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La terra del ritorno
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La terra del ritorno
E-book171 pagine2 ore

La terra del ritorno

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Info su questo ebook

Un romanzo che arriva dritto al cuore. Che fa capire come ognuno di noi può trovare la propria felicità nel posto in cui nasce senza dover per forza cercare terre nuove. Migliori. Bisogna lottare per la propria identità e per i propri sogni, perché ne vale sempre la pena. Ed è meraviglioso assistere alla rinascita di tutto un paese, della propria terra, grazie a giovani come Turi, protagonista del romanzo, andato altrove per conoscere, imparare e poi tornato introducendo nuove mentalità. Cosicché il paese da morto che è riprende a vivere. Perché la terra in cui si nasce non può restare sola e tornare per restare è la sola rivoluzione possibile. La più estrema forma di viaggio.
Un libro veramente consigliato, una delle letture più belle ed emozionanti, in tempi in cui i giovani si vedono costretti a partire, lasciare i propri paesi, svestendosi della propria identità per costruirsi nuovi (falsi) connotati altrove.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mar 2017
ISBN9788868225469
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    Anteprima del libro

    La terra del ritorno - Giusy Staropoli Calafati

    Collana

    Romanzi

    diretta da

    Alberico Guarnieri

    GIUSY STAROPOLI CALAFATI

    LA TERRA

    DEL RITORNO

    Quanto narrato in questo libro è opera di fantasia.

    Ogni riferimento a cose, luoghi, persone, nomi o fatti realmente accaduti è puramente casuale.

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Isbn: 9788868225469

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com www.pellegrinieditore.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A Saverio Strati

    Sono con due cuori. Uno che mi dice: va!

    L’altro che mi dice: che vai a fare?

    Saverio Strati

    Prefazione

    E poi capita, all’improvviso, seduto al tavolo d’un ristorante, in fila davanti a un ufficio, sul tram, a bordo della metro, intento a fare qualunque cosa, anche la più piacevole, in una città del nord, o d’oltre frontiera. Sì, accade quasi senza segni premonitori, se non un disagio privo di spiegazione; senti di aver bisogno di un numero scritto dietro alle spalle, in grande, per essere riconosciuto, e quello sei, una cifra. E chi se ne frega se, a spremerli, i tuoi codici genetici siano capaci di parlare in una qualunque delle lingue nate su una qualsiasi delle sponde del Mediterraneo per narrare l’anima di stirpi antiche, i miracoli degli Dei e poi quelli di Dio e sussurrare delle speranze di un via vai infinito che ha attraversato lo Jonio e il Tirreno. Succede, come il fulmine scagliato, a scelta, o da Zeus o da Giove, di annunciare con la luce il suono cupo del tuono che scuote un cuore oppresso dalla colpa. Ti ritrovi nudo in vetta a Montalto, osservi con meraviglia il fiume di terra tuffarsi in acqua per riemergere oltre lo Stretto e sai di averlo un posto nel mondo.

    A Turi Nassi capita ciò che succede a ogni figlio della terra descritta da Repaci, le orecchie si spalancano e lesto vi s’infila il richiamo, e per alcuni diventa un ordine a cui non si può disubbidire, e si va via di notte eliminando ogni traccia della propria presenza per cancellare le prove dell’abbandono, – ventiquattr’ore di Calabria ed è come se non si fosse mai andati via –.

    E la storia che state per leggere è il racconto di una scelta, una decisione a cui milioni di calabresi di generazioni diverse sono stati chiamati almeno una volta nella vita e che, qualunque sia stata, ha arato l’anima, incidendo solchi di dolore quasi impossibili da colmare.

    È la storia di una scelta che però è doppia, perché oltre a quella per il ritorno impone al protagonista di combattere la guerra dell’amore e levare le bende agli occhi del cuore per riconoscere la metà essenziale della propria esistenza, quella che giace con te sull’argine di una fiumara e ha dentro la forza delle acque sacre che sgorgano dai seni dall’antica madre aspromontana.

    Anzi, è la storia di una scelta tripla: ritorno, amore e lotta. Perché un Sud senza un mostro che lo minacci non può esistere, e un Sud senza un paladino che lo difenda è una bestemmia. Turi cercherà di essere migliore di Senofonte, di Glauco e di Rolandino: tornare, amare e difendere la propria terra.

    Pietra Grande è il posto dei posti di ogni calabrese, che vede il mare e la montagna, e sta sullo Jonio e sul Tirreno, plana da falco, dalla Sila all’Aspromonte e accarezza i pini delle Serre. È la storia del Sud, non di un paese soltanto, di un Sud immerso in un’epoca precisa eppure indefinita, narrato in fatti minuziosamente descritti eppure dai margini elastici che lasciano entrare ogni fatto nostrano, con un ritorno in vita del più montanaro e aspro degli scrittori calabresi, Saverio Strati che rinasce per prendersi cura della sua Tascia, per rifar pace con la sua Calabria per dire con parole nuove tutto l’amore per la sua terra, che spesso la sua terra non ha capito. Saverio rinasce per non morire più e facendosi seme di Turi rivendica il diritto di esistere di un mondo che viene ricco dalla profondità del tempo e vuol andare ricco oltre il limite temporale di una sola vita.

    La terra del ritorno è quella che a ogni alba apre la vita col profumo del pane appena uscito dal forno, frutto della fatica del giorno prima che nutre la fatica del giorno in corso e sfama senza posa bocche degne e indegne, i giusti e gli ingiusti, i Caino e gli Abele. Riempie la pancia a Giuda perché non tradisca più e strafoga i malandrini costringendoli a tornare calabresi veri e dare la vita per la propria terra.

    Pietra Grande è un nido di patrioti su cui sta per avventarsi l’artiglio del rapace, un covo d’anime in un piccolo paradiso minacciato da un nemico potente, che viene da lontano, un nemico che pare invincibile e una perdizione che sembra segnata. Anime multicolore, straziate e divise dalla paura ma mai sconfitte che alla fine il nemico vero lo trovano dove quasi sempre sta, covato in grembo, dentro di loro.

    E a Giusy tutto l’amore che ha per la sua terra non gli stava più dentro al cuore, come acqua di fiumara le è uscito fuori, di testa e di pancia, e ha disegnato un sentiero lastricato dalle lacrime di quanti sono via, per raggiungerli, e come una preghiera al pane caldo diventare l’augurio che per tutti quelli che la sognano ci sia la Terra del Ritorno.

    Gioacchino Criaco

    Aria di casa

    A ogni ritorno, l’aria che respiravo si avvertiva saporita come il sambuco con il quale mia madre guarniva le pitte filate, che ogni domenica mattina alla buon’ora, infornava con le sue mani sperte, assieme al pane, assiso dentro al forno come alla destra del Padreterno. L’aroma della mentuccia e del rosmarino li sentivo così come di solito abitavano la memoria e i sensi nel tempo della lontananza. Il basilico, prepotente e ostinato, che non spartisce mai l’aria di casa con altri odori, era perfettamente allineato, nudo nella terra, e in vasi di terracotta sopra i davanzali. Una carezza lenitiva per il mio olfatto alienato dal fumo gretto delle fabbriche. Insistente si diffondeva il canto delle cicale mezze pazze, e le altre mezze cìote, che friniscono schiattando, quando fa la ritirata il sole. Gli ulivi distribuivano a mezz’aria ombre rigogliose, e i fichi a melanzana, rallegrati dalle mille fantasie del giorno, si lasciavano assaggiare corrompendomi come l’aria che si rigonfiava tutta intorno, eccitata di sentirmi muovere tra le sue cosce aperte e i seni turgidi di piena estate. Il paese mi si presentò ancora cotto di sonno. Nel moto dei pochi corpi svegli, facevano ancora una mezza rema i resti dell’odore sacro del grano.

    Il primo saluto fu per mia madre. Un abbraccio stretto e un bacio sulla fronte, respirando aria di casa.

    Lei mi fece un segno di croce sopra la fronte e lodò Gesù Cristo sottovoce con gli occhi rivolti al cielo sopra la nostra testa. Poi asfissiandomi al petto in un materno abbraccio, mi accompagnò dentro casa. La corrente del vento tipico dell’estate la si percepiva immediata addosso come un piacere. Vagabonda da una stanza all’altra. In un unico circolo d’aria. Tutto appariva bello come quella madre che mi accoglieva. Sacro talvolta.

    La valigia la posai al centro della sala da pranzo. Una tavola apparecchiata di nuovo mi aspettava di già bella e pronta in cucina. Era lì che divoravamo a giro pensieri e cibo allo stesso modo e nello stesso tempo. A tavola si concludevano le cose più belle. Mio padre lo trovai con una mano sulla faccia del pane e l’altra sulla sua fronte rugosa. I pensieri che aveva erano qualcosa di più. In fondo, il mio saluto non sarebbe stato né il primo né l’ultimo. Non l’aveva mai benedetta la mia partenza Peppino Nassi. Ma tutte le volte che tornavo, ringraziava il Signore di rivedermi ancora. Questa volta era diverso però. Aveva una tale cera sopra il viso da farmi paura. Stranito da una massa di pensieri che lo incupivano. Un ritorno, il mio, incapace di fare ombra sia sul pane che teneva stretto sotto il suo palmo antico, sia sul volto piegato dalla durezza della mano che lo copriva.

    – È tornato il medico – disse festante mia madre.

    – Nostro figlio Turi è tornato, Peppì!

    Si volevano un bene dell’anima, questi due genitori qua. Mai un litigio in una vita intera.

    – Eccoti – disse mio padre, rassettandosi quel po’ di capelli rimasti a farfugliare sulla sua grande testa.

    – Finalmente sei tornato! – esclamò allungandomi la mano sulla spalla.

    Quella pitta di pane sopra il tavolo pareva osservasse ciò che accadeva con la consapevolezza del tutto e del niente.

    Qualcosa la sapeva pure il pane.

    E cominciai a pensare che forse qualche colpa, non sapevo ancora per cosa, l’avevo anch’io, che avevo lasciato casa e il paese troppo presto, per andare a fare il medico altrove. Lassù, dove forse le occasioni erano più abbondanti e la carriera alla quale miravo un continuo progresso. Al paese, eravamo tutti niente e nessuno. E tali si rimaneva a vita. Quasi fosse la regola del Sud. E quella vita stretta, anzi strettissima, la rinfacciavo a mio padre da sempre. E faticava a comprendermi lui, cosicché né le sue parole, tanto meno la fatica grande della quale si caricava per potermi crescere come Dio comanda, servirono a togliermi dalla testa quell’Altitalia grande e benevola alla quale aspiravo sin da bambino.

    – Sono felice che sei tornato. Il mio Turi – disse mia madre, abbracciandomi per l’ennesima volta.

    – Che bella mamma che tieni. Eh, Turi, Turi! – sospirò mio padre senza perdere le rughe pietose della fronte, con le quali pareva ci avesse fatto un patto.

    – Ma che dici, Peppì – e arrossì come quando ero bambino e papà le schioccava baci in piena bocca senza vergogna.

    Era la Madonna di casa mia madre. Un portamento composto, le mani spertissime e una bocca saporita senza mai parole che non fossero date dalla bontà che teneva per grazia di Dio.

    Mio padre, che pur provandoci non era riuscito a nascondere mai nulla, tantomeno un sentimento di sdegno, com’ero certo fosse quello che lo crucciava, di tutto punto, ritraendo la mano da sopra il pane, si diresse verso la porta, e con in capo la coppola di sempre, uscì scattoso. La cosa m’impensierì. Lo vidi afflitto, come uno che va in cerca di un posto dove fare a pugni con i propri tormenti. Quell’uomo era mio padre e quella in cui tornavo a stare la mia casa. Tutto faceva il mio paese. Non c’era tempo da perdere. Il medico di famiglia ero io, e quella cancrena che lo ammalativa toccava a me guarirla. Lo seguii come da bambino. Lui avanti e io dietro. I suoi passi grandi e subito i miei.

    La Filanda, ove un tempo vi si filava la ginestra, pareva la meraviglia delle terre. Era adorna di sette bellezze più una, sempre. E ti scialavi il cuore solo a guardarla quella terra; a respirarla quell’aria. A passo spedito e spinto, mio padre si diresse nell’orto a coccolarsi la menta e il basilico che a ogni stagione ci inebriavano del loro profumo. A capo chino, con le mani inasprite dalla fatica, lo vidi sferrare con furia un pugno contro il suolo.

    – Figli di cane! Questa terra è mia.

    Mi avvicinai piano e quando gli fui a un passo, chiesi: – Che succede, pa’?

    – Niente, Turi. Niente. Questa terra un giorno sarà tua. Ricordatelo figliolo – guardando tutto intorno.

    Mio padre sperava che un giorno sarei tornato a dissodarla e farla più buona di com’era, la sua terra. Era uno tosto mio padre. Ma sapeva di tenere testa a chiunque tranne che a me. Potevo farmi più tosto di lui se volevo. E neppure quel giorno riuscii a resistere a starmene citto, di fronte alla disperazione che gli leggevo in viso. Con un pugno forte il doppio del suo, sferrato contro lo stesso suolo dissi: – Che cazzo succede, pa’?

    – Sono cambiate tante cose, Turi.

    – Quali cose, pa’? Quali cose?

    – Tutto è cambiato Turi. Tutto! Ma io no. Stanne certo figliolo, io no!

    A perdita d’occhio mi girai tutta la terra in un lampo. Oltre quel che si vedeva. Era bella davvero. Tanto che quella terra e mio padre mi apparvero improvvisamente allo stesso modo. Come fossero la stessa e identica cosa. E lo erano. Vivi e reali uguali. Quell’uomo, Peppino Nassi, consumato dalla fatica, che se ne stava con la fronte al suolo da una vita, era mio padre; quella che tenevo sotto i piedi era la mia terra. Sì la mia terra! Tutta la Filanda era mia.

    Con una goccia d’acqua caduta giù dall’occhio all’improvviso, una lacrima forse, mi bagnai le labbra in fretta. In tempo perché mio padre non se ne accorgesse.

    Dai – gli dissi – torniamo a casa, pa’. Si è fatto tardi.

    E mentre la terra ci rimaneva alle spalle, gli diedi la mano come quando ero bambino.

    – Sono tornato, pa’. Sono tornato!

    Al rientro a casa il sole latitava in cielo già da un pezzo. Mia madre, la trovammo seduta di fronte alla finestra, a capo chino. Era alla sua ultima posta. Snocciolava la coroncina del santo rosario, che era una bellezza. Mia madre sapeva e taceva. Conservava

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