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Sé implicito ed enactment
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E-book245 pagine3 ore

Sé implicito ed enactment

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Info su questo ebook

Prendendo le mosse dal concetto di “inconscio non rimosso” di 
Mauro Mancia in questo lavoro si vuole mettere in luce la relazione che esiste tra i concetti del Sé implicito e dell’enactment. Lo studio di diverse fonti, presenti nel testo con le loro idee originarie, ha permesso all’autore di raggiungere una sua teoria definendo gli enactment come le manifestazioni sensoriali delle configurazioni interne da cui il Sé implicito deriva la propria fisionomia.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2022
ISBN9788830671881
Sé implicito ed enactment

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    Anteprima del libro

    Sé implicito ed enactment - Luciano Rizzi

    cover01.jpg

    Luciano Rizzi

    Sé implicito

    ed enactment

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-6641-2

    I edizione ottobre 2022

    Finito di stampare nel mese di ottobre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Sé implicito ed enactment

    Per noi, allora all’inizio vi fu l’essere

    e solo in seguito vi fu il pensiero;

    e noi adesso, quando veniamo al mondo

    e ci sviluppiamo, ancora cominciamo

    con l’essere e solo in seguito pensiamo.

    Noi siamo, e quindi pensiamo;

    e pensiamo solo nella misura in cui siamo,

    dal momento che il pensare è causato

    dalle strutture e dalle attività dell’essere.

    Antonio Damasio, L’errore di Cartesio

    A Paola, Lorenzo e Giulia.

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    RINGRAZIAMENTI

    Nello scrivere questo libro ho scelto di riportare ampie citazioni degli autori che in un modo o nell’altro hanno espresso idee o concetti che mi sono serviti per illustrare il mio pensiero. Per due ordini di motivi, il primo è per il rispetto che ho verso le loro idee, considerando che il riassumere il loro pensiero sia un’attività che rischia di ridurre la complessità e le articolazioni delle loro riflessioni, il secondo è che il testo nasce dagli approfondimenti fatti durante il corso di studi per la preparazione degli allievi della Scuola di Psicoterapia di Ravenna alla loro tesi di specializzazione, per cui mantiene un taglio che tende ad essere un po’ scolastico. Nel complesso non me ne dispiace, anche se, forse, la lettura ne può patire risultando meno fluida. D’altronde questo studio vuole dare una visione che attraversa varie concezioni e che risente di posizioni epistemologiche anche molto diverse fra di esse.

    Sono tante le persone che mi sento di ringraziare per l’aiuto che mi hanno dato nel corso di tanti anni di crescita e di formazione professionale. Una in particolare la devo citare, la mia analista, perché è stata fondamentale nel farmi sentire compreso nel mio essere quello che ero, e che tutt’ora implicitamente ancora sono, che ha avuto la temperanza di starmi vicino anche quando non era facile rimanere.

    Indispensabile, per non perdermi durante gli anni della mia crescita come persona, è stata le agne Marie, donna semplice e piena di umanità, grazie alla quale ho imparato il valore della condivisione.

    La mia gratitudine va poi al dott. Giovanni Pieralisi che è stato mio mentore per lunghi anni e col quale ho condiviso la fondazione della Scuola di Psicoterapia di Ravenna, inoltre al Centro Studi di Psicoterapia e Metodologia Istituzionale di Milano, in particolare al dott. Paolo Coen Pirani per il rigore scientifico che ha sempre caratterizzato l’approccio al suo insegnamento e al Dott. Paolo Saccani che, dono raro, ha sempre unito la sensibilità clinica alle grandi doti di umanità.

    Una dedica particolare va agli allievi che mi hanno stimolato questo lavoro editoriale, la dott.ssa Laura Bini, il dott. Matteo Biserna, la dott.ssa Anita Bosi, la dott.ssa Jessica Galanti e la dott.ssa Alice Rava, congiuntamente alla dott.ssa Stefania Mancini con la quale ho condiviso lo sforzo per preparare gli allievi nella loro formazione durante l’intero ciclo di studi.

    In modo non banale ringrazio tutti i miei pazienti, da cui ho ricevuto molto e che ancora, dopo molti anni mi stimolano a riflettere sulle loro vicende e mi insegnano ancora tanto, in particolare, e con loro mi scuso, quelli che non sono riuscito a capire.

    Infine esprimo la mia gratitudine a tutti gli autori che grazie alla loro fatica, sono in tanti, hanno ampliato la mia conoscenza delle cose, mi hanno instillato dubbi e mi hanno consentito di pensare.

    Durante il percorso editoriale ho conosciuto due persone del Gruppo Albatros che hanno creduto nella bontà del lavoro da me svolto, il dott. Giuseppe Palladino che in maniera entusiastica mi ha convinto alla pubblicazione dell’opera e la signora Viviana Calabria che ha letto il manoscritto apportando le sue lungimiranti correzioni, dandomi l’idea di capire come si andava sviluppando il mio pensiero e passo dopo passo a dargli una forma coerente.

    A loro vanno i miei sentiti ringraziamenti.

    Il Predicato

    Dopo la stesura del testo mi sono accorto che fin da subito avevo in testa il lavoro che avrei voluto sviluppare e che cosa avrei dovuto dimostrare con esso. Ciononostante, coi pochi colleghi a cui ne ho parlato, mi è riuscito particolarmente faticoso illustrare le mie idee, dare a esse un senso coerente e soprattutto essere convincente nella loro esposizione.

    Balbettii e incertezze si accompagnavano a uno stato di imbarazzo che aumentava man mano che la conversazione procedeva. Volevo spiegarmi ma non trovavo le parole. Provavo come un’eco lontano che si riappropriava della mia persona, ma non sapevo cosa fosse. Si direbbe un’inibizione con una base nevrotica in cui le parti devono essere svelate al fine di ricomporre quel conflitto.

    In questo lavoro sostengo che non sempre è in gioco una contrapposizione fra istanze diverse e che certi fenomeni sono riscontrabili in situazioni in cui non è evidente un chiaro conflitto, dove si manifesta qualcosa che appartiene alla persona senza che essa sia in grado di riconoscerla, perché quell’esperienza non è mai entrata nella sua area di consapevolezza, neppure inconsciamente.

    Ebbene questa è la descrizione di un enactment, ho capito senza capire, sento che dentro di me si è attivato qualcosa di irriconoscibile, che viene da chissà dove ma che fa parte di me, l’ho sempre riconosciuto senza sapere di conoscerlo, è la riattivazione di qualcosa di indefinibile che contiene un sacco di cose che non afferro, che sono escluse da me seppure in modo indecifrabile fanno parte di me.

    Quando si attivano dei comportamenti che non hanno una base conflittuale e costituiscono la messa in scena di qualcosa che stupisce anche il soggetto senza che se ne possa sottrarre, allora si deve pensare che la loro genesi risieda in un’epoca della vita in cui non si era ancora costituita una struttura rappresentazionale di Sé e dell’interazione con gli altri, durante un periodo della crescita in cui ciò che accade si imprime invariabilmente nella mente dell’infante e andrà a forgiare il suo Sé implicito, il tessuto che considero la struttura primaria che ogni essere forma e che è in grado di influenzare anche le esperienze successive, anche quando ha ormai preso il sopravvento l’organizzazione più matura dell’individuo.

    Presentazione

    Questo testo rappresenta il frutto del lavoro da me compiuto con gli allievi nella preparazione della loro tesi di specializzazione. Quando proposi l’argomento che avrebbe concluso il corso quadriennale di Psicoterapia psicoanalitica della Scuola di Formazione di Ravenna, prospettai agli allievi l’idea di lavorare su come, indipendentemente dalle sollecitazioni controtransferali del paziente, o anche per queste, lo psicoterapeuta mette in campo e apre anche la propria persona alla terapia nei modi che gli sono propri e che lo distinguono da qualsiasi altro psicoterapeuta e da qualsiasi altro individuo, mettendo in gioco se stesso e la sua esperienza, quella che gli deriva dalla sua formazione e quella che gli è propria in quanto persona che è cresciuta in un particolare ambiente e che ha attraversato varie vicende, alcune affrontate nella sua analisi personale, altre, che se anche elaborate, hanno lasciato in lui delle tracce che costituiscono il suo Sé implicito e che influenzano il suo modo di essere in quanto tale.

    La raccomandazione che allora avevo fatto loro era stata che nell’affrontare questo lavoro comune non saremmo ricorsi ai paradigmi che avevamo assimilato durante l’intero percorso didattico, ma che avremmo dovuto avere il coraggio di elaborare quegli stessi concetti in una forma nuova, senza preoccuparci di tradire le conoscenze apprese, semmai di poterle integrare con quelle che potevano derivare da altri indirizzi e scuole di pensiero, tenendo sempre come punto fermo la visione psicoanalitica che ci è derivata dallo studio dei testi di J. e A.M. Sandler. Durante questo nostro percorso abbiamo accumulato una mole notevole di materiale e abbiamo affrontato varie teorie in apparente disaccordo fra di loro. Le distanze nascono da distinzioni epistemiche, oltre che da differenze nell’interpretazione dei fatti osservati, laddove il terreno comune è sempre rappresentato dalla nostra connessione con il paziente e dallo sforzo che facciamo per comprenderlo. Se sta meglio lui stiamo meglio anche noi, e questa affermazione definisce, già di per sé, la natura interattiva della relazione di cura, anche se lo star meglio del terapeuta ha una disposizione diversa ed è in funzione delle proprie vicissitudini e della sua storia unica e irripetibile.

    A ciò si può aggiungere che il terapeuta non rimane lo stesso nel corso del tempo, anche lui cambia attraverso le proprie esperienze e la capacità che ha di rifletterle, per cui durante l’incontro con il proprio paziente scopre alla fine di non essere più quello che pensava di essere e nel tempo che passa con lui ha la possibilità di capire aspetti sempre diversi di sé che lo modificano e ne fanno una persona più completa.

    Considerazioni introduttive

    Perché questo argomento? Se osserviamo con attenzione i concetti basilari del setting analitico, essi prescrivono certi atteggiamenti e condotte anche posturali riassumibili nella metafora chirurgica di Freud (1912) e nei consigli da lui suggeriti dell’astinenza, dell’anonimato e della neutralità (1915). L’astinenza implica che l’analista non gratifichi le richieste del paziente, l’anonimato richiede che l’analista non si riveli come persona al fine di consentire che venga investito dalle fantasie transferali del paziente e, allo stesso modo, l’atteggiamento neutrale stabilisce che il terapeuta rimandi al paziente unicamente l’immagine che egli ha proiettato su di uno schermo opaco. In un’epoca in cui Freud era molto impegnato a consolidare l’immagine pubblica della psicoanalisi, J. Strachey (1934) sostenne l’idea che l’analista debba mantenere la sua aurea senza rivelare i suoi aspetti reali, ribadendo il concetto di neutralità come condizione per non agire le proiezioni del paziente, anche se poi l’autore incoraggiò l’idea che l’analista, con la migliore buona volontà e per quanto attento possa stare, non potrà impedire al paziente di spostare su di lui queste varie immagini e quindi investirlo con le sue proiezioni. Freud riconosceva che esiste un’influenza reciproca nel lavoro di analisi, come ebbe a riconoscerlo nello scritto L’inconscio (1915c): È un fatto davvero rimarchevole che l’Inconscio di un essere umano possa reagire a quello di un altro senza passare attraverso la Coscienza.

    Messaggi inconsci sono trasmessi regolarmente tra il paziente e l’analista pur se il processo si muove in un’unica direzione, dall’analista al paziente, senza che l’analista abbia nulla a che fare dal punto di vista interattivo con il paziente, se non con il controtransfert, che per un lungo periodo è rimasto legato al concetto di macchia cieca e inteso come un conflitto non risolto del terapeuta.

    Negli anni ’50 e ’60 si verifica, nel pensiero psicoanalitico, un progresso decisivo per quanto riguarda il controtransfert, che cominciò a essere visto come un fenomeno importante nell’aiutare l’analista a comprendere il significato nascosto del materiale portato dal paziente. La persona dell’analista viene ufficialmente alla ribalta e cade l’illusione di un analista neutrale che resta fuori dalla mischia (P. Heimann, Racker, 1950). In particolare la Heimann sottolinea che l’analista deve essere in grado di sostenere i sentimenti che si muovono in lui, anziché scaricarli come fa il paziente, in modo da subordinarli al lavoro analitico, in cui egli funziona come specchio che riflette il paziente.

    Inoltre, ella aggiunse che …l’inconscio dell’analista comprende quello del paziente. Questo rapporto profondo affiora nei sentimenti che l’analista avverte in confronto al paziente, cioè nel suo controtransfert.

    Nel 1976 J. Sandler affronta il problema dal punto di vista delle relazioni oggettuali, e suggerisce che un aspetto importante del transfert ha a che fare con gli sforzi del paziente per indurre l’analista a giocare un ruolo e a interagire con lui secondo modalità che gli sono familiari. Questa interazione, che implica un ruolo per il soggetto e un ruolo per l’oggetto, tende a essere resa reale nel transfert mediante la manipolazione dell’analista per mezzo di segnali inconsci. Tale pressione da parte del paziente, tesa a provocare una specifica risposta dell’analista, può portare a esperienze controtransferali o a un enactment di controtransfert da parte dell’analista (un riflesso della sua rispondenza di ruolo). Dagli anni ’70 negli Stati Uniti, dove già operavano psicoanalisti come H.S. Sullivan, vengono accolte molte idee fornite dalla psicoanalisi britannica e dalla teoria delle relazioni oggettuali che portano a modificare e a sostenere il valore della comunicazione fra paziente e analista, pertanto transfert e controtransfert diventeranno via via sovrapponibili al concetto di interazione. Negli ultimi trent’anni si è sviluppato un grande interesse per la questione della soggettività dell’analista: l’analisi è un’impresa che inevitabilmente coinvolge due persone, due storie di vita in interazione dinamica, e le comunicazioni consce e inconsce emesse da entrambi i partecipanti contribuiscono

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