La consapevolezza filosofica
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Socrate, Epicuro, Nietzsche, giganti della tradizione filosofica con i quali Valentino Bellucci si confronta in una serie di brevi saggi in cui cerca di catturare la loro intimità
In questi saggi il filosofo Valentino Bellucci si confronta con i giganti della tradizione filosofica:
Socrate, Epicuro, Nietzsche, ma lo fa in modo più intimo, segreto, cercando di catturare l’intimità di questi pensatori. Come scrive l’autore a proposito di Epicuro: “Forse è giunto il tempo di rientrare nel giardino di Epicuro, ma non più come è stato fatto una volta, demarcando confini tra il giardino e il caos esterno, poiché adesso nessun confine è più demarcabile. Il nuovo giardino di Epicuro è un giardino virtuale che possiamo disseminare in ogni punto dello spazio, che possiamo far sbocciare da ogni atomo, per poi farlo scomparire subito dopo. Solo così la consapevolezza epicurea, con la sua drammatica serenità, potrà essere in ogni punto e in nessun luogo. Ed allora, forse, riusciremo a intravedere questo enigmatico filosofo; chi era in realtà? Quanto dovette soffrire per cercare nella filosofia la disciplina del farmaco? Quante volte ha osservato le foglie, i rami del suo giardino? Aveva capito che dobbiamo essere noi stessi la nostra cura? Aveva compreso che tra la linfa delle piante e il nostro sangue c’è la differenza che c’è tra due musiche distanti?”
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Anteprima del libro
La consapevolezza filosofica - Valentino Bellucci
73.
Nota introduttiva
Perché questa raccolta di saggi? Perché parlare di Socrate, della consapevolezza filosofica (assai diversa dalla consapevolezza dei singoli filosofi), del corpo e del suo oblio
da Cartesio fino a Internet? Perché parlare anche di Bergson, Ortega, Simmel, Blanchot e di Epicuro? Perché scandagliare Nietzsche? Perché la riflessione filosofica non ha confini prestabiliti e perché il movimento che attraversa questi scritti è un unico movimento che intende recuperare e mettere in primo piano due aspetti, due elementi fondamentali della realtà umana: l’essere lucido e l’essere vivo.
Krishnamurti notava che La vera natura del pensiero è frammentaria, e ciò causa confusione e dolore. Il pensiero ha diviso il mondo in nazionalità, ideologie e sette religiose, quelle grandi e quelle piccole. […] Il pensiero ha diviso l’esperienza in esteriore e interiore, e da questa separazione deriva conflitto e controllo. […] L’armonia non è un frutto del pensiero; giunge con la percezione della totalità.
³ Se Krishnamurti sta parlando del pensiero tout court per la filosofia non c’è speranza: essa deve svanire perché l’uomo possa essere felice, ma è davvero così? Epicuro non fece filosofia proprio in vista della felicità? Si era ingannato? In realtà Krishnamurti ha ragione, ma il pensiero
di cui parla è un certo tipo di pensiero, che da millenni spaccia se stesso per l’unico pensiero: il pensiero logico-razionale.
Già il famoso pensiero poetante indicato da Heidegger è un altro tipo di pensiero, ma lo stesso Heidegger è rimasto intrappolato nel vecchio
pensiero. Quello che qui propongo al lettore è la possibilità di un pensiero vivente, che sia anche in grado di non perdere la propria lucidità. Se fossi un mistico potrei dire, più sinteticamente, un pensiero del Sé invece di un pensiero dell’Ego. Merleau-Ponty notava che c’è più verità nelle personificazioni mitiche del tempo che nella nozione del tempo considerato, alla maniera scientifica, come una variabile della natura in sé o, alla maniera kantiana, come una forma idealmente separabile dalla materia.
⁴ E non è un caso che questo accada.
Al pensiero mitico dedicherò uno studio a parte; qui è sufficiente dire che attraverso i miti l’uomo riusciva a pensare il mondo senza frantumarlo. Con la fine del mito sarebbe allora nata la fine dell’armonia? Con la nascita della filosofia sarebbe nata la discordia infinita? Eppure Eraclito e Talete avevano ancora una visione unitaria, ma con Socrate Il mito rappresentava forse una consapevolezza superiore? Consapevolezza di che cosa? Restiamo, per il momento, accanto a quei filosofi che hanno scelto il pensiero della frantumazione, e confrontiamoli con i filosofi che hanno tentato, ancora una volta, di ricomporre l’infranto…
Valentino Bellucci, Ancona, 16 Maggio 2016
3 J. Krishnamurti, Diario, Ubaldini, pag. 51.
4 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, pag. 539.
La consapevolezza filosofica.
Premessa
Che cosa significa essere consapevoli? Di solito tutti credono di esserlo, ma ciò non è certo una garanzia di verità. Si sarebbe tentati di definire la consapevolezza come uno stare attenti alla propria interiorità, ma così vengono fuori due nuovi problemi: cos’è l’attenzione e cos’è l’interiorità?
A noi non interessa la consapevolezza in generale e neppure ci interessano tutte le consapevolezze (si può essere, infatti, consapevoli dei propri sentimenti, del proprio valore, delle proprie lacune…), quel che vogliamo descrivere, in una rapida panoramica, è la consapevolezza filosofica, che è, a nostro avviso, una sorta di nocciolo della filosofia perenne, un leitmotiv che per secoli ha caratterizzato i filosofi.
In cosa consiste? Abbiamo citato, in epigrafe, due frasi, due incipit, uno tratto da Wittgenstein e l’altro tratto daValéry: indicare alla mosca la via d’uscita dalla trappola e cogliere in fallo il vizio dell’intelligenza, il vizio di credere-di-capire. Tra questi due punti, tra un compito e un pericolo, si estende la consapevolezza filosofica, come consapevolezza di chi vuole indicare a se stesso e agli altri la via d’uscita da tutte le trappole e smascherare la presunzione dell’intelligenza che troppo presto ha creduto di capire il mondo.
Come affronteremo la storia di questa consapevolezza? Prima di tutto la vedremo nei filosofi e nella storia ufficiale
della filosofia, ci inoltreremo in un confronto tra consapevolezza filosofica occidentale e orientale, dove il pieno si scontrerà col vuoto. Poi, come intermezzo comico (ma non troppo), analizzeremo una consapevolezza filosofica di tipo esoterico, derivante dalle storielle sufi e dalle storielle ebraiche. Per finire tenteremo di vedere a cosa è destinata l’inconsapevolezza filosofica.
Come epilogo poetico si propone un breve dialogo immaginario (nello stile dei testi taoisti) tra Chuang-tzu e Hegel. Forse il professore tedesco scoprirà che la sua colossale costruzione ha occultato la visione della totalità vivente, e forse le crepe stesse del sistema non hanno mai cessato di far filtrare la luce di una verità non costretta da alcuna dialettica.
1. La consapevolezza dei filosofi
Un discorso sulla consapevolezza dei filosofi non può non avere inizio che con Socrate. I cosiddetti Presocratici (o Preplatonici) si trovano al di là e al di qua di tale dimensione; per loro conta soprattutto la consapevolezza che allontana dal mito,avvicinando così l’uomo alla verità del logos. Mentre per Socrate l’interiorità del singolo viene prima di tutto e tale interiorità era in comunicazione col suo famoso demone. Nell’Apologia di Socrate leggiamo: Per la verità sono più sapiente io di quest’uomo, anche se poi entrambi non sappiamo proprio niente, ed io ne sono convinto, per questo ne so un po’ di più di lui, solo perché ciò che non so, sono cosciente di non saperlo.
⁵
Qui Platone ci mostra il famoso so di non sapere
, grazie al quale è possibile rigenerare l’uomo, permettergli di lasciare spazio, dopo aver eliminato il falso sapere
, alla reale ricerca della verità. La consapevolezza di Socrate si mostra così come una sorta di negativo, ed è una convinzione della coscienza. Nella sua coscienza Socrate sa di non auto-ingannarsi: questo l’inizio della consapevolezza filosofica. Come fa a saperlo? Grazie a una profonda autoanalisi. Si ricordi che Socrate passava ore e ore in uno stato di meditazione, quasi di trance, dove la sua psiché ammetteva di non sapere nulla. Il gesto rivoluzionario