Preferisco vederci chiaro: e riuscirci senza lenti
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Info su questo ebook
Loredana de Michelis è psicologa esperta in rieducazione funzionale. Oltre a "Preferisco vederci chiaro", tradotto anche in francese, ha scritto, sempre sullo stesso argomento, "Il metodo Bates & gli occhiali a fori stenopeici: l'investigatore Toponi risponde" e ha tradotto e pubblicato in italiano "Vista perfetta senza occhiali" di William Bates.
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Anteprima del libro
Preferisco vederci chiaro - Loredana de Michelis
Michelis
Introduzione
È molto strano: in una società dove l’acne e il sovrappeso sono considerati veri e propri flagelli da combattere con ogni mezzo, il vizio di rifrazione è ancora ritenuto un handicap irreversibile, nei confronti del quale regna una totale rassegnazione, sia medica che sociale.
Cercando le informazioni che si trovano disperse tra le molteplici specializzazioni della medicina istituzionale, si arriva a capire come la capacità visiva sia il risultato di un delicato equilibrio tra operazioni assai complesse a livello muscolare, nervoso, cognitivo; risulta inoltre evidente che il funzionamento di questo sistema può essere facilmente compromesso da numerosi fattori, non sempre apparentemente connessi tra loro.
In maniera poco coerente però, l’attuale descrizione scientifica del vizio di rifrazione sembra limitarsi alla semplice constatazione di piccole alterazioni nella forma del bulbo oculare o delle parti che lo compongono.
Queste alterazioni si sono largamente diffuse in occidente soltanto negli ultimi cento anni e, sebbene non se ne conosca veramente la causa, sono considerate incurabili. I rimedi più diffusi sono il supporto ottico e, in alcuni casi, l'intervento chirurgico.
Tutte le osservazioni e gli studi in questo campo si concentrano principalmente sul funzionamento fisiologico dell’occhio mentre gli aspetti cognitivi, percettivi, funzionali, così come lo stato di salute generale dell’individuo, considerati di fondamentale importanza nella valutazione di altri disturbi, in questo caso sono completamente ignorati.
Sebbene le teorie a favore della reversibilità di questo difetto
siano sempre esistite, la medicina occidentale si ostina a non volerle prendere in considerazione e in passato le ha combattute con singolare ostilità: quando all'inizio del ventesimo secolo, un oftalmologo statunitense di nome William Bates osò sostenere che il vizio di rifrazione era dovuto a un’alterata tonicità muscolare e ad errate modalità percettive, quindi variabile ed eventualmente reversibile, venne espulso dalla comunità scientifica.
Oggi, con il cambiamento culturale e soprattutto economico promosso dalle medicine alternative e complementari, un numero crescente di professionisti, tra cui molti medici, si rapporta ai problemi di vista in maniera più olistica
, anche se con molta cautela.
Come psicoterapeuta ho sempre avuto modo di verificare quanto la vista sia suscettibile di forti influenze da parte della sfera emotiva e,quando lessi gli scritti di Bates, fui colpita dalle sue brillanti intuizioni sugli aspetti psicologici del vedere. Il metodo sembrava interessante e intendevo sperimentarne l’efficacia: avevo l’handicap di vederci bene, ma poiché Bates sosteneva che la vista è flessibile, pensai che avrei potuto imparare a produrre un vizio di rifrazione.
Iniziai così un processo di apprendimento difficile e da autodidatta: trovavo sempre molti insegnanti che mi spiegavano come si fa a vedere bene, cosa che evidentemente io sapevo già fare inconsapevolmente, mentre nessuno riusciva a spiegarmi con altrettanta chiarezza come si fa a vedere male.
Da questo percorso inverso, che mi ha portata a diventare un educatore visivo con la peculiare specialità di saper vedere male a comando, nasce un libro che, come molti altri, tenta di spiegare e di divulgare la teoria che fu di Bates e di tutti coloro che successivamente la perfezionarono.
Il mondo al contrario
Quando facevo le elementari, negli anni settanta, i bambini con gli occhiali erano ancora una rarità.
Io ero un piccolo scienziato estremamente bisognoso di sperimentare e in caso di assenza dell’unico compagno di classe in possesso di tali fantastici aggeggi, mi toccava aspettare l’intervallo e partire per i corridoi a caccia di qualcun altro che li portasse.
Avevo imparato che non si poteva assolutamente esordire con un semplice: Mi fai provare gli occhiali?
Era come chiedere a qualcuno disperatamente attaccato a una bombola di ossigeno di poter dare una ciucciata; persino più difficile che farsi prestare una sedia a rotelle.
Il fatto che i bambini con gli occhiali fossero così reticenti e gelosi del loro misterioso giocattolo, mi rendeva ancora più curiosa e determinata a impossessarmene.
Iniziavo così una manovra di accerchiamento tesa a intontire la mia preda con lunghe e complicatissime spiegazioni sulla necessità di avere in consegna gli occhiali per una mezzora, giusto il tempo di dimostrare al resto dell’umanità in fremente attesa, che questi erano strumenti dalle potenzialità ancora inesplorate, in grado di accendere un fuoco con il solo aiuto del sole, di uccidere di afa una formica, comandare a distanza i pensieri di uno della Terza B.
Se la preda opponeva resistenza al progresso scientifico, passavo all'attacco e sottraevo gli occhiali con abili mosse da prestigiatore.
Tutti i bambini della scuola che portavano occhiali mi stavano alla larga e molti di loro, quando mi vedevano, si mettevano a correre o chiamavano la maestra. Gli insegnanti però, erano restii a prendersela con una prima della classe la cui mamma partecipava sempre alle riunioni e poi quella era una scuola di periferia, alle prese con grossi problemi di delinquenza minorile: difficile credere che qualcuno scappasse davanti a una bambina e per giunta piuttosto gracile. La scarsa imponenza fisica, però, non mi aveva impedito di vincere la gara di corsa scolastica della scuola, staccando in volata anche i maschi di quinta: il fatto che gli occhialuti cercassero di scappare, quindi, non mi preoccupava particolarmente.
Una volta in possesso del maltolto mi mettevo in salvo arrampicandomi velocemente sul tabellone della pallacanestro e mi sedevo nel cesto. Il momento era solenne: inforcavo gli occhiali e il mondo cambiava.
Più le lenti erano forti, maggiori erano i mutamenti: colori diversi, nuove prospettive. Come su un Ottovolante, il panico mi assaliva e dovevo resistere alle sensazioni sgradevoli nella testa e nello stomaco. Roteavo gli occhi, mi mettevo a testa in giù, stavo immobile, poi dondolavo. Inseguita da un’orda di mostri deformi in grembiulino e urlanti maestre lillipuziane, sfuggivo saltellando come un tarzan ubriaco, mentre cercavo di cogliere tutti i segreti di quel mondo alieno dove occorrevano nuovi punti di riferimento per muoversi e valutare le distanze.
Il viaggio non durava mai molto: un po’ di mal di testa, una strana tensione degli occhi, come se cercassero di uscire dalle orbite, ed ecco che gli occhiali smettevano di fare effetto. Con mia gran delusione, diventavano dei vetri e basta.
A quel punto li restituivo e passavo alla fase numero due, quella dei mondi invertiti: senza occhiali non riuscivo a vedere niente, era il mondo solito a essere diventato una poltiglia fusa.
Mentre vagavo in cerca di appigli, c’era sempre qualcuno che annunciava che ero diventata cieca e mi stava bene, visto che non bisogna mettere gli occhiali se non te l’ha detto il dottore. Ma per quanto insanamente ci sperassi, neanche questa magia durava a lungo: dopo qualche minuto la nitida realtà tornava da me come un cane al suo padrone.
Mi ha sempre affascinato l’idea di poter vedere e sentire le cose come se fossi un’altra persona: resta questo, per me, il tipo di turismo più interessante.
In quegli anni ero irresistibilmente attratta da tutti coloro che sembravano percepire in modo diverso ed in particolare da chi era in possesso di occhiali, busti, stampelle, apparecchi per i denti: strumenti che io consideravo una specie di segreta droga psichedelica ufficialmente giustificata dal dottore.
Gli insegnanti cercarono di farmi smettere, dicendomi che se avessi continuato a usare occhiali che non dovevo portare, mi sarei danneggiata la vista. Io però non ci ho mai creduto, sentivo di avere la cosa sotto controllo. Ero una bambina straordinariamente agile e leggera e il mio corpo rispondeva a tutti i comandi come una fantastica astronave. Capivo che per altri il corpo poteva diventare un impedimento, in certi casi, ma non il mio, neppure se avessi voluto staccarmi da terra come un razzo: sarebbe bastato volerlo con determinazione e soprattutto trovare il bottone giusto.
Perplessità
Riuscire a vedere attraverso un paio di lenti prescritte per un difetto che non si ha, richiede un