L’altra faccia della luna: Emozioni e Psicoanalisi
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La prima edizione di questo libro, per un insieme di ragioni personali e professionali, non ebbe la diffusione e la risonanza sperate. Claudio, sebbene conscio del suo valore e dei suoi meriti, era persona schiva e discreta e manchevole di quel tratto narcisistico che gli avrebbe forse reso più facile proporre e diffondere il suo pensiero in materia di psicoanalisi. La riproposizione del suo scritto è il mantenimento di una promessa. È un dono alla sua memoria. È soprattutto la speranza che il suo pensiero venga ripreso e trovi risonanza.
L’altra faccia della luna è la ricerca di un’armonia sottesa alle cose umane. È la fiducia indulgente per le risorse di ciascuno, che sollecita a cogliere la verità profonda di chi ci chiede aiuto, vedendo fra le righe della sua sofferenza la mano che ci tende perché possiamo alleviarla, stendendo un ponte comunicativo che proprio nel riconoscimento delle emozioni trova la possibilità dell’offerta, e dell’accoglimento, della trasformazione.
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Anteprima del libro
L’altra faccia della luna - Claudio Migliavacca
Note
Claudio Migliavacca
L’altra faccia della luna
EMOZIONI E PSICOANALISI
a cura di Roberto Carnevali
Prefazione di Gabriella Ventura Migliavacca
Psiche Libri
© 2019 Psiche Srl, Pioltello (MI)
© 2006-2018 FrancoAngeli Srl, Milano
Edizione: maggio 2019
ISBN: 9788832183030
Psiche Srl
Viale San Francesco, 16 - 20060 Pioltello (MI)
Tel. 3921511536
e-mail: direzione@psichesrl.com
I libri di Psiche sono disponibili qui:
http://www.psichesrl.com/
Collana Psicoterapia e...
diretta da: Roberto Carnevali
Immagine di copertina presa da una piastrella su un muro di via Fioria a S. Michele di Pagana (Rapallo - GE) rielaborata da Luca Migliavacca
A Camilla, Isabel, Alice, Leonardo, Vittoria
PREFAZIONE
Roberto Carnevali, curatore di questa nuova edizione de L'altra faccia della luna, mi ha chiesto di scrivere una prefazione. Provo imbarazzo. Per me è un esordio, e la prima persona con cui vorrei confrontarmi è proprio Claudio, il Migliavacca
, il Miglia
per gli amici. Ma... lui non è più qui.
Per amore e per rispetto della sua volontà espressa, supero lo scoglio.
La malattia lo aveva già minato e lui ragionava su come riproporre questo lavoro, era un pensiero costante; quando poi comprese che la sorte stava avendo il sopravvento su di lui e non avrebbe più avuto forza e tempo per dedicarcisi mi fece promettere di collaborare con Roberto per ridare alla luce e per dare luce al suo lavoro.
La prima edizione, così come il suo approccio in generale, per un insieme di ragioni personali e professionali, non ebbero la diffusione e la risonanza sperate. Claudio, sebbene conscio del suo valore e dei suoi meriti, era persona schiva e discreta e manchevole di quel tratto narcisistico che gli avrebbe forse reso più facile proporre e diffondere il suo pensiero in materia di psicoanalisi, che per me, non addetta ai lavori, sintetizzava in "si tratta di passare dal concetto di ‘cogito ergo sum’ a quello di ‘sentio ergo sum’ , e agli amici che durante la stesura gli chiedevano di cosa parlasse il suo libro rispondeva
la psicoanalisi secondo Migliavacca". Poi sorrideva.
E se mi difettano le competenze per apprezzare o valutare la psicoanalisi secondo Migliavacca
, sia in assoluto sia in rapporto alle diverse correnti di pensiero, venticinque anni di vita con lui mi consentono di affermare quanto elevate fossero la sua capacità di ascolto e di sentire
e cogliere le emozioni anche nel più assoluto silenzio. E quanto grandi fossero la sua umanità e la tenerezza che nutriva nei confronti delle persone in quanto tali. Numerosi sono stati i suoi ex pazienti, a me fino ad allora sconosciuti che, lui scomparso, me ne hanno spontaneamente restituito un ricordo caldo e grato.
La riproposizione del suo scritto è il mantenimento di una promessa. È un dono alla sua memoria. È soprattutto la speranza che il suo pensiero venga ripreso e trovi risonanza. Perciò questo libro è dedicato ai cinque amatissimi nipoti (ai quali, ancora piccoli, cercava di spiegare il senso delle cose e trasmettere la sua visione della vita), in particolare a Camilla, che da poco ha intrapreso gli studi di psicologia.
Desidero ringraziare Roberto e Marina, Luca, Sandro, Nadia, Simonetta, Luana e Marco e gli amici di Lavagna e Leivi, tutti in vario modo e intensità coinvolti nella gestazione di questo progetto. Ognuno di loro ne conosce il perché.
Gabriella Ventura Migliavacca, aprile 2019
PRESENTAZIONE
Ho conosciuto Claudio Migliavacca nel 1976, e le nostre vite hanno viaggiato per quarant’anni in parallelo, con uno scambio che ha arricchito entrambi, sia per le circostanze che di volta in volta favorivano una sorta di complementarietà di ruoli, sia per il legame affettivo che via via si è costituito e sempre più consolidato, permettendo ad entrambi di riconoscere vicendevolmente quegli aspetti profondi che solo una vera amicizia permette di cogliere.
Inizialmente siamo stati compagni di formazione come psicoanalisti, poi lui docente e io allievo alla scuola di specializzazione della Società GruppoAnalitica Italiana (SGAI), poi è stato mio supervisore per cinque anni sempre nell’ambito della SGAI, e poi... amici fino alla fine. E nel lungo periodo successivo alla conclusione del mio training formativo alla SGAI (avvenuta nel 1989) ho avuto l’occasione di esprimergli la mia gratitudine offrendogli la mia attitudine allo scrivere e la mia dimestichezza col mondo editoriale, diventando il suo editor, che, con affetto e rigore al tempo stesso, leggeva i suoi scritti prima della pubblicazione. E L’altra faccia della luna fu proprio il momento in cui maggiormente la nostra collaborazione trovò la sua forma espressiva più compiuta. Tant’è che nella prima edizione, uscita da FrancoAngeli nel 2006, la dedica era così espressa:
Ringrazio mia moglie Gabriella per la pazienza dimostrata durante la lunga gestazione di questo lavoro, e Roberto Carnevali per i suoi commenti, puntuali e affettuosi.
La dedica di questa edizione, voluta da Gabriella, sostituisce giustamente quella, non essendo più necessario sancire la sinergia che si è creata fra noi, accomunati nella prima dedica e oggi accomunati nel voler far rinascere questo lavoro di Claudio, così importante per lui e per noi che ce ne facciamo portatori.
La prefazione di Gabriella mi dà l’opportunità di centrare i punti essenziali di questa riproposta. Il fatto che Claudio non sia riuscito ad offrirsi al pubblico in modo consono al valore, alla complessità e alla significatività di questo libro rende non solo opportuna ma doverosa questa pubblicazione, per dare a lui il giusto riconoscimento e a chi leggerà l’opportunità di approfondire un tema fondamentale e centrale in psicoanalisi e più in generale nella vita: l’emozione come strumento conoscitivo e comunicativo e come movente principale di tutti gli accadimenti umani.
Tra i tanti elementi che hanno caratterizzato il nostro rapporto d’amicizia e professionale, voglio soffermarmi brevemente su quella che è stata la mia esperienza con Claudio come supervisore. A differenza della quasi totalità dei supervisori che ho avuto nella mia lunga formazione psicoanalitica, Claudio mi diceva di non scrivere le sedute, e il nostro lavoro, psicoanalitico nel profondo proprio a partire da questo presupposto, era su ciò che ricordavo delle sedute – in quel periodo (1983) avevo dato vita al mio primo gruppo terapeutico, e le supervisioni vertevano principalmente sulle mie sedute di gruppo –, sulla traccia che mi era rimasta e sul senso delle mie rimozioni e delle mie ridondanze. Se in altri contesti di supervisione posso aver appreso elementi di teoria della tecnica che possono aver affinato il mio ascolto su un piano per l’appunto tecnico
, da Claudio supervisore ho imparato ad ascoltare me stesso mentre ascolto i miei interlocutori, cercando di andare a fondo nell’intreccio di emozioni in gioco, alla ricerca dell’armonia sottesa a questo intreccio, a volte confuso come una matassa da dipanare. Non a caso mi è venuto di usare il termine armonia
. Un’altra cosa che ci accomunava era la passione per la musica, e anche qui una complementarietà di ruoli si esprimeva in serate in cui Claudio riuniva me ad altri musicanti
offrendo a noi che producevamo una musica dotata di una buona armonia il suo ascolto attento e sommamente partecipe.
L’altra faccia della luna è tutto questo. È la ricerca di un’armonia sottesa alle cose umane. È la fiducia indulgente per le risorse di ciascuno, che sollecita a cogliere la verità profonda di chi ci chiede aiuto, vedendo fra le righe della sua sofferenza la mano che ci tende perché possiamo alleviarla, stendendo un ponte comunicativo che proprio nel riconoscimento delle emozioni trova la possibilità dell’offerta, e dell’accoglimento, della trasformazione.
Roberto Carnevali
INDICE
Prefazione, di Gabriella Ventura Migliavacca
Presentazione, di Roberto Carnevali
Introduzione
Le premesse
Capitolo I
1-1 Il panorama epistemologico
1-2 Il panorama psicoanalitico
1-2-1 Il modello intrapsichico
1-2-2 Il modello dell’arresto evolutivo
1-2-3 I modelli relazionali
1-2-3-1 Il modello del campo
1-2-3-2 Il modello di D.Napolitani
Le proposte
Capitolo II
Il mondo delle emozioni
2-1 La vertigine dell’esperienza
2-2 La funzione sopravvivenziale del transfert
2-3 L’incontro col mondo
2-4 Sentimenti: affetti ed emozioni
2-5 Esperienza e confidenza
2-6 Il sistema protomentale
Capitolo III
Un modello di mente
3-1 L’area del Sè
3-2 L’area del Soggetto
3-3 La relazione simbolica
3-4 La relazione immaginaria: il legame
3-5 Innamoramento e amore
3-6 Edipo e post Edipo
3-7 La transazione narcisistica
3-8 La transazione psicotica
Capitolo IV
Il processo analitico
4-1 Il primo incontro
4-2 Il contratto
4-3 L’ascolto
4-4 L’interpretazione
4-5 La fine dell’analisi
4-6 La supervisione
Capitolo V
La prevenzione
5-1 La prevenzione primaria
5-2 La prevenzione secondaria
Bibliografia
Quarta di copertina
Non si vede bene che con il cuore.
A. de Saint Exupéry
Ricordo che quando avevo circa sette anni vidi un adulto alle prese con un bambino di un anno o due, e non sapeva come trattarlo. A me allora sembrava facilissimo capire il punto di vista del bambino, ma all’adulto, invece, ciò appariva quasi impossibile. Mi venne in mente che mi trovavo in un’età cardine: conoscevo il linguaggio
del bambino ma anche quello dell’adulto. Ero ancora bilingue
, e ricordo che mi chiesi se, nel crescere, avrei perduto quella capacità.
D.H.Stern
Non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice.
(graffito, Rovereto 2003)
INTRODUZIONE
L’invenzione del cannocchiale astronomico è dei primi del seicento, e cinquant’anni dopo si sapeva tutto della faccia visibile della luna. Dopo altri cinquant’anni la meccanica gravitazionale aveva spiegato il moto degli astri, e come il nostro satellite fosse la causa di fenomeni imponenti come le maree. Ma fino alle missioni spaziali di trent’anni fa non si sapeva proprio nulla dell’altra faccia della luna. Ancora oggi non mi risulta una spiegazione scientifica per gli influssi meno appariscenti, ma non meno intriganti, che la luna ha sui metabolismi animali e vegetali del nostro pianeta. Ad esempio il ciclo della fertilità femminile. O la ragione per la quale nessun vignaiuolo imbottiglierebbe un pregiato Brunello con luna crescente, come nessun tagliaboschi abbatterebbe nello stesso periodo un raro abete bianco, destinato elettivamente alla liuteria, pena l’ottenimento di un prodotto scadente o quantomeno bizzarro.
Dopo un secolo di psicoanalisi abbiamo a disposizione un ampio ventaglio di modelli atti a descrivere più o meno efficacemente l’attività rappresentativa della mente umana e le sue possibilità relazionali. Lo stesso inconscio
appare più aggettivo che sostantivo, più un velarsi ed un rivelarsi attraverso i sogni, i lapsus e lo stesso lavoro dell’analisi, simile al coprirsi e scoprirsi della faccia palese
della luna. Ma come per la luna, è restata sempre in ombra la parte non rappresentativa, non simbolica, non verbale della mente umana, il mondo delle emozioni, da cui il titolo di questo lavoro.
Ad occuparmi dell’altra faccia della luna sono stato spinto da una curiosa mancanza nella faccia illuminata
della psicoanalisi più o meno classica. Tutti i modelli psicoanalitici infatti comprendono sostanzialmente due modalità di essere nel mondo
ed essere rispetto all’altro
: quando abbiamo spazio
per l’altro in una relazione di scambio, chiamata, a seconda del modello, simbolica, genitale, a oggetti interi, commensale, etc; e quando riusciamo a esprimere solo una relazione d’uso, chiamata transferale, pregenitale, a oggetti parziali, parassitaria, etc. Su questa base comune dobbiamo essere necessariamente d’accordo, a meno di non condividere il radicale pessimismo sartriano, che esclude la prima eventualità, nel qual caso risulterebbe impossibile lo stesso lavoro analitico. Però le risposte ad una domanda fondamentale, come mai in certi momenti riusciamo a esprimerci in una modalità, e in altri invece in modo così diverso, mi sono sempre apparse insoddisfacenti, o addirittura assenti. Questa domanda era affiorata anche nell’ultima parte della mia analisi, procurandomi diverse bacchettate
, visto che non mi accontentavo della kleiniana invidia primaria. Poi cominciato il training e l’attività clinica, da curiosità epistemologica aveva cambiato aspetto e peso
, diventando anche un problema di etica professionale, di responsabilità verso i pazienti. Spiegare il come mai
con l’eccesso di invidia o pulsioni o con l’incapacità di gestirle non solo mi sembrava semplicistico, ma soprattutto portava lontano dalla relazione in atto, addirittura a volte a cause genetiche, mentre mi andavo convincendo che andasse invece trovato un nesso con il qui e ora. Con l’esperienza mi rendevo conto infatti che se da un lato i pazienti a volte collaboravano, e a volte si difendevano transferalmente, facendo il loro mestiere
di pazienti come diceva un autorevole maestro, anche gli analisti a volte si difendevano, in genere proprio facendo il loro mestiere
di analisti, più o meno spesso a seconda dei casi e della persona. Mi si andava formando progressivamente l’idea che i pazienti venissero da noi per collaborare, nei modi e nelle forme loro accessibili in quel momento, e che fosse piuttosto quello il loro mestiere
. Si difendono
se si sentono in qualche modo minacciati da noi, o da un nostro abbandono, in genere nel senso di un non ascolto
, o da un nostro impaziente braccarli
, sempre naturalmente per il loro bene
, come dicono i genitori: mi torna in mente l’interpretazione incalzante
proposta dal mio training kleiniano per i pazienti evasivi
. Era quindi un problema di responsabilità cercare quali fossero le condizioni che mi permettevano di essere coi pazienti
e quali invece mi costringevano a difendermi
, essendo per me
e quindi sostanzialmente, in quel momento, contro
i pazienti. L’obiettivo della ricerca, il mio ambiziosissimo Santo Graal
, diventava quindi cercare la possibilità di monitorare
in qualche misura e in tempo reale se siamo o no con i pazienti
. Ero anche convinto che trovare un senso a cui connettere i processi di transizione avrebbe potuto togliere la complessità umana dalle secche della casualità da un lato e del determinismo dall’altro. Per perseguire questi obiettivi dovevo però trovare un modello di mente con maggiore capacità descrittiva dei processi di transizione da una modalità relazionale all’altra: infatti i modelli da me conosciuti, compresi i più sofisticati come quelli di Bion o del campo
o di Napolitani, erano insoddisfacenti sul piano della transitività, il famoso come mai
. Sia chiaro che intendo sempre il termine modello
in senso debole
, come ipotesi coerenti di lavoro e di pensiero, e senza nessuna pretesa di arrivare alla realtà
.
Poiché l’attività rappresentativa della mente era già stata esplorata e descritta da tanti autorevoli ricercatori, era naturale rivolgere l’attenzione alla parte oscura della nostra mente, il mondo delle emozioni. Alla formulazione delle mie ipotesi ¹ arrivai partendo da due episodi. Il primo fu l’ascoltare una conferenza di Graziella Magherini sulla Sindrome di Stendhal
, molti anni dopo tradotta in un libro ². Ogni anno nei Servizi Psichiatrici fiorentini da lei diretti venivano ricoverati diversi turisti, in genere senza precedenti psichiatrici, in preda a crisi dissociativa acuta, crisi che regrediva quasi sempre in pochi giorni di contenimento farmacologico. In tutti i casi l’unico fattore scatenante riconoscibile era l’intensità del coinvolgimento emotivo connesso all’esperienza estetica della visita di Firenze, come i gravi turbamenti a suo tempo sperimentati dallo scrittore francese. Che un’esperienza fortemente angosciante potesse indurre stati psicotici era ben noto, a cominciare dalle psicosi traumatiche di origine bellica dei tempi di Freud, ma la guerra, o altri casi simili come la deportazione o le pulizie etniche
, sono casi estremi: forse possiamo assimilargli l’angoscia paradossale del doppio legame, ma certo è molto difficile accostargli la commozione che ci prende, ad esempio, di fronte ai tre Crocefissi della prima sala degli Uffizi. Scoprivo quindi con notevole sorpresa che anche un’emozione positiva
, come quella estetica, poteva essere psicotizzante se sufficientemente intensa. Alle considerazioni cliniche della Magherini mi venne di connettere l’angoscia della bellezza descritta da Meltzer³, poi ripresa e ampliata da Pagliarani⁴: Meltzer notava come gli psicotici
non fossero dotati del senso del bello
, fossero quindi incapaci di esperienze estetiche; e l’etimo di estetica
è proprio sentire.
Il secondo episodio è stata la lettura di una rivista non specializzata, che riportava un articolo di Nature
su un esperimento fatto in USA col classico test di Pavlov su un campione di psicotici
, con un pari campione di studenti come controllo. Dopo il condizionamento con la sequenza lampadina-scossa elettrica il campione di psicotici
non aveva presentato la tipica risposta anticipatoria ansiosa alla sola lampadina, variazione della resistenza elettrica cutanea dovuta alla sudorazione, presente invece al 100% nel gruppo di controllo. Come se la psicosi
avesse bloccato le capacità emotive, sia quelle negative, come l’ansia, che, riprendendo Meltzer, quelle positive, come la gioia e lo stupore dell’esperienza estetica.
Se un sovraccarico emotivo può portare allo stato psicotico, come se apparentemente le valvole di sicurezza
fossero saltate, perché allora non fare l’ipotesi che siano le emozioni e la loro quantità a condizionare la nostra disponibilità all’incontro col mondo, in funzione della capacità di commuoversi del momento, o con un’espressione più suggestiva, dell’intelligenza emotiva ⁵!? La dimensione e (come emozione) diventa allora il fondamento ineludibile dell’esperienza umana: se l’intelligenza emotiva nell’hic et nunc è adeguata a contenere le emozioni possiamo esserci, nel senso di vivere pienamente il vissuto condividendo l’esperienza emotiva, e poi, eventualmente, riflettere o comunicare simbolicamente. Anche se questa condivisione risponde a mio avviso al concetto freudiano di Einfühlung, l’empatia come sentire unico
, preferisco il termine commozione, meno connotato nel tempo da significati assai diversi. È questa l’area della convenienza, in cui la persona può operare le sue scelte, più o meno creative, ma comunque autentiche, per usare un termine che Napolitani connette al concetto di autore e di libertà. In presenza invece di emozioni eccedenti l’intelligenza emotiva nell’hic et nunc, si entra nell’area della necessità: il transfert subentra come una funzione difensiva e sopravvivenziale che riduce il vissuto a copioni
, magari dolorosi o angosciosi, ma rassicuranti perché ben conosciuti e familiari
, quindi contenibili, mentre l’emozione eccedente viene rimossa.
Già s’intravede un’apertura verso l’obiettivo della nostra ricerca: se l’ascolto non si rivolge solo all’altro, bensì anche a riconoscere la presenza o l’assenza delle emozioni nel complesso del nostro vissuto, abbiamo qualche possibilità di identificare nell’hic et nunc la nostra posizione relazionale rispetto all’altro, punto di partenza obbligato per una ricerca di senso.
Se poi i sensi forti
aprioristici delle pulsioni e dell’invidia non sono più necessari, la ricerca di senso può spaziare a 360°, dal qui e ora al là e allora, con beneficio immediato sulla durata e sulla fatica del processo analitico, proprio perché già il solo atteggiamento di ricerca sgombera il campo dai sensi di colpa. Una brillante analizzanda al terzo anno di lavoro mi ha chiesto: Ma è sicuro che stiamo facendo l’analisi sul serio, perché i miei amici in analisi, e ne ho molti, spesso escono dalle sedute «massacrati», mentre non solo a me non è mai successo, ma in genere esco che sto meglio!?
I sensi di colpa infatti spesso appesantiscono dolorosamente i percorsi analitici classici
, tanto da far dire a Bion che occorre qualche anno per guarire
dalla propria analisi.
Ancora prima di verificarle nella clinica, queste ipotesi mi sembravano interessanti anche perché la psicoanalisi si era occupata moltissimo dell’attività rappresentativa, molto di quella affettiva, ma aveva trascurato la dimensione e, anche se molti pensavano che è solo lì che si può fare esperienza immediata di verità
⁶. Oggi persino le neuroscienze, che per lustri hanno fatto ricerca quasi esclusivamente sulla parte rappresentativa della mente, si occupano di questa dimensione così negletta, si vedano in proposito i lavori di Damasio.
Eco usa una bella metafora per descrivere i possibili approcci a un testo narrativo:
Ci sono due modi per passeggiare in un bosco. Nel primo modo ci si muove per tentare una o molte strade (per uscirne al più presto, o per riuscire a raggiungere la casa della Nonna, o di Pollicino, o di Hänsel e Gretel); nel secondo modo ci si muove per capire come sia fatto il bosco, e perché certi sentieri siano accessibili e altri no.⁷
La metafora mi sembra altrettanto appropriata per la modalità con cui la psicoanalisi e la riflessione filosofica si sono accostate al mondo delle emozioni, le poche volte che lo hanno fatto. Come un fattore inevitabile, che bisogna considerare e cercare di controllare e gestire, nella prima accezione di Eco, una complicazione a volte necessaria per raggiungere la meta del pensiero
e dell’attività rappresentativa, sempre con il disagio di ritrovarsi in una selva oscura
.
Questa ricerca è un tentativo per capire come sia fatto il bosco, e perché certi sentieri siano accessibili e altri no
, e mi sembra risponda ad alcuni dei dubbi e delle critiche che vengono rivolte alla psicoanalisi relazionale
. È anche un tentativo di superare la scissione cartesiana tra res cogitans e res extensa, di valorizzare quanto ci rimane del linguaggio infantile
di Stern, di insinuare il dubbio che forse, come dice Damasio, Sento, quindi Sono
sia più vero di Penso, quindi Sono
.
Nel momento in cui si discute se i fondamenti della psicoanalisi sono ancora in grado di reggere, e se la psicoanalisi ha davvero bisogno di fondamenti, mi ritrovo nelle recenti parole di Sergio Benvenuto: Personalmente cerco un superamento dell’opportunismo ermeneutico non tornando all’oggettivismo delle metodologie scientifiche, ma cercando un realismo al di là dell’oggettività. È possibile avere contatto con un reale su cui la scienza (per ora) non ha presa?
⁸
Come mio solito, cercherò di privilegiare la chiarezza di esposizione, condizione necessaria per essere discutibile
, a rischio di essere considerato riduttivo. Accettare la complessità
vuol dire per me anche esporre le idee secondo le mie capacità, da un punto