La mia impressione, Stamford», aggiunsi, guardandolo dritto in faccia, «è che lei abbia qualche motivo per lavarsi le mani di tutta la faccenda. Questo tizio ha davvero un tale caratteraccio, o cosa? Me lo dica francamente.»

    «Difficile esprimere l'inesprimibile», rispose scoppiando a ridere. «Holmes è un po' troppo scientifico per i miei gusti … lo definirei quasi un animale a sangue freddo. Posso immaginarmelo mentre dà a un amico un pizzico dell'ultimo alcaloide vegetale scoperto, non per cattiveria, badi bene, ma per avere un'idea precisa degli effetti. Però, devo dire onestamente che non ci penserebbe due volte a ingerirlo lui stesso. Sembra nutrire un'insaziabile passione per le cognizioni esatte e certe.»

    «Più che giusto.»

    «Già, ma è una cosa che si può spingere all'eccesso. Quando si arriva a percuotere con un bastone i cadaveri in sala anatomica, la faccenda diventa certo un po' insolita!»

    «Percuotere i cadaveri!»

    «Sì, per verificare il tipo di lividi che si possono produrre post-mortem . Ho visto farlo io stesso, con i miei occhi.»

    «Eppure, afferma che non è uno studente di medicina?»

    «No. Dio solo sa cosa studi. Ma siamo arrivati, giudicherà lei stesso.» Mentre stava parlando, ci inoltrammo in uno stretto viottolo, e entrammo attraverso una porticina che introduceva in un'ala del grande ospedale. Il luogo mi era familiare e non ebbi bisogno di guida mentre salimmo per le cupe pietre della scalinata, avviandoci poi lungo il corridoio con le sue pareti imbiancate a calce e le porte di un marroncino grigiastro. All'estremità del corridoio, si diramava un passaggio, col basso soffitto a volta, che portava al laboratorio di chimica.

    Il locale era uno alto stanzone, dove si allineavano una miriade di flaconi. Qui e là, vi erano estesi tavoli bassi sui quali erano accatastati storte, provette e piccoli becchi Bunsen con la loro tremula fiammella azzurrognola. Nella stanza c'era un unico studente, chino su un tavolo distante, assorto nel suo lavoro. Al suono dei nostri passi si guardò intorno e saltò in piedi con un grido di gioia. «L'ho trovato! L'ho trovato!», urlò al mio amico, precipitandosi verso di noi con una provetta in mano. «Ho trovato un reagente che precipita esclusivamente con l'emoglobina.» Se avesse scoperto una miniera d'oro non avrebbe potuto apparire più felice e radioso.

    «Il dottor Watson, il signor Sherlock Holmes», ci presentò Stamford.

    «Molto lieto», disse cordialmente, stringendomi la mano con una forza di cui non gli avrei dato credito. «Vedo che è stato in Afghanistan.» «Come diamine fa a saperlo?», gli chiesi sbalordito.

    «Non importa», rispose ridacchiando fra sé e sé. «L'argomento in questo momento è l'emoglobina. Comprenderà senza dubbio l'importanza della mia scoperta?»

    «Da un punto di vista scientifico è sicuramente importante», risposi, «ma, in pratica...»

    «Ma, caro uomo, è la più pratica delle scoperte in campo medico-legale da anni a questa parte. Non capisce che ci fornisce un test infallibile per le macchie di sangue? Venga, venga qui!» Nel suo entusiasmo mi afferrò per la manica trascinandomi al tavolo dove era intento a lavorare quando entrammo. «Prendiamo del sangue fresco», annunciò infilandosi un lungo spillone nel dito e versando qualche goccia di sangue in una provetta. «Ora, aggiungo questo poco sangue a un litro d'acqua. Come vede, il liquido che ne risulta conserva l'aspetto di acqua pura. La percentuale del sangue non è di certo maggiore di uno a un milione. Eppure, sono sicurissimo che saremo in grado di ottenere la proprietà tipica della reazione.» Mentre stava parlando, gettò nel recipiente pochi cristalli bianchi, aggiungendo infine qualche goccia di un liquido trasparente. In un attimo, il contenuto del recipiente assunse un color mogano opaco e un sedimento brunastro si depositò sul fondo del recipiente di vetro.

    «Ha! Ha!», gridò ad alta voce, battendo le mani con l'aria estasiata di un bambino davanti a un nuovo giocattolo. «Che ne pensa?»

    «Sembra un esperimento molto sofisticato», osservai.

    «Stupendo! Stupendo! Il vecchio test di ricerca del sangue occulto, il guaiaco, è molto rudimentale e approssimativo. Come lo è l'esame microscopico che ricerca corpuscoli. Quest'ultimo è totalmente inutile se le macchie di sangue sono vecchie di qualche ora. Se questo esperimento fosse stato inventato prima, centinaia di persone, che oggi camminano tranquillamente sul pianeta, avrebbero già da un pezzo pagato per i loro crimini.»

    «Davvero!», mormorai.

    «I casi criminali sono continuamente dipendenti sullo stesso punto. Un uomo è sospettato di un delitto forse dopo mesi che è stato commesso. La sua biancheria, i suoi vestiti, vengono esaminati e vengono scoperte delle macchie brunastre. Sono macchie di sangue, di fango, di ruggine, di frutta o di che cosa? È un problema che ha disorientato molti esperti, perché? Perché non esisteva un test affidabile. Ora, abbiamo il test di Sherlock Holmes e non ci saranno più difficoltà.» Durante il suo intervento gli occhi brillarono e, ponendosi la mano sul cuore, s'inchinò come di fronte a una fantomatica platea.

    «C'è da congratularsi con lei», dissi, non poco sorpreso dal suo entusiasmo.

    «Ci fu il caso Von Bischoff a Francoforte l'anno scorso. Se questo test fosse esistito allora, lo avrebbero certamente impiccato. E poi ci fu Mason di Bradford, e il famigerato Muller, e Lefevre di Montpellier, e Samson di New Orleans. Potrei nominare una serie di casi in cui questo test sarebbe stato decisivo.»

    «Lei sembra essere un'incredibile agenda del crimine», esclamò Stamford ridendo. «Potrebbe scriverci un libro, intitolandolo Casi polizieschi del passato

    «E potrebbe anche essere una lettura molto interessante», commentò Sherlock Holmes applicandosi un cerotto sopra la puntura appena praticata sul suo dito. «Devo stare attento», aggiunse rivolto a me, con un sorriso. «Spesso, infatti, mi cimento con sostanze velenose.» Così dicendo, tese la mano e vidi che era costellata di analoghi cerotti e di scoloriture provocate dagli acidi.

    «Siamo venuti qui per affari», intervenne Stamford sedendosi su un alto sgabello a tre zampe e spingendone col piede un altro nella mia direzione. «Questo mio amico è in cerca di casa e dal momento che lei si lamentava di non trovare qualcuno disposto ad andare a vivere con lei, ho pensato che avrei fatto bene a mettervi in contatto.»

    Sherlock Holmes sembrò deliziato all'idea di condividere il suo alloggio con me. «Ho messo gli occhi su un appartamento a Baker Street», annunciò, «che sarebbe adatto. Non le dà fastidio l'odore del tabacco forte, spero?»

    «Io fumo sempre una mia ben navigata miscela», risposi.

    «Eccellente. In genere, tengo un po' dappertutto delle sostanze chimiche e a volte faccio degli esperimenti. Le seccherebbe?» «Niente affatto.» «Vediamo... quali altri difetti ho? A volte sono depresso e non apro bocca per giorni. In quei casi, non deve pensare che sia scoraggiato. Basta lasciarmi stare e presto mi passa. Sentiamo ora, cos'ha da confessare lei? Tanto vale conoscere i nostri lati peggiori, prima di metterci a vivere insieme.»

    Risi a quell'interrogatorio incrociato. Risposi «Vorrei tenermi un bulldog. Non sopporto il baccano perché ho i nervi scossi, e mi alzo alle ore più impossibili, e sono estremamente pigro. Quando sono in forma, ho cattive abitudini di altro genere ma al momento questi sono i principali.»

    «Fra i rumori include il violino?» domandò ansioso.

    «Dipende dal violinista», risposi. «Un violino suonato bene, è divino… suonato male...»

    «Oh, non c'è problema», esclamò con una gran risata. «Credo che possiamo considerare la cosa come fissata... naturalmente se l'alloggio è di suo gradimento.»

    «Quando possiamo vederlo?»

    «Incontriamoci qui domani a mezzogiorno, ci andremo insieme e sistemeremo tutto.» «D'accordo, a mezzogiorno preciso», confermai stringendogli la mano.

    Lo lasciammo alle sue storte e alle sue provette e ci avviammo a piedi verso il mio albergo.

    «A proposito», domandai all'improvviso, fermandomi e rivolgendomi a Stamford, «come diavolo ha fatto a sapere che fossi ritornato dall'Afghanistan?»

    Il mio compagno sorrise con un'espressione enigmatica. «Questa è proprio parte della sua peculiarità», rispose. «Sono molti quelli che vorrebbero sapere come fa a scoprire le cose.» «Oh! È un mistero?» esclamai strofinandomi le mani. «Ciò è molto intrigante. Le sono davvero grato per averci fatto incontrare. Citando Alexander Pope Il corretto studio dell'Umanità è l'Uomo, come sa.»

    «Lei deve studiarlo, allora», rispose Stamford appena mi augurò l'arrivederci. «Ma lo troverà un problema complesso. Scommetto che scoprirà su di lei molto più di quanto lei scoprirà su di lui. Arrivederci.»

    «Arrivederci», risposi, e mi incamminai verso l'albergo, notevolmente interessato da quella mia nuova conoscenza.

    Capitolo II

    La scienza della deduzione

    Ci incontrammo il giorno seguente, come d'accordo, e andammo a vedere l'alloggio al numero 221B di Baker Street del quale mi aveva parlato quando ci eravamo conosciuti.

    Si componeva di due spaziose camere da letto e un soggiorno, grande e luminoso, piacevolmente arredato, con due ampie finestre. Un appartamento perfetto per noi, il cui costo, una volta suddiviso, divenne talmente modesto che il contratto fu concluso immediatamente e ne entrammo subito in possesso. Quella sera stessa sgomberai la mia camera d'albergo e la mattina seguente Sherlock Holmes mi seguì, con scatoloni e bauli. Per un paio di giorni fummo occupatissimi a disfare le valige e a porre le nostre cose nel miglior modo possibile. Ciò fatto iniziammo poco alla volta a sistemarci nel nuovo ambiente.

    Holmes non era certo un coinquilino difficile. Era molto tranquillo e abitudinario

    Raramente rimaneva alzato dopo le dieci di sera e invariabilmente la mattina consumava la colazione e usciva prima del mio risveglio. A volte trascorreva l'intera giornata nel laboratorio di chimica, a volte nella sala anatomica, altre volte facendo lunghe passeggiate che, a quanto sembrava, lo conducevano nei quartieri più poveri ed emarginati della città. Quando era in preda alla sua frenesia di lavoro appariva infaticabile; ma ogni tanto la reazione lo afferrava, e allora stazionava per giorni e giorni sdraiato sul divano del soggiorno, senza dire una parola né muovere un muscolo, dalla mattina alla sera. In queste occasioni, notavo che i suoi occhi assumevano un'espressione talmente trasognata e vacua che avrei potuto sospettare che facesse uso di sedativi, se avessi dimenticato la conoscenza di quella sua vita morigerata e cristallina.

    Col trascorrere delle settimane, gradualmente, il mio interesse nei suoi confronti e la mia curiosità circa gli scopi della sua vita si acuirono sempre più. Perfino la sua persona e il suo aspetto erano tali da colpire l'attenzione alla prima occhiata. Era alto quasi un metro e novanta ma la sua straordinaria magrezza lo faceva sembrare ancora più alto. Eccezion fatta per quei periodi di torpore a cui ho accennato, il suo sguardo evidenziava acume e attenzione; e il naso sottile aquilino conferiva alla sua espressione un'aria vigile e decisa. Il mento era prominente e squadrato, tipico dell'uomo d'azione. Le mani, erano invariabilmente macchiate d'inchiostro e di abrasioni provocate dagli acidi, e ancora, egli mostrava di possedere un tocco insolitamente delicato, come ebbi spesso occasione di notare quando lo osservavo maneggiare i fragili strumenti della sua filosofia.

    Il lettore mi giudicherà forse un emerito ficcanaso confessando quanto quell'uomo stimolasse la mia curiosità, e le volte che tentai di far breccia in quel muro di reticenza dietro cui nascondeva ogni cosa che lo riguardasse direttamente. Prima di condannarmi, però, ricordate come la mia vita fosse priva di scopo e quanto poco c'era che potesse impegnare il mio interesse. Le mie condizioni di salute mi impedivano di uscire se non quando il tempo fosse eccezionalmente buono, e non avevo amici che venissero a trovarmi per interrompere la monotonia della mia esistenza. In queste circostanze, accolsi come un gradito diversivo quel po' di mistero che circondava il mio compagno, e passavo molto tempo a cercare di penetrare la sua riservatezza.

    Non studiava medicina. Su questo punto lui personalmente, in risposta a una domanda, aveva confermato l'opinione di Stamford. Né sembrava che avesse seguito un corso di lezioni in vista di una eventuale laurea in scienze o in qualsiasi altra materia riconosciuta che gli avrebbe permesso di entrare nel mondo accademico. Inoltre dimostrava un interesse e uno zelo straordinari per determinati studi e, all'interno di stravaganti limiti, le sue cognizioni erano straordinariamente ampie e minuziose, tanto che le sue osservazioni mi sbalordivano. Nessuno avrebbe lavorato tanto, né raccolto tante nozioni così dettagliate, se non per avere uno scopo ben preciso. I lettori saltuari raramente sono citati per l'esattezza del loro apprendimento. Nessun uomo riempie la sua mente con piccoli fatti senza importanza se non avesse un ottimo motivo per farlo.

    La sua ignoranza era degna di nota quanto la sua conoscenza. Di letteratura contemporanea, di filosofia e di politica era apparentemente digiuno. Una volta ebbi l'occasione di citare Thomas Carlyle e mi domandò candidamente chi fosse e cosa avesse fatto. Ma la mia sorpresa raggiunse il l'apice quando, per puro caso, scoprii che ignorava totalmente la Teoria Copernicana e la composizione del Sistema Solare. Che in questo diciannovesimo secolo un qualsiasi essere umano civilizzato non sapesse che la Terra ruota intorno al Sole mi sembrava una cosa talmente straordinaria che difficilmente compresi.

    «Mi sembra sbalordito», disse sorridendo del mio stupore. «E adesso che lo so, farò del mio meglio per dimenticarlo.»

    «Dimenticarlo!»

    «Vede», spiegò, «secondo me, il cervello umano è rappresentabile come un attico vuoto che lei deve riempire con i mobili che preferisce. Uno sciocco incamera ogni sorta di ciarpame gli venga a tiro, pertanto la conoscenza che potrebbe essergli utile viene spinta fuori o, nella migliore delle ipotesi, accatastata alla rinfusa insieme con un'infinità di altre cose, cosicché ha difficoltà di metterci le mani sopra. Un operaio abile, invece, sta molto attento a ciò che immagazzina nel suo attico-cervello. Non vi depositerà altro che gli strumenti che possano aiutarlo nel suo lavoro, ma di questi strumenti ne ha un vasto assortimento, e tutti in perfetto ordine. Si commette un errore a ritenere che quella piccola stanza abbia pareti elastiche che possano allargarsi a piacimento. Creda a me, viene sempre un giorno in cui ogni nozione suppletiva gliene fa dimenticare un'altra che aveva posseduto prima. È estremamente importante, quindi, che le nozioni inutili non estromettano quelle utili.»

    «Ma il Sistema Solare!», protestai.

    «Ma che Diavolo me ne importa?», mi interruppe spazientito. «Lei dice che giriamo intorno al sole. Anche se girassimo intorno alla luna non farebbe il valore di un penny di differenza per me o per il mio lavoro.»

    Ero in procinto di chiedergli di che lavoro si trattasse, ma qualcosa nel suo atteggiamento mi fece capire che non avrebbe gradito la domanda. Ripensai, però, a quel nostro breve dialogo cercando di trarne le mie conclusioni. Aveva affermato che non gli interessasse acquisire quelle nozioni che non erano pertinenti al suo scopo. Quindi, tutto ciò che sapeva era qualcosa che gli avrebbe potuto essere utile. Elencai nella mia mente tutti i vari punti sui quali mi aveva dimostrato di essere straordinariamente bene informato.

    Presi perfino una matita e li annotai. Non potei trattenermi dal sorridere, vedendo l'elenco che avevo compilato. Eccolo:

    SHERLOCK HOLMES - I Suoi limiti.

    1. Conoscenza della letteratura - Zero.

    2. Conoscenza della filosofia - Zero.

    3. Conoscenza dell'astronomia - Zero.

    4. Conoscenza della politica - Scarsa.

    5. Conoscenza della botanica - Variabile. Sa molte cose sulla belladonna, l'oppio, e i veleni in genere. Non sa niente di giardinaggio.

    6. Conoscenza della geologia - Pratica, ma limitata. Distingue a colpo d'occhio un tipo di terreno da un altro. Rientrando da una passeggiata mi ha mostrato delle macchie di fango sui pantaloni e, in base al colore e alla consistenza, mi ha detto in quale parte di Londra se l'era fatte.

    7. Conoscenza della chimica - Profonda.

    8. Conoscenza dell'anatomia - Accurata, ma non sistematica.

    9. Conoscenza della letteratura sensazionalistica - Immensa. Sembra conoscere ogni particolare di tutti i misfatti più orrendi perpetrati in questo secolo.

    10. Buon violinista.

    11. Esperto schermidore col bastone, pugile, spadaccino.

    12. Ha una buona conoscenza pratica del Diritto britannico.

    Arrivato a questo punto della lista, decisi di buttarla nel fuoco per disperazione. «Se l'unico modo di capire a cosa miri quest'uomo è conciliare fra loro tutte queste qualità e scoprire una professione per la quale siano tutte necessarie», riflettei, «tanto vale rinunciare subito.»

    Vedo che ho accennato alle sue doti di violinista. Erano decisamente notevoli, ma eccentriche come tutte le sue altre capacità. Che fosse in grado di eseguire dei brani anche difficili lo sapevo bene perché, dietro mia richiesta, mi aveva suonato alcune delle romanze di Mendelssohn e altri pezzi preferiti. Ma, da solo, raramente produceva musica dal suo strumento o accennava qualche motivo conosciuto. A volte la sera, sprofondato nella sua poltrona, chiudeva gli occhi mentre pizzicava oziosamente le corde del violino posato sulle ginocchia, traendone talvolta suoni melodiosi o cenni malinconici, altre volte allegri e bizzarri, ovviamente secondo l'umore del momento. Ma che la musica lo aiutasse a pensare o fosse semplicemente frutto di un capriccio o di una fantasia, non ero in grado di determinarlo. Avrei potuto protestare per quegli assolo esasperanti, se ogni volta non vi avesse egli stesso posto fine, mettendosi a suonare in rapida successione alcune delle mie arie favorite, quasi a premiare la mia pazienza messa a così dura prova.

    Durante i primi otto giorni non ricevemmo visite e avevo cominciato a pensare che, come me, anche il mio compagno non avesse amici. D'improvviso però scoprii che aveva molte conoscenze, all'interno delle più disparate classi sociali. C'era un tipo mingherlino, con un viso giallastro da furetto, con gli occhi scuri, che mi fu presentato come signor Lestrade e che, in una sola settimana, venne tre o quattro volte. Una mattina, si presentò una ragazza giovane, vestita alla moda, che si trattenne per poco più di mezz'ora.

    Quello stesso pomeriggio arrivò un tale dai capelli grigi, trasandato, all'apparenza un venditore ambulante ebreo che mi parve molto eccitato, seguito da una donna anziana e sciatta. In un'altra occasione un signore dai capelli bianchi, di età avanzata, ebbe un colloquio con il mio compagno; e un altro giorno ancora, arrivò un facchino delle ferrovie, con la sua uniforme di fustagno. Quando uno di questi individui indecifrabili si faceva vivo, Sherlock Holmes mi chiedeva il favore di poter usare il soggiorno e io mi ritiravo in camera mia. Si scusava sempre per il disturbo che mi avrebbe potuto arrecare. «Sono costretto a servirmi di questa stanza come luogo d'affari», mi comunicò, «e queste persone sono miei clienti.» Ancora mi si ripresentò l'occasione di porgli una domanda chiara e tonda ma, ancora una volta, la mia timidezza mi impedì di costringere un'altra persona a confidarsi con me. Al momento, pensai che avesse forti ragioni per non parlarmene, ma ben presto lui stesso scacciò la mia idea, e alla prima occasione che venne a presentarsi affrontò spontaneamente l'argomento.

    Avvenne il 4 marzo, e ho buoni motivi per ricordarlo; mi ero alzato più presto del solito, e trovai Sherlock Holmes che stava ancora facendo colazione. La padrona di casa era ormai talmente avvezza alle mie abitudini ritardatarie che né il mio posto a tavola né il mio caffè erano ancora pronti. Con l'irragionevole petulanza che contraddistingue noi esseri umani suonai il campanello e, in tono brusco, annunciai che ero pronto a far colazione. Poi, presi una rivista che era sulla tavola e cercai di trascorrere il tempo mentre il mio compagno stava masticando in silenzio il suo pane tostato. Uno degli articoli recava un segno a matita accanto al titolo e, naturalmente, cominciai a scorrerlo con gli occhi.

    Il suo alquanto ambizioso titolo era " Il Libro della Vita " e l'autore cercava di dimostrare quanto un uomo dotato di spirito d'osservazione avrebbe potuto imparare mediante un'accurata e sistematica analisi di tutto ciò che incontrasse nella vita. Ne trassi l'impressione di un miscuglio di acutezza e di assurdità. Il ragionamento era serrato e intenso, ma le deduzioni mi apparivano inverosimili ed esagerate. L'autore dell'articolo affermava di essere in grado di intuire i pensieri più nascosti di una persona da una fuggevole espressione, dalla contrazione di un muscolo, da un'occhiata. Secondo lui, era impossibile fingere alla presenza di chi venisse addestrato all'osservazione e all'analisi. Le sue conclusioni erano infallibili quanto gli enunciati di Euclide. Al non addetto ai lavori infatti, i suoi risultati sarebbero apparsi talmente sorprendenti, prima di conoscere attraverso quale procedimento mentale li avesse raggiunti, che lo avrebbero considerato uno stregone.

    " Da una goccia d'acqua , aveva scritto l'articolista, una mente logica potrebbe dedurre l'eventualità dell'esistenza di un Atlantico o un Niagara, senza mai averli visti e sentiti. La vita non è che una grande catena di cui possiamo conoscere la natura osservandone un singolo anello. Come ogni altra arte, la Scienza della Deduzione e dell'Analisi si può acquisire unicamente attraverso lunghi e pazienti studi, e la vita non è abbastanza lunga perché un essere mortale possa raggiungere il vertice della perfezione in questa scienza. Prima di prendere in esame quegli aspetti morali e mentali della questione che presentino maggiori difficoltà, vediamo di affrontare problemi più elementari. Poniamo che il nostro lettore dotato di logica, incontrando un essere umano come lui possa, con una sola occhiata, conoscerne la storia e il commercio o la professione che svolge. Può sembrare un esercizio puerile, ma esso stimola le facoltà di osservazione, insegna dove e cosa guardare. Dalle unghie di una persona, dalla manica della sua giacca, dai suoi stivali, dal ginocchio dei pantaloni, dalle callosità sul pollice e l'indice, dalla sua espressione, dai polsini della camicia, da ciascuna di queste cose traspare chiaramente l'attività che quella persona svolge. È che, da tutte insieme, un investigatore competente non possa risalire a un quadro d'insieme, è pressoché inconcepibile. "

    «Che indescrivibili sciocchezze!», esclamai sbattendo la rivista sul tavolo. «Mai letto tanta spazzatura in vita mia!»

    «Di che sta parlando?», chiese Sherlock Holmes.

    «Di questo articolo», risposi indicandolo col cucchiaino mentre mi stavo sedendo per far colazione. «Vedo che lo ha letto, dal momento che l'ha segnato. Non nego che sia scritto brillantemente. Però mi irrita. Evidentemente, si tratta di una teoria elaborata da qualche tizio che se ne sta sprofondato in poltrona a escogitare tutti questi bei paradossi chiuso nel suo studio. Tutta teoria e niente pratica. Vorrei osservarlo, intrappolato in uno scompartimento di terza classe della metropolitana, se gli chiedessero di indicare le varie attività dei suoi compagni di viaggio. Lo darei perdente, mille a uno.» «Perderebbe la scommessa», osservò placido Holmes. «In quanto all'articolo, l'ho scritto io.» «Lei!»

    «Sì, sono portato sia all'osservazione che alla deduzione. Le teorie che ho espresso nell'articolo e che a lei sembrano così fantasiose, in realtà sono estremamente concrete… al punto che sono loro a darmi il pane quotidiano.»

    «E in che modo?», mi venne spontaneo di chiedergli.

    «Beh, faccio affari con la mia presenza. Credo di essere l'unico al mondo. Sono un consulente investigativo, se è possibile capire di che si tratta. Qui a Londra abbiamo un bel po' di ispettori governativi e un bel po' di investigatori privati. Quando questa gente è in difficoltà si rivolge a me, e io li metto sulla pista giusta. Mi fanno vedere tutte le prove di cui dispongono e in genere, grazie alla mia conoscenza della storia del crimine, riesco a trovarne il bandolo. C'è qualcosa di molto simile e molto familiare in tutti i misfatti; avendo a portata di mano tutti i particolari di mille crimini, sarebbe molto strano non riuscire a risolvere il mille e uno. Lestrade è un ispettore molto famoso. Di recente si è trovato a brancolare nel buio in un caso di contraffazione e per questo è venuto qui.»

    «E gli altri?»

    «Quasi tutti inviati da agenzie investigative private. Sono tutte persone che hanno dei problemi e desiderano qualche chiarimento. Io ascolto le loro storie, loro ascoltano i miei commenti, e poi intasco la mia parcella.» «Insomma, lei intende dire che, senza uscire dalla sua stanza, lei è in grado di sbrogliare una matassa che per gli altri è un groviglio incomprensibile, pur se ne hanno sott'occhio tutti i dettagli?»

    «Esatto. Ho una specie di intuizione. Ogni tanto, si presenta qualche caso più complicato degli altri. E allora devo darmi da fare e vedere le cose con i miei propri occhi. Vede, possiedo una gran quantità di speciali conoscenze che applico al problema e che mi facilitano straordinariamente le questioni. Le regole di deduzione che ho citato in quell'articolo e che hanno suscitato il suo disprezzo, mi sono preziose nell'aspetto pratico del mio lavoro. L'osservazione è per me una seconda natura. Al nostro primo incontro, Watson, lei è apparso sorpreso quando ho sostenuto che lei fosse giunto dall'Afghanistan.»

    «Senza dubbio qualcuno glielo ha spifferato.» «Assolutamente no. Ho intuito che lei stesse provenendo dall'Afghanistan. Per forza d'abitudine, il filo dei miei pensieri si è sdipanato così rapidamente nel mio cervello che sono arrivato alla conclusione senza rendermi conto delle tappe intermedie. Ma queste tappe c'erano state. Il filo del ragionamento è stato questo: ecco un signore che ha la tipologia del medico ma l'aria di un militare. Quindi, un medico militare. È appena arrivato dai Tropici dato che è abbronzato, e quello non è il colore naturale della sua pelle; infatti, i polsi sono chiari.

    Ha attraversato un periodo di stenti e di malattia, come rivela chiaramente il viso teso e stanco. Ha una ferita al braccio sinistro. Lo tiene in modo rigido e innaturale. In quale zona dei Tropici un medico militare inglese può aver passato tante traversie e essersi ferito al braccio? Ovviamente in Afghanistan. Questa sequenza di pensieri è durata meno di un secondo. Le dissi, allora, che lei stesse arrivando dall'Afghanistan, e ne restò sbalordito.»

    «Come lo spiega lei, sembra molto semplice», risposi sorridendo. «Mi ricorda il Dupin di Edgar Allan Poe. Non immaginavo che personaggi del genere esistessero fuori dai racconti.»

    Sherlock Holmes si alzò e accese la pipa. «Senza dubbio ritiene di farmi un complimento paragonandomi a Dupin », osservò. «Ma, a parer mio, Dupin è tutt'altro che un genio. Quel suo stratagemma di interporsi nei pensieri dei suoi amici con un qualche commento ad hoc, dopo un quarto d'ora di silenzio, in realtà è molto plateale e superficiale. Innegabilmente possiede un geniale senso analitico, ma non è certo quel fenomeno che Poe vuole farlo apparire.»

    «Ha letto i libri di Gaboriau?», gli chiesi. « Lecoq corrisponde alla sua idea di un investigatore?» Sherlock Holmes emise uno sbuffo di fumo dalla sua pipa, con aria sardonica. « Lecoq è un misero inetto», esclamò in tono iroso. «Ha un unico pregio, la sua energia. Quel libro mi ha fatto veramente star male. Si tratta di identificare un prigioniero sconosciuto. Avrei potuto farlo in ventiquattrore. Lecoq ci ha impiegato più o meno sei mesi. Avrebbe potuto servire da manuale per i detective, per insegnare loro cosa non si deve fare.»

    Sentir trattare con tanta sprezzante disinvoltura due personaggi che avevo ammirato mi indignò. Mi accostai alla finestra e rimasi a guardare il traffico sottostante.

    «Quest'individuo sarà anche molto arguto», pensai, «ma certo è molto presuntuoso.»

    «Oggi come oggi, non ci sono né crimini né criminali», proseguì in tono querulo. «A che serve avere un cervello nella nostra professione? So benissimo che ho tutte le qualità per diventare famoso. Non esiste e non è mai esistito nessuno che abbia dedicato tanto studio e tanto talento naturale alla scoperta del crimine quanto ne ho dedicato io. E qual è il risultato? Non ci sono crimini da scoprire o, al massimo, c'è qualche pasticcio scellerato, con un movente talmente trasparente che perfino un funzionario di Scotland Yard sarebbe capace di scoprirlo.»

    Ancora seccato per quel suo modo borioso di esprimersi, ritenni più opportuno cambiare argomento.

    «Chissà cosa sta cercando quell'individuo?», domandai indicando un tipo vigoroso, vestito in modo dimesso, che stava percorrendo lentamente il marciapiede opposto, scrutando con attenzione i numeri civici. Stava tenendo in mano una grossa busta blu che evidentemente doveva consegnare a qualcuno.

    «Lei intende quel sergente della Marina in pensione», annunciò Sherlock Holmes.

    «Che pallone gonfiato!», pensai. «Sa benissimo che non posso verificare la sua supposizione.» Quel pensiero mi aveva appena attraversato la mente quando l'uomo che stavamo osservando scorse il numero sulla nostra porta e attraversò di corsa la strada. Sentimmo bussare forte all'uscio, una voce profonda all'ingresso, e dei passi pesanti su per le scale.

    «Per il signor Sherlock Holmes», esclamò entrando e porgendo la lettera al mio amico.

    Era l'occasione buona per fargli abbassare un po' la cresta. Non si aspettava certo quella visita quando aveva espresso con tanta sicumera la sua opinione. «Brav'uomo», chiesi nel tono più piatto possibile, «posso chiederle che mestiere fa?»

    «Il fattorino, signore», rispose in tono burbero. «L'uniforme è in riparazione.»

    «E prima?», insistetti con un'occhiata maliziosa al mio coinquilino.

    «Sergente, signore. Fanteria leggera della Regia Marina, signore… Non c'è risposta? Bene, signore.»

    Batté i tacchi, sollevò la mano in un saluto e se ne andò.

    Capitolo III

    Il mistero di Lauriston Garden

    Confesso che rimasi non poco sbalordito da questa ulteriore dimostrazione del senso pratico delle teorie del mio compagno. E il mio rispetto per le sue facoltà di deduzione salì alle stelle. Nella mia mente si affacciava però ancora un'ombra di dubbio: che tutta la faccenda fosse stata organizzata a mio esclusivo beneficio, per far colpo; sebbene che quello scopo così terra terra nel prendermi in giro sarebbe andato oltre la mia comprensione. Quando lo guardai, Holmes aveva finito di leggere la lettera e i suoi occhi avevano assunto quell'espressione vacua e opaca che denotava un'astrazione mentale.

    «Come diamine è arrivato a dedurlo?», chiesi.

    «Dedurre cosa?», ribatté irritato.

    «Che fosse un sergente di Marina a riposo.»

    «Non ho tempo per queste sciocchezze», rispose bruscamente; poi sorrise. «Perdoni la scortesia. Ha interrotto il filo dei miei pensieri; ma forse, meglio così. Quindi, lei non era riuscito a vedere che quell'uomo fosse un sergente di Marina?»

    «No davvero.»

    «È più facile intuirlo che non spiegare come l'abbia capito. Se le chiedessero di dimostrare che due più due fanno quattro, forse avrebbe qualche difficoltà; eppure lei è certissimo che sia così. Anche dal lato opposto della strada ho individuato una grossa ancora blu tatuata sul dorso della mano di quell'uomo. Quello sapeva di mare. Aveva però il portamento di un militare, e i basettoni regolamentari. E qui è entrata in ballo la Marina. È un uomo che si dà una certa importanza, e una sicura aria di comando. Lei avrà sicuramente notato come teneva la testa e come stava dondolando il bastone. Un uomo, inoltre, posato e rispettabile, di mezz'età, a giudicare dal suo aspetto… tutti elementi che mi hanno indotto a ritenere che fosse stato un sottufficiale.»

    «Fantastico!», esclamai.

    «Elementare», rispose Holmes, anche se dalla sua espressione mi sembrò compiaciuto della mia palese sorpresa e ammirazione.

    «Ho appena affermato che non esistono criminali. A quanto pare mi sono sbagliato, guardi qui!», mi gettò la lettera che gli aveva portato il fattorino.

    «Ma perché?» gridai, appena lanciato lo sguardo su di essa. «È terribile!»

    «Effettivamente, sembra un po' fuori dal comune», osservò flemmatico. «Le spiacerebbe leggermela a voce alta?»

    Questo è quanto lessi:

    « Caro signor Sherlock Holmes, uno spiacevole incidente si è verificato questa notte al numero 3 di Lauriston Garden, vicino a Brixton Road. Il nostro uomo di ronda ha notato una luce nella casa, intorno alle due di mattina e, poiché la casa risultava disabitata, ha sospettato che ci fosse qualcosa che non andava per il verso giusto. Ha trovato la porta aperta e nell'ingresso, dove non ci sono mobili, ha scoperto il corpo di un uomo, ben vestito, nelle cui tasche c'erano dei biglietti da visita con il nome Enoch J. Drebber, Cleveland, Ohio, U.S.A.. Non c'erano segni di scasso né di furto, e non è stato possibile capire come fosse morto quell'uomo. Nella stanza ci sono macchie di sangue, ma il corpo non presenta ferite. Non riusciamo a comprendere in che modo sia potuto entrare nella casa; anzi, a dir la verità, tutta la faccenda è incomprensibile. Se può raggiungermi qui intorno, nella casa vuota, a qualsiasi ora prima di mezzogiorno, sarò lì ad aspettarla. Ho lasciato tutto esattamente al proprio posto, in attesa di una sua risposta. Se le fosse impossibile venire, le farò avere tutti i particolari; e le sarei molto grato se volesse darmi il suo parere.

    Cordialmente, Tobias Gregson. »

    «Gregson è la mente più brillante di Scotland Yard», mi informò il mio amico; «lui e Lestrade sono gli elementi migliori di un branco d'imbecilli. Sono entrambi svegli ed efficienti, ma convenzionali… scandalosamente convenzionali. Inoltre, si detestano profondamente l'un l'altro.

    Sono invidiosi l'uno dell'altro, come due primedonne. Se entrambi si metteranno in gioco, ci sarà da divertirsi.»

    Ero sorpreso dalla calma con cui se ne stava lì a chiacchierare oziosamente. «Ma non c'è un minuto da perdere», esclamai; «vado a cercarle una carrozza?»

    «Non so ancora se ci andrò. Sono il satanasso più incurabilmente sfaticato pronto a tirar bidoni, e ciò avviene quando sono in crisi, perché altre volte non mi mancano di certo l'energia e la voglia.»

    «Ma questa è proprio l'occasione che stava aspettando.»

    «Amico caro, che m'importa? Supponendo che io risolva il caso, stia pur certo che Gregson, Lestrade & Co. se ne prenderanno tutto il merito. Questo succede quando non si ha una posizione ufficiale.»

    «Ma le sta chiedendo di aiutarlo.»

    «Già. Sa che sono più bravo di lui e me ne dà atto; ma si farebbe tagliar la lingua prima di ammetterlo con una terza persona. Comunque, possiamo sempre andare a dare un'occhiata. Procederò a modo mio. Se non altro, potrò farmi una risata alle loro spalle. Andiamo!»

    Si infilò precipitosamente il cappotto, agitandosi in modo tale che fu evidente che, alla crisi di apatia, era subentrata la voglia di attività frenetica.

    «Prenda il cappello», disse.

    «Vuole che venga con lei?»

    «Sì, se non ha altro di meglio da fare.» Un minuto dopo, eravamo in una carrozza di piazza diretti a tutta velocità verso Brixton Road.

    Era una mattina nebbiosa e carica di nuvole e sui tetti delle case gravava un velo grigiastro che sembrava riflettere le strade color fango. Il mio compagno era di ottimo umore e seguitava a chiacchierare di violini di Cremona e della differenza fra uno Stradivari e un Amati. Io rimasi in silenzio, col cuore greve per quel tempo così cupo e per il deprimente caso di cui ci stavamo andando ad occupare.

    «Mi sembra che lei non pensi molto alla faccenda che abbiamo per le mani», mormorai alla fine, interrompendo le disquisizioni musicali di Holmes.

    «Non ci sono ancora i dati», rispose. «È un errore gravissimo mettersi a teorizzare prima di avere tutti gli elementi. Distorce il giudizio.»

    «Li avrà presto i suoi dati», osservai, indicando col dito; «questa è Brixton Road e quella è la casa, se non sbaglio.»

    «Proprio così. Ferma, cocchiere, ferma!» Eravamo ancora a un centinaio di metri dalla casa, ma volle assolutamente scendere, e terminammo il percorso a piedi.

    Il numero 3 di Lauriston Garden aveva un aspetto nefasto e minaccioso. Era uno di quattro edifici, un po' arretrati rispetto alla strada, due

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