Dall'inferno
Di Enrique Laso
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Dall'inferno - Enrique Laso
XLIV
I
Carlos avanzò molto lentamente verso la persona che gli stava porgendo il telefono. A dire il vero, era come se non volesse afferrarlo. Avrebbe tanto desiderato che il tempo diventasse infinito e che il suo orecchio e l’auricolare non entrassero mai in contatto. Da quando lo avevano trascinato via dalla riunione con un secco: «Carlos, ti cercano dall’ospedale, è successo qualcosa alla tua famiglia», e malgrado la breve distanza che lo separava dall’ufficio attiguo alla sala riunione, aveva temuto con una paura quasi irreale gli ulteriori dettagli che uno sconosciuto, probabilmente un medico, gli avrebbe comunicato di lì a poco.
–Sì?
– Parlo con Carlos Miranda?
–Sì.
–Guardi, sua moglie e sua figlia hanno avuto un grave incidente d’auto. Deve venire qui il prima possibile.
Non fece alcuna domanda e non attese altre spiegazioni. Riattaccò il telefono, guardò attorno a sé quei volti familiari dalle espressioni strane e, improvvisamente, capì che quel momento sarebbe stato il primo di un lungo cammino infausto e oscuro.
In qualche modo Carlos sapeva che tutto quello che aveva fatto e aveva vissuto fino a quel momento non aveva alcun valore, che le nuove circostanze avrebbero richiesto l’intervento di un nuovo io e che questo nuovo io avrebbe avuto difficoltà a basarsi sull’esperienza precedente. Era curioso come la sua mente anticipasse già il futuro, come il suo cervello già lottasse per adeguarsi a una situazione imprevista e per la quale non era assolutamente preparato, ma per cui il suo subconscio aveva già cominciato a lavorare.
«Non voglio sapere la verità.»
E nonostante le afflizioni che aveva nel negare l’evidenza, aveva sempre più chiaro che la tragica previsione nella sua testa si sarebbe realizzata di lì a poco, e allora quella catena di speculazioni avrebbe avuto un valore incalcolabile perché la speculazione lascia sempre, tra le sue possibilità, spazio alla speranza. Una volta confermati i fatti che lo affliggevano, non ci sarebbe stato spazio per nient’altro all’infuori della sofferenza e del dolore.
«Non voglio andare in ospedale.»
Si ripeteva più e più volte queste parole mentre i suoi piedi avanzavano verso la sua auto, mentre le sue mani afferravano il volante, mentre guidava sulla tangenziale. In breve, mentre tutto il suo corpo imponeva la ragione al desiderio infantile della negazione.
Carlos ebbe la certezza che sarebbe stato meglio farla finita per sempre cinque minuti prima, durante quella noiosa riunione del lunedì pomeriggio, che sarebbe stato meglio fermare il tempo e rimanere nella tranquilla volgarità della vita quotidiana.
II
Sua moglie e sua figlia erano morte. Rimaneva la consolazione che almeno era successo senza che soffrissero, sul momento... o almeno questo gli avevano assicurato. Un incidente stupido, quasi ridicolo. Venivano giù dalla montagna dove aveva piovuto dopo più di quattro settimane. Questo aveva provocato la formazione di fanghiglia sull’asfalto e che il terreno diventasse particolarmente sdrucciolevole. In un punto (non sapeva concretamente quale) sua moglie aveva frenato con forza e l’auto era scivolata impotente in un piccolo burrone.
Era curioso perché a Laura (sua figlia) piaceva pattinare sul ghiaccio. Certamente in un primo momento le sarà sembrato divertente vedere come, mentre la mamma perdeva il controllo dell’auto, quest’ultima sembrasse quasi pattinare, proprio come era solita fare lei molte domeniche.
Non era la prima volta che tutte e due andavano da sole in montagna a trascorrere la giornata. Molti fine settimana lui rimaneva a casa per finire qualche relazione per i lunedì seguenti o semplicemente per rivedere dati e statistiche di vario genere.
A volte Carlos condivideva quei momenti in famiglia, ma la sua testa non smetteva mai di pensare al lavoro e a stento prestava attenzione a quello che sua moglie o sua figlia gli dicevano. Era un alto dirigente come qualsiasi altro, così assorto nel suo lavoro che la sua mente aveva pochissimo tempo per distrarsi con altre cose che non fossero relazionate a esso.
Ora sua moglie e sua figlia erano morte e una specie di voragine verso l’ignoto si apriva davanti ai suoi piedi. Nonostante la distanza immensa che si c’era tra lui e la sua famiglia, si sentiva ancorato a quella sicurezza ferrea e inespugnabile della vita quotidiana, a tutto ciò che è per sempre e non ammette alcun cambiamento. O almeno così credeva fino a quel maledetto e fatidico lunedì.
Per quanto potesse sembrare curioso e spregevole, era stato proprio dall’incidente che Carlos aveva cominciato a prendere coscienza di quanto volesse bene a loro e di quanto aveva bisogno di loro. Fino a quel momento erano state lì, sempre lì, e non se n’era mai reso conto.
Da quel giorno il suo ritmo di vita frenetico e stressante, più dal punto di vista mentale che fisico, si era placato progressivamente, come sottomesso a una carica che aumentava il suo peso lenta e inesorabile, fino a divenire capace di immobilizzare qualsiasi tentativo di agitazione o di cambiamento. Carlos intuiva, quasi come un osservatore imparziale ed esterno alla sua esistenza, che stava raggiungendo una nuova fase di stasi e malessere, e che tutto quello che aveva vissuto fino a quel momento non contava affatto in quanto, ciò che si prospettava, non assomigliava affatto alla sua vita precedente.
E così intratteneva la sua mente, cercando di far trascorrere velocemente il tempo in cerca di qualcosa, anche se non sapeva esattamente cosa.
Era anche curioso che nell’ora esatta dell’incidente Carlos aveva tra le sue mani una foto di sua moglie (Alicia) che era sulla scrivania del suo ufficio e che dopo averla guardata per alcuni secondi, aveva sentito una fitta nei suoi occhi, come quando comincia un’emicrania. Poi aveva smesso di sentire...
III
Esteban (suo padre) lo guardava con tranquillità, in uno stato di pace e calma che sono propri solo dell’esperienza e di una fede forte e incrollabile. Sebbene anche lui molto afflitto, sapeva che il mondo non smetteva di girare per coloro che continuavano a vivere su questa terra.
–Carlos, figliolo, devi solo far passare del tempo. Il tempo è l’unica medicina per situazioni così terribili.
Si guardò le mani. Erano coperte di fango e di alcuni fili d’erba. Quella terra, che aderiva alle sue mani con forza grazie a un po’ di umidità, gli dava una prospettiva diversa della sua breve esistenza, anche se non così breve come quella della sua figlioletta.
–Non lo so papà, non lo so...
–Ora tutto ti sembra così difficile, e questo è normale. Quando tua madre ci lasciò io provai le stesse cose.
–No... Io ho perso anche Laura. Tu non hai mai perso un figlio.
Suo padre si alzò e volse lo sguardo verso l’orizzonte. Il sole aveva già assunto la forma imprecisa di una mezza arancia, che stava per essere inghiottita da un qualche gigante senza scrupoli. Doveva controllare i suoi impulsi, non entrare in competizione con