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L’entropia
L’entropia
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E-book1.059 pagine18 ore

L’entropia

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Info su questo ebook

“L’entropia, si diceva, è la propensione di qualunque sistema a tendere invariabilmente verso il caos. Ecco, era forse quella la definizione giusta: non malinconia, non apprensione. Ma sensazione eminentemente fisica che tutto, nella mia stanza, esattamente come all’interno del mio corpo e, invariabilmente, persino nel cuore della mia stessa anima, tendeva a disgregarsi verso un caos nero e incomprensibile; inumano”. Il protagonista di questo lungo romanzo è un uomo di 75 anni che temendo di dover sopportare che la propria anima perda la dignità duramente coltivata nel corso di tutta la sua lunga esistenza, imprigionata, come sarebbe, in un corpo che l’estrema vecchiaia non farebbe più rispondere ai suoi ordini – decide di porre fine alla propria vita e, nelle poche ore che lo separano dal gesto estremo – che egli pianifica con cura maniacale nell’intento di mantenere, persino nella morte, una parvenza minima della dignità che egli ritiene abbia conservato in ogni suo gesto – rimesta e reinterpreta l’intero suo passato, manifestando nuovi e, per lui stesso, sorprendenti moti di rivolta del proprio essere contro tutto ciò che è stato, nella certezza che tutto quanto è avvenuto, irrimediabilmente non potrà essere cambiato. È un moto ondoso ora placido, ora irruento, in cui lo spirito si abbandona alla dolcezza di un ricordo, poi s’infiamma, sopraffatto dal rancore o dalla prepotenza del rimorso; infine, s’interroga sul senso dell’esistenza e, quasi senza volerlo, osservando e analizzando quanto di più intimo si è agitato e tuttora si agita nel profondo, solleva lo sguardo, timido, disperato, eppure anelante, alla vastità del Cielo. “L’Entropia” è il trionfo della meditazione; colpiscono la pazienza e l’accuratezza che l’autore ha profuso nel mettersi a servizio del pensiero, per lasciarlo respirare, per dargli la dimensione esatta della pienezza e della compiutezza, per farlo brillare della luce di una verità salvifica e universale.

Nato il 21 febbraio 1979 a Taurisano, un piccolo Paese nella provincia di Lecce, Antonio Pennetta ha coltivato sin da bambino il piacere della lettura e della scrittura, interessandosi soprattutto ai classici Francesi, Russi e Tedeschi. Laureatosi nel 2003 in “Discipline Economiche e Sociali” presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi, affianca al lavoro presso una primaria Compagnia di assicurazioni una continua attività di scrittura che lo porta a scrivere tre romanzi, di cui ora viene pubblicato il secondo.
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2019
ISBN9788830605220
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    Anteprima del libro

    L’entropia - Antonio Pennetta

    Spa

    L’entropia

    A tutto ciò che ritorna.

    E all’infinita ricerca dell’Assoluto;

    sfibrante, dolorosa esperienza; eppure così dolce;

    e consolante, come lo furono, un tempo,

    le lacrime di un bambino tra le braccia dei genitori…

    "Che cosa oscura l’infinito che ogni uomo porta

    dentro di sé e col quale misura disperatamente

    le volontà del suo cervello e le azioni della sua vita!".

    Victor Hugo, I miserabili

    Il delizioso ronzio della ventola; il tepore sonnolento della stufa; e il lieve crepitio del fuoco all’interno di quello strano e irregolare buco nero – misterioso e vivo – che a mio nonno piaceva chiamare camino. Ho sempre pensato che tutto ciò potesse non avere alcuna importanza. Dopotutto, ero convinto che avesse senso solo ciò che di più importante ed elevato si agita tra il nostro cuore e ciò che – forse con disinvoltura eccessiva e con troppa mal dissimulata fiducia – facciamo in modo di chiamare anima. Dimenticavo il ticchettio solitario – talvolta lugubre, talaltra soddisfatto, altre volte ancora distorto in quello spazio-tempo indefinito in cui sentiamo svolgersi, agitarsi, la nostra vita – dell’orologio – questo sì, sinistro a sufficienza affinché di notte mi si renda necessario chiudermi nella stanza per evitare di avvertirne il pulsare; sinistro, checché ne abbia mai detto mio nonno, a cui piaceva sin troppo sedersi accanto al camino (spento o acceso, non mi sembra gli sia mai importato) a leggere, ascoltando picchettare, attraverso la finestra, la morbida solitudine della pioggia e apprezzare quel lieve e costante tintinnio sonnolento, legandolo all’eterno e insolubile picchettare della lancetta dei secondi, come a voler indovinare una qualche misteriosa (ma tanto solida) coerenza tra le manifestazioni esteriori (e, perciò, a noi tanto più estranee) del tempo e la maniera tutta personale che abbiamo di avvertirlo dentro di noi e di legarlo a qualche estraneo sentimento che un evento esterno ci abbia proditoriamente suscitato – ; il ticchettio dell’orologio, dicevo, che riecheggia tra le volute di languido buio e il silenzio costretto delle stanze; padrone assoluto di se stesso e di ciò che resta di me, relitto algido e definitivamente cristallizzato di un me stesso più antico che ha preso a stiracchiarsi pesantemente, lacerandosi, poi, e ricostituendosi fiaccato e stanco all’ombra di qualche grigio ricordo in piacevole putrefazione. È già ora di staccare la stufa; rischio che inizi a fare troppo caldo nella stanza… e il troppo caldo non mi aiuta certo a pensare; sebbene non sia mai stato così sicuro che pensare mi abbia mai fatto, in qualche modo, stare meglio; forse solamente un po’ meglio. In qualche modo poco conscio, il mio cervello sembra non possa fare a meno di ricordarsi di una delle lezioni di Filosofia più noiose della mia vita – come se ce ne potessero essere di piacevoli… – , poiché agisce come se, realmente, pensare dovesse essere un connotato pressoché necessario dell’esistenza; o, se proprio in questa necessità non si dovesse credere, che almeno il pensiero ne sia, in definitiva, uno dei connotati più importanti. Il muro scrostato fa ombra ad alcune simpatiche ragnatele, il cui ondeggiare, ai colpi incostanti dell’aria calda che sale dal camino, più di una volta mi ha tenuto compagnia quando non ero in grado di farmi coinvolgere da uno di quei programmi che danno in TV al solo scopo di addormentare nel più breve tempo possibile il pensiero e la coscienza. Contare i rintocchi che, da lontano, si comunicano al primo sole del mattino fino a far tremare le mie finestre – non mi sono mai risolto a sostituirle con quelle più moderne a doppi vetri: mi è sempre sembrato che, cambiandole, sarei rimasto sin troppo isolato dal mondo esterno, più di quanto non abbia già intenzione di isolarmi da me stesso… – . Noi vecchi siamo fatti così: sentiamo quasi il bisogno istintivo di disprezzare il mondo, quel mondo che il tempo continua a sottrarci molecola dopo molecola, atomo dopo atomo; eppure, temiamo più di ogni altra cosa di essere lasciati soli. Ci è persino difficile concepirla, la solitudine. Eppure, si annida dappertutto; cresce dietro le tende accanto alla finestra, scivola lungo la vasca da bagno e si insinua tra le cortine del letto, fatte apposta per accoglierla e cullarla. Più di una volta, durante la notte, mi è sembrato di sentirne il tocco freddo sulla barba; mi è sembrato che voci estranee mi sussurrassero qualcosa in quella sua lingua fin troppo comprensibile per me, per noi altri vecchi, fatta di gelidi sussurri e brividi di livida morte lungo la schiena. Ma oramai la so conoscere, la bastarda! Le statue arrivano; e io so bene quando stanno per farlo; quando stanno venendo a volteggiarmi attorno con brandelli di carne viva che tentano di farsi spazio tra la gelida consistenza del marmo. Ma questa è storia di un altro; non mia; non mia… Eppure, la solitudine è esattamente la stessa cosa. E anche quando la sensazione di vuoto sembra sia passata, è come se, in realtà, non mi avesse mai abbandonato; quasi che, trascorrendo attraverso il mio corpo, e fuggendovi via, avesse come seminato, nel profondo più nascosto del mio cuore, i suoi gelidi semi che presto germogliano e crescono strappando le carni, lacerando l’anima e nutrendosi di ciò che resta del mio coraggio… così pavido… così pavido! E così fino a quando? Fino a… forse? La vita dei vecchi solitari è monotona: si svolge sempre allo stesso modo. Ad esempio, io so bene che tra dieci minuti , come ogni mattina, prima che il primo fischio del primo treno si faccia sentire attraverso la campagna dietro la stanza da letto, il solito giovane fattorino verrà a suonare alla mia porta – la solita vecchia porta a vetri gialli, indimenticabile testimone delle più buie serate d’inverno, serate solitarie in cui l’unico svago appena meno che noioso poteva essere osservare le luci rosse delle macchine deformarsi attraverso le smerigliature e generare miriadi di affascinanti, multicolori stelle esplose che ai miei occhi piaceva assorbire; e penetrare le segrete transizioni di colore tra quelle sfere concentriche che subito scomparivano, non appena la vettura passava oltre – per portarmi la solita spesa del giorno. A breve suonerà; io andrò lentamente – i vecchi si muovono sempre lentamente; qualche volta per necessità, qualche altra volta per posa… – a prendere dal tavolo la lista della spesa che io stesso gli ho consegnato il giorno prima – e di cui conservo sempre copia, per controllare che non si sia sbagliato – e quella di oggi, già accuratamente copiata su un altro foglio, per il giorno successivo. A me piace che la spesa sia fatta ogni giorno: mi piace poter pensare di avere sempre prodotti freschi. Ma, a ben pensare, è più probabile che il mio caro fattorino m’inganni, e porti a me, vecchio rimbambito, i rimasugli di ieri per dare ai suoi migliori clienti i prodotti più freschi. Ma che volete che me ne importi ormai. Io sono un pigro: non ho mai voluto davvero controllare. E, poi, ha così l’aria da bravo ragazzo… se mi dovesse ingannare, so che, dopotutto, lo farebbe senza cattiveria; lo farebbe solo perché è il sistema che glielo impone. E, se è vero che è il sistema ad obbligarlo ad imbrogliarmi, che responsabilità potrà mai avere di ingannare un povero vecchio che oramai è da tempo fuori da qualunque sistema che non sia il suo vecchio, decrepito credere ancora nella solidità di se stesso, nella sua integrità come essere pensante e senziente… che schifo che deve provare! Dopotutto, non possiamo pretendere che tutti abbiano la vocazione di diventare dei martiri! E lui non mi sembra proprio il ti… Oh… ecco che suona… come previsto…

    «ARRIVO!».

    Dov’è… prendere la lista vecchia… ecco… quella nuova… ecco – è divertente che, per non confondermi devo alternare colori diversi: il giallo il lunedì, il celeste il mercoledì e via daccapo, poiché sono sufficienti solo due colori! È un espediente che ho inventato dopo la volta in cui mi è accaduto di dargli due volte la stessa lista: non la finivo più di mangiar patate! Dimenticavo: i colori sono due e i giorni sono sette, sono dispari. Ebbene, la domenica la salto sempre: nessuno lavora di domenica; ma recupero il sabato… – .

    «UN MOMENTO!».

    Liste prese – ecco – non sono più giovane; eccome se non si sente!; è fastidioso guardarsi allo specchio e vedere quella strana creatura spenta e ingrigita trascinare stancamente i piedi, curva sulla schiena, rigorosamente con le mani incrociate dietro, come i vecchi nonni della mia infanzia… sono anni che non riesco più a riconoscermi… dovrò pur toglierlo da lì, un giorno, quel maledetto specchio: nel corridoio non va proprio bene, ci passo troppo spesso…

    «ARRIVO».

    Ecco, la chiave fatica ad entrare nella toppa – un po’ di tremori; ma non mi preoccupo: ho visto gente che non riesce più nemmeno a pettinarsi… – girare due volte…

    «BUON GIORNO» secco come sempre.

    «GIOOOOORNO» strascicato e petulante.

    «HA PORTATO LA SPESA?».

    «COME OGNI GIORNO SIGNOR P.».

    «BENE… AH, TENGA LA LISTA DI DOMANI; QUANTO LE DEVO?».

    «15 EURO».

    «TENGA IL RESTO».

    Sempre troppo buono; se ci fosse mia moglie, ora, non me lo consentirebbe, tirchia e befana come è sempre stata… io, invece, apposta per infastidirla, gli do sempre due o tre euro in più per il disturbo…

    «ALLORA A DOMANI».

    «A DOMANI».

    «GIOOOOORNO».

    Mai una volta che non sia strascicato; mai una volta che, su quelle O non strascichi anche quel suo piede lungo e sbilenco…

    «ARRIVEDERCI».

    Tornare disperatamente verso la sedia con la busta – ci riesco benissimo; sì, benissimo: con l’espediente di far la spesa ogni giorno, non pesa mai più di due chili… – , ma trascinarsi sempre a quel modo attraverso lo specchio, sempre lì, fisso in quel corridoio con quel volto rugoso che mi guarda in tralice dall’altra parte con quegli occhi umidi spioventi, come se le palpebre, con l’età, avessero finito per sciogliersi e allungarsi verso le guance piuttosto che in direzione del naso… dovrò toglierlo prima o poi da lì; sono troppi anni che non mi ci riconosco più. Dovette essere dopo la morte di mia moglie. Ma questa è un’altra storia… Tornare lentamente alla sedia; alla sedia lentamente, la solita litania… Alla mia età il riposo ha un senso del tutto diverso da quello che può rappresentare per un giovane: per noi vecchi la fatica non può essere che un breve intervallo tra due lunghi riposi. Deve avere qualcosa a che fare con la morte, quasi che il corpo si spenga lentamente e lentamente ceda all’immobilità, trasformandosi progressivamente in un oggetto, in una semplice cosa: lentamente ci si avvicina, passo dopo passo, per stadi graduali e incrementali, al giorno in cui non si potrà far altro che riposare. Torniamo alla sedia, però. Torna, insieme alla mia stanchezza, il lento ticchettio di quell’orologio infame. Oramai non posso più disfarmene: prima, forse, avrei potuto: cosa contava il tempo per me? Ora, al contrario, sarebbe come se la mia vita, non più segnata dal rumore di quei secondi, rischiasse di restar sospesa in un sinistro limbo ovattato in cui il tempo si avvolga su se stesso senza mai trascorrere: avrei paura che la morte possa sopraggiungere all’improvviso, prendendomi prima che possa accorgermene – e io, invece, voglio restare sveglio! Sveglio a guardarla in faccia; che abbia il coraggio di guardarmi, la stronza! – . L’orologio, almeno, mi dà la fiducia un po’ fredda e sinistra anch’essa che, dopo un secondo, non possa che seguirne un altro, come se questo susseguirsi di istanti che si organizzano in atomi di secondi, i quali, a loro volta, compongono i miei cari, lunghi secondi; questo susseguirsi, dicevo, possa ridursi anche per me in qualche cosa di fiduciosamente meccanico: è una delle poche autoillusioni che mi piace ancora concedermi – o, piuttosto, infliggermi – e che mi sono rimaste da quando… da quando… beh, da quando, come per tutti, da quello che dicono, le illusioni della gioventù hanno teso a ridursi in polvere, quella leggera polvere bianca che ammanta di sé come antica neve – e così illusoriamente simile alla neve fresca, tuttavia… – le giornate che ci restano da vivere, seppellendo attimo dopo attimo ciò che, un giorno, ci apparve degno di essere considerato o, persino, di essere amato. L’amore non esiste per i vecchi; e, se esiste, è volutamente fasullo: non ci crediamo più da troppi anni per essere così ingenui da voler riesumare qualcosa di così insulso. Ho un’agenda su cui scrivo le mie spese, i miei piccoli appunti; qualche volta anche i miei pensieri, quelle poche volte che mi accade di averne. Ma è piuttosto raro: sono stato sempre più bravo ad esprimermi a parole; e la pagina scritta – già da quando frequentavo le scuole elementari; che tempi quelli… ricordo che, in famiglia, eravamo orgogliosi di avere una Vespa con cui mio padre, talvolta, mi accompagnava a scuola… ora è molto diverso: non bastano quattro macchine per una famiglia di tre persone… – ; mi perdo; la pagina scritta, dicevo, ha sempre costituito uno stress troppo poco sostenibile per me, come se, vedendo davanti a me quella distesa sterminata di fogli bianchi immacolati, il mio povero cervello, prima così pieno di idee e solide argomentazioni, fosse stato di colpo proiettato in una sorta di diafano vuoto assoluto, in cui non gli resta che agitarsi senza poter trovare alcun appiglio, esattamente come chi, caduto in acqua e non sapendo nuotare, agiti disperatamente le braccia e le gambe, ma invano, perché la prossima onda sarà quella che dovrà sommergerlo per sempre. Ecco, così sono io – o, almeno, credo – davanti al foglio bianco: una persona che si sforza inutilmente di resistere all’annegamento. In ogni caso, dicevo – è brutta la vecchiaia! Ti fa sempre perdere il filo del discorso… troppi pensieri… troppi pensieri… ricordi stinti che si accumulano, si fondono, si confondono… troppo di tutto… e tutto così disordinato – ho la mia bella agenda in cui segno i miei conti e tutto ciò che di volta in volta mi venga in mente di scrivere. Oggi inizio una nuova agenda – ironia della sorte, come diceva sempre mia madre (con la sua solita, sconfortante mancanza di fantasia), morta, seppellita e dimenticata da tanti anni ormai… a pensarci, fatico persino, soprattutto, a ricordarmi il suo viso… per non parlare della sua voce poi; probabilmente, ciò che meglio la identificava; la sua bella voce sottile, ovattata, confortante; così preziosa e per me unica, che a sentirla era come se segrete corde mi avvincessero a lei, legandomi definitivamente al dolce torpore di un sonno tranquillo tra le sue soffici braccia… – ; un’agenda verde, di quel verde che piace a me, da pisellini primavera. Lascio da parte definitivamente quella rossa. Un’agenda verde. Verde pisello: bisogna renderle piena giustizia! Ho sempre creduto che il mezzo non avesse alcun valore; ma credo che quest’agenda, così dolcemente verde, sia quella giusta per scriverci quel poco che ho in mente e per iniziare, finalmente; sebbene io odi gli inizi almeno quanto le fini. Tutto ha un inizio… l’inizio della fine… o la fine dell’inizio. Là fuori c’è un bel sole, sebbene sia pieno inverno. Chissà se la neve sta iniziando a sciogliersi. Ieri, dietro casa, c’era ancora quella bella massa bianca uniforme, grani di sottile zucchero luccicante al sole stesi sull’erba medica, seppellita in attesa della primavera. Oggi non ho ancora aperto la finestra: c’è un buio così solido e caldo in casa; così denso e consolante… e poi, è bello osservare il sole attraverso le fessure della persiana e vederlo muoversi, scorrendo attraverso le vecchie mattonelle marroni del vecchio e consunto pavimento in finto cotto; ceramica da quattro soldi, in realtà; pavimento da proletario, se non fosse che non ho avuto figli; mattonelle volute ardentemente da mia moglie, a cui, evidentemente, la finzione non dava fastidio, ai suoi tempi; da mia moglie a cui era sempre piaciuto darsi un tono da gran signora, poveraccia com’era, e come eravamo… Meglio che sia morta prima: vent’anni impagabili di pace! Questa agenda dalla bella copertina verde felpata – bella persino al tatto, il che non guasta mai… – è l’ideale per scrivere quello che ho in mente. Che ossessione, però, questo maledetto foglio bianco! Mi chiedo come abbiano fatto i grandi scrittori – e quelli piccoli e inutili, di cui ogni epoca è piena e che ogni epoca esalta come grandi confondendo la grandezza con le copie vendute… – ad iniziare senza aver avvertito quella sorta di strano timore reverenziale – di terrore come davanti ad un giudice spietato! – nei confronti di quel bianco universo retto da un caos sornione e terribile, che non chiede altro che di essere regolato attraverso un sano e maschio tratto nero, o blu, o rosso; purché sia un tratto, e sia sano, in grado di esprimere una qualche certezza nella sua urgenza di regolamentazione – forse è proprio questo che mi manca: la certezza… – . Evidentemente, non è per me essere sano. O, forse, anche il foglio bianco, come tutto il resto, mi sembra abbia qualcosa di intimamente ridicolo. A ripensarci, forse, ciò che è ancora più ridicolo è il modo in cui molti pensano di riempirlo. In ogni caso, tocca a me! L’agenda è di quelle che si aprono bene: non offre nessuna apprezzabile resistenza; è una donna compiacente che mi si dà di buon grado aprendo le sue nivee virtù, sempre buona e accondiscendente.

    4/2/2012

    Cari ragazzi, un saluto sentito e cordiale a chi di voi troverà sul pavimento questo mio vecchio corpo avvizzito e consumato. Non preoccupatevi: sono solo morto. Chiedo solamente scusa per il cattivo odore che troverete in casa: sapete, non ho fatto in tempo a dare una pulita… e poi, servirà a ricordarvi una volta di più cosa significhi essere uomini. Nel cassetto sotto il televisore troverete soldi a sufficienza per pagare il fattorino (che mi permetto di salutare con un pizzico di affetto in più... e che non vi venga di pensare che abbia doppi fini) e per un discreto funerale, più tomba dignitosa ma non ricca, ché non me la merito. Scrivete pure ciò che volete sulla lapide, non ha senso che me ne interessi visto che sarò morto; e non credo nei morti che tornano a vendicarsi… Sappiate solo che l’ho fatto per non dover sopportare una qualche insulsa agonia in un letto di un qualche ospedale – o foss’anche di casa mia… – , accudito da qualcuno cui non importa nulla di me; e, dopotutto, perché dovrebbe importargli qualcosa! Vi perdono in anticipo tutto ciò che direte di me e che, come sempre, non avrà nulla a che fare con me; vi perdono per ciò che direte che io sia stato e che, come sempre, non sono stato mai; vi perdono persino per ciò che direte che io abbia pensato morendo e che, come al solito, non avrà nulla a che fare con quello che ho davvero pensato in punto di morte e quando ho deciso che era ora di morire. Vi perdono perché so bene che portarvi rancore sarebbe del tutto inutile: i morti non tornano; e devono rassegnarsi a non esistere se non in un misero ricordo travisato e via via più sbiadito. Detto questo, vi rinnovo un caloroso saluto – sebbene io sarò oramai freddo, quando mi leggerete – e vi auguro di continuare a vivere tronfi della vostra quotidiana e pelosa sanità, nelle vostre comode e necessarie, arrendevoli certezze, come accade da generazioni e come accadrà per sempre, nei secoli dei secoli amen.

    Con affetto e senso di liberazione

    A.P.

    P.s. Lasciatemi in pace almeno da morto ed evitate di portarmi fiori al cimitero: lasciate che sia libero almeno lì! Tanto, anche i fiori muoiono e, come ogni cosa morta, finiscono per lasciare anche quelli un cattivo odore. Grazie.

    P.p.s. Oh, e ci tengo a rivelarvi una cosa: state tranquilli, Dio non esiste.

    Mi sembra ben scritto. Bene. Ora chiudere l’agenda e lasciarla sul tavolo. SI INIZIA! Già, Dio non esiste. Chissà come mi è venuto in mente di scriverlo. Ma io non sono mai stato bravo a scrivere: le idee mi vengono in mente così, sconnesse e giustapposte le une alle altre, senza alcun nesso apparente. Ci dev’essere qualcosa, nel mio stupido cervello, che genera strane connessioni tra i concetti, i ricordi e le cose. Cos’ha a che fare l’esistenza di Dio col suicidio proprio non riesco a capirlo; ma mi è venuto così, spontaneo come si suol dire. E poi, meglio che lo si sappia sin da subito, senza tanti orpelli e fronzoli inutili, in modo che nessuno si faccia illusioni. Mi sarebbe piaciuto avere dei nipoti a cui insegnare a non essere creduloni. Babbo Natale? Non esiste! La Befana? Neanche quella, cari i miei piccini! Per non parlare di inferno, paradiso, purgatorio con tutta l’allegra compagnia. Non esiste, cari miei! Che bello sarebbe stato… Ho avuto la fortuna di essere sterile. Così, ho evitato di generare egoismo da altro egoismo, ignoranza da altra ignoranza e illusione, soprattutto, da altra misera illusione. Sembra che di stupidità non ce ne sia mai abbastanza nel mondo! L’altro giorno guardavo la TV: una recente statistica – come sempre americana: tutti gli studi più strani sono americani… devono proprio morire di noia e non saper che fare del loro prezioso tempo per arrivare a cotanta saggezza… eccesso di cervelli in fuga verso chissà dove… eccesso di energie spese male (che facciano l’amore e non rompano, piuttosto)… eccesso di ego ipertrofici che hanno bisogno di essere riconosciuti e considerati da qualcun altro per sentire che esistono… – ; una recente statistica… dov’ero?... una recente statistica… bah… siamo sicuri che stessi parlando di statistica?... non mi ricordo più, non importa; evidentemente era una cazzata… pazienza… mi verrà in mente. Certo che freddo così erano secoli che non veniva! Sono due settimane che qui fuori è tutto bianco. Oggi sembra ci sia un po’ di sole; giusto quel po’ di sole illusorio che fa sentire le famiglie in dovere di portare i pargoli a spasso a sguazzare nella neve. Poi c’è la moda del pupazzo di neve… e si torna a casa tutti contenti di aver fatto una cosa che almeno un altro miliardo buono di persone in giro per il mondo avrebbe fatto allo stesso modo. Mistero del conformismo, amen. Troppa gente! Troppa gente! Come si può parlare ancora di individualismo se c’è in giro così tanta gente. Vuoi che qualcuno non abbia fatto o pensato quello che tu vuoi fare o stai pensando, prima di te? Ci saranno sempre nel mondo almeno una decina di persone – a voler essere prudenti – che hanno i miei stessi occhi più o meno verdi, il naso lungo e sottile, la mia stessa espressione da coglione invecchiato male, rammollito e raggrinzito. Una stronzissima costellazione di individui identici e lontani che attraversano il tempo pur di romperti i coglioni con la loro somiglianza a te, vivono e muoiono inventandosi qualcosa che assomigli ad uno scopo. Può essere, Dio, uno scopo? Una volta lo pensavo; sono stato giovane anch’io. C’è stato persino un tempo in cui quelli dell’Azione Cattolica mi avevano fatto credere che mi sarebbe potuto piacere diventare prete. Già mi vedevo – sono stato sempre ambizioso; ma tutte le volte in una maniera così devotamente pigra da non essere in grado di aver la minima voglia di alzare il mio dito più piccolo e meno pesante per realizzare qualcosa; e poi, avrebbe avuto forse senso realizzare qualcosa ai tempi d’oggi, con tutti i dubbi, il senso di vuoto e di mancanza di senso che strisciano per le strade e aleggiano nell’atmosfera mescolandosi con lo smog e inquinando ancora di più l’aria, già resa irrespirabile dalla semplice esistenza di così tante persone? – già mi vedevo vestito di nero anche d’estate – rigorosamente con l’abito talare: ho sempre amato quell’eleganza un po’ femminea, quasi leziosa dei preti viziosi – , col mio bel colletto bianco, trasformato in un moderno Don Bosco ed essere ricordato nei secoli dei secoli, e sempre amen. Il tempo è sempre stato il problema, questa è la verità! Da giovane, mi sembrava dovessi averne di fronte una quantità sterminata, così sterminata che non avevo mai creduto avesse senso pensare che il tempo a mia disposizione potesse finire. Ancora adesso mi sembra così, se non ci penso. E questo mi forniva il giusto alibi per starmene lì beato in panciolle a non far niente e ad aspettare comodamente che qualcosa mi capitasse tra le braccia o che mi scendesse gustosamente in bocca senza che io dovessi fare nient’altro che predisporre il petto all’abbraccio o aprire le mie pigre mascelle. Potevo ancora essere di tutto: la fiera delle infinite potenzialità! Musicista, astronauta, prete, vescovo, papa, (perché no?), grande imprenditore, amministratore delegato, un idiota, persino… Ma non c’era mai tempo… o meglio, c’era sempre tanto tempo che non avrebbe avuto senso scegliere subito: meglio sarebbe stato attendere – che cosa? – che mi accadesse di – oh – inciampare in una situazione propizia già bell’e pronta e perfettamente cucinata e condita da qualcun altro. Così, il tempo passava, e io restavo quel solito me stesso abortito e fin troppo malleabile per la mia età, senza spina dorsale, senza nessun costrutto e nessuna adeguata, normale definizione. Normale era un termine che piaceva tanto a mio padre, soprattutto per ricordarmi almeno due volte al giorno quanto io non lo fossi… Ma era un uomo di altri tempi. Era nato nel 1910, credo – mia madre tre anni dopo – e in quel tempo, dopo le devastazioni di due guerre, non doveva esserci spazio per stravaganze e leziosità. L’altro giorno, in una trasmissione in TV, si diceva che uno studio recente dimostrerebbe che, in sessant’anni, la lunghezza media del pene è diminuita di ben un centimetro – il che mi fa piacere, poiché io, uomo di altri tempi, avrei un vantaggio non indifferente a compensare il brutto dell’età che avanza… – . Dev’essere accaduto lo stesso con il cervello, ridotto almeno di un centimetro cubo, per come la penso io. Se no, come si spiegherebbe l’idiozia che dilaga sempre di più nel mondo. Bah! Maglio che accenda il camino… Fuori, oggi, sembrerebbe più caldo; ma dentro casa c’è un’umidità… È strano, ma anche quando uno decide che è venuto il momento di togliere il disturbo, si ha sempre la strana impressione che tutto debba continuare esattamente come prima: continuo ad aver freddo, ad aver voglia di un fuoco, come se questo avesse più senso; mi vengono in mente pensieri che non hanno nulla a che fare con quello della morte… Istinto di conservazione… o, semplicemente, abitudine all’esistenza. Squallido istinto di conservazione, squallida abitudine; squallido tutto, esattamente come tutto ciò che, la mattina, esce così piacevolmente dalle mie viscere… A proposito, prima di accendere il fuoco mi sa che mi tocca andare in bagno… Dove ho messo la stufetta… quando cerchi qualcosa… ah, ecco… È il freddo o cominciano a tremarmi le mani? Non riesco a mettere la spina nel… Doveva essere così quando è morta mia moglie… Che fatica starle accanto tanti anni. E poi, dover anche sopportare di vederla a letto per così tanto tempo, fino a che quasi non riusciva ad alzarsi senza il mio aiuto. Quindici anni si sono depositati tra queste mura come tanti strati di sottile polvere, uno dopo l’altro; uno sull’altro; esattamente allo stesso modo di quelle rocce vulcaniche che fotografai tanti anni fa a Santorini nel… nel ’69… ’75… non ricordo… comunque, quelle rocce alte, divise al centro da un filone sottile di roccia rossa, al di sopra e al di sotto del quale correvano fiumi cristallizzati di roccia gialla che, allontanandosi dal rosso acceso del filone centrale, prendevano a sfumare in un grigio via via più scialbo, maculato qua e là di un verde giovane e rado i cui filamenti sottili si tuffavano nel cielo azzurro allo stesso modo in cui, sul lato opposto, la scogliera si immergeva a strapiombo nel mare blu intenso e calmo. Tutto era così tranquillo allora… e la solitudine non faceva paura; era solo una malinconia giusto più piena, più solida forse; sicuramente più degna, quasi avesse, costantemente espressa in un certo modo di vivere e sentire le cose, una strana e misteriosa aura di santità e nascosta dignità. Quando lei voleva che le tenessi la mano… me lo comunicava con lo sguardo, poiché non era quasi più in grado di parlare. Lo sconforto di sentire quella mano già fredda… Quanto è fredda la tavoletta del water! Meglio che ci passi vicino per un po’ la stufa prima di sedermi. Mi guardava con quegli occhi accesi di un languore che io non capivo, ma che mi sembrava troppo vicino ad un muto e rassegnato rimprovero che cercavo di farmi scivolare via di dosso sorridendole e, intanto, guardando altrove; e voleva che le tenessi la mano. Quegli occhi così intensi di cui una volta ero innamorato… fino a che non hanno iniziato misteriosamente a virare verso un marrone più convenzionale, più deciso e acquoso, fino a ridursi, poi, diluirsi in un simulacro più vitreo e impersonale di ciò che erano stati in passato. Che schifo! Non riconoscevo più quell’oggetto. E la mano fredda, che ero costretto a trattenere nella mia, mi creava una così decisa sensazione di rigetto, tanto pervasiva che, una volta, fui costretto a lasciarla, dissimulando appena un gesto di istintiva impazienza. Tanto, di lei, non restava altro che quel volgare oggetto sconosciuto con gli occhi sempre aperti e la bocca perennemente socchiusa in un’espressione idiota, eppure così tanto colma di tutti i miei più riposti sensi di colpa. Dov’era Dio in quella sua espressione ributtante. Mi sembrava che fosse da lungo tempo, sempre, ogni giorno, ogni istante, ogni singolo attimo, in contemplazione della morte; e che non le stesse piacendo per nulla. Mi ricordai di Clara… e di quella foto al Cimitero Monumentale… Sembrava che i suoi occhi, in qualche luogo riposto e misterioso, rilucessero ancora di vita, ma di una vita tremula, evanescente forse, in qualche modo arrendevole, che la contemplazione della fine doveva tenere tremendamente soggiogata a sé. Era un monito, ecco cos’era! Mia moglie, allora, non era altro che un monito; nient’altro era rimasto in lei di umano. Talvolta prendevo coraggio e osservavo i suoi occhi: sempre fissi, e ridotti per sempre – mi sembrava che quella condizione dovesse estendersi nell’infinito stillicidio di ogni attimo di cui sentivo risuonare il sinistro rintocco – a falsi simulacri di vetro, inciso da una costante espressione di terrore. Un terrore per me, allora, incomprensibile, per me ancora così vivo e funzionante; per me, così smaccatamente vivo davanti a quella cosa lì, che si ostinava a somigliare a lei. Un terrore che aveva qualcosa di manifestamente non terreno, scarmigliato, caotico; metafisico in effetti. Doveva aver cercato a lungo qualcosa e non averla trovata… In effetti, quella volta mi venne da ridere a pensare quanto, sgrossando tutto ciò che di morto e greve si era depositato su quello che restava del suo corpo, la sua espressione fosse intimamente simile a quella con cui, dopo aver rovistato per tutto il divano, ella, sgranando gli occhi e socchiudendo le labbra, mi chiedeva dove fosse il telecomando – così simile ad un’espressione viva quella che oramai doveva essere la manifestazione della fissità di un corpo morto! – ; quasi che io avessi mai avuto niente a che fare con questa casa. Liberarsi le viscere, tutto sommato, è come liberarsi di una persona: ci si sente più vuoti, e naturalmente portati alla malinconia; ma tanto più se stessi, senza contaminazioni esterne, e, in un certo senso, più veri. Mi piace pensare, talvolta, che qualche simpatico verme, nella sua bella tomba marcia, le stia stuzzicando l’occhio, ora… come quando ero io a solleticarle la palpebra per fare in modo che si svegliasse quando non avevo più voglia di starmene a letto, la domenica. Chissà se si avverte il freddo nella bara, dopo morti. Bah!... Che pensieri stupidi che vengono a volte… Pulirsi con la carta da bravo bambino, finché ci si riesce. Il medico ha detto che bisogna stare attenti, che non bisogna strofinare troppo forte per evitare di farsi sangue. Queste stesse accortezze, usarle prima del suicidio… che strano! Che senso hanno? In realtà, potrei benissimo scorticarmi per benino; tanto domani non ci sarò più. Ma il nostro corpo ci tiene tanto al suo benessere, anche nella morte… Evidentemente, il corpo e la mente fanno fatica a pensare di non dover più curarsi di se stessi; di non dover più conservarsi, misero prolungamento di uno stato che non ci appartiene, esattamente come non ci appartiene la facoltà del volo. E poi, questa mattina non ha alcun senso parlare di senso. Lavarsi le mani… e accendere il fuoco, ché fa davvero freddo. Certo che potrei farlo subito. Sono mesi che ci penso… No, il veleno mi sentirei di escluderlo. Tanti anni fa ho letto M.me Bovary… non dev’essere una bella morte… Alla faccia di tutti, io voglio morire in piedi, ho la mia dignità da rispettare! Buttarsi giù nel fiume. A parte che qui – periferia della periferia – abbiamo solo un misero fiumiciattolo; e inquinato per giunta: sai che fascino buttarsi nell’acqua sporca! E poi è così basso che credo che morirei spaccandomi la testa sul fondo piuttosto che affogare. E, se pure riuscissi a sforzarmi di affogare, non mi piacerebbe pensare che, chi mi dovesse ritrovare, mi veda blu e gonfio: mi vergognerei immensamente di essere trovato in quelle condizioni; non è da me e non lo trovo dignitoso per qualunque corpo; figurarsi il mio! Blu e gonfio e magari completamente nudo, senza neanche un vestito. Ho già preparato quello più bello: alla faccia di tutti, io devo morire in piedi! Certo che la corda mi è costata un po’ troppo per essere una corda: se ne approfittano dei vecchi – non c’è più religione, come diceva un mio amico di Piacenza; non ci sono più le stagioni di una volta; qualche altro luogo comune? Anche questo non è da me; non è dignitoso – . E l’acqua scorre come al solito; perché, come al solito, l’ho dimenticata aperta. Chiudila! La voce di mia moglie mi si insinua anche tra le abitudini ormai stantie della mia vedovanza; vestigia di antiche e mal sopportate prigionie che non mi appartengono più, ma le cui catene hanno lasciato duri segni attorno alle mie caviglie e ai miei polsi, al mio collo, persino. Quindici anni di piena libertà. Solo. Quando non si ha nessuno – tranne un simpatico ragazzetto, uno di quei cinici calcolatori che sorridono a tutti, che a tutti sono simpatici e che vogliono il bene di tutti; vogliono così tanto il bene di tutti (naturalmente per loro esclusivo vantaggio), che non prenderanno mai le parti di nessuno, neppure se uno dei contendenti dovesse avere manifestamente ragione e l’altro dovesse essere un farabutto galeotto imbroglione; un simpatico ragazzetto che ti porta la spesa ogni giorno, prostituta del servizio sociale: lo pagano bene! – davvero si sente che vivere non ha più alcun valore. Vivere, in realtà, non ha mai avuto alcun valore; e questo lo sanno tutti, sebbene passino la vita a cercare accuratamente di nasconderselo. Ma, se c’è gente in casa – in realtà, basta che la gente sia semplicemente nei nostri pur vaghi pensieri; basta che, per noi, la gente (anche pensata come intera categoria) abbia un qualche valore e che un qualche valore abbiano i suoi atti, qualunque essi siano – ; se c’è gente in casa, dicevo, il rumore, la necessità di parlare per forza, tutte le incombenze pratiche trovate insieme apposta per distrarsi tendono a farti dimenticare che la vita è tutta un caso e, per questo, non ha senso né viverla – bene o male non conta; e poi, bene o male rispetto a chi o a che cosa? – , né sforzarsi di conservarla: anche perché, si sa, Dio non esiste. E, se anche esistesse, sarebbe lo stesso. Perché, o ci costringerebbe in un suo disegno da cui sarebbe esclusa la nostra libertà; oppure sarebbe un padre assente e torvo, fatto apposta per essere maledetto. Tuttavia, per maledirlo, bisognerebbe credere in lui; e avere la voglia di pensarlo, soprattutto. Credere, infatti, è quanto di più lontano ci sia dalla pigrizia… Certo che questo camino mi dà soddisfazione. Bella forma, ben squadrata alla base; si restringe il giusto, come diceva mia moglie, in corrispondenza dell’altezza delle mie spalle. E il fuoco propone danze così quiete e sonnolente… un delicato animale domestico… Mio padre sì che lo sapeva accendere. E sapeva cuocervi bene anche il pane… quel pane croccante… mmmmm… fragrante e profumato; non era mai né troppo crudo, né troppo bruciacchiato. Pane salentino perfetto. Perfezione d’altri tempi. Il giusto, come diceva… Impiccarsi il giusto, uccidersi il giusto… non ha mai significato niente! Un’espressione stupida come… È morta avvinghiata al non senso della sua esistenza, illudendosi di aver trovato in me un degno valore per cui vivere, e morire. Caffè e latte delle 7, 30. Solo latte; il caffè mi fa venire la diarrea. E non vorrei essere trovato in una pozza di merda. Dignità! Dignità pima di tutto, diceva mio padre, chissà quanto consapevolmente. È tutto ciò che ci rimane per nasconderci ancora una volta quanto sia squallido essere uomini. Voglio che nessuno mi vegli e veda le mie guance afflosciarsi progressivamente e progressivamente scavarsi, via via che il tempo passa. Mi sembrava diventasse sempre più pallida, man mano che le ombre del crepuscolo si adagiavano sul suo viso smorto, dove le lingue di luce mutevoli, generate e appena un attimo dopo riassorbite dalle candele, si rincorrevano in un bizzarro, sinistro rigodon fino a creare come fantasmagoriche forme di vita, in un contrasto così vivo e rigidamente candido con la morte che, attimo dopo attimo, avrebbe conquistato in maniera via via più profonda e definitiva i lineamenti del suo volto… una volta bello… una volta puro, degno… Ombre vive sul suo volto morto. Bellezza e fascino del contrasto; sostanza definitiva ed eterna immagine del contrasto che era stata in vita. Non bella, ma amabile. Che almeno non l’abbia fatta soffrire nascondendole la mia indifferenza. Malattia dell’anima che non può esserle imputata, ma che avrebbe trovato applicazione su qualunque altro oggetto o persona, se non ci fosse stata lei a dover subirla, chissà se ignara. Begli occhi… non quelli di vetro che accompagnarono il suo volgere mesto verso la morte. E le guance paffute che, nonostante tutto, ha conservato fino ad un giorno prima della sua morte; guance in cui mi piaceva affondare il naso per farle dispetto e sentirla ridere. Unico risarcimento, il viso, che riusciva a spegnere per un attimo la mia indifferenza. Le Gocciole sono i miei preferiti, ultimo desiderio di un condannato a morte vizioso. Il mondo scarseggia di volontari: manca sangue, mancano organi, mancano pompieri e crocerossine… Eccomi, io sono un volontario; ma mi tengo tutto per me, viscere marce e sangue rancido compresi. Mi fa specie pensare che una parte di me possa vivere altrove. Con me, deve vincere il non senso. Se è vero che la massima libertà è la capacità di non avere senso, di essere superfluo al mondo intero. E il non senso vince solo se gli si sa cedere fino in fondo, anziché cercare in ogni modo di perpetuare altri non sensi, quali sono le vite di ciascuno di noi, riciclando parti di altri esseri. Sorbire il latte… lavarsi i denti… cazzo! quasi me ne dimenticavo! Lavaggio delle 7,30; lavaggio delle otto meno un quarto. È già passato un quarto d’ora da quando… ancora è presto. Ora, per prima cosa, mi lavo i denti; poi mi tocca la doccia: voglio morire pulito. Il sapore salato del dentifricio; sono oramai vent’anni che compro sempre quello rosa: mi piace avvertire quel caratteristico sapore salato in bocca; mi sembra di essere tornato al mare – da quanto tempo… il mare azzurro di tramontana… quello fosco di scirocco… e le mareggiate di settembre, così malinconicamente libere di sprigionare tutta la forza nascosta che le ultime energie fiaccate dell’estate in declino riescono a trattenere a malapena – , come quando ero giovane. Il rumore del mare lo ricordo bene. Aveva qualcosa di triste e nobile insieme; niente a che vedere con il misero e quotidiano sciacquio del rubinetto, o il picchettare monotono e confidenziale che proviene dal diffusore della doccia – diffusore… una parola che ho imparato da una televendita; è proprio vero che nella vita serve tutto… – . A proposito, mi conviene aprire l’acqua della doccia già da ora, intanto che mi lavo i denti, in modo che l’ambiente cominci a riscaldarsi a dovere, prima che mi spogli: non ho alcuna voglia – non lo trovo dignitoso, e basta! – di morire col moccio al naso. La mattina del sabato è così quieta. Nessun bambino che si sia ancora svegliato; nessun rumore di acqua di altre docce o di qualche scarico lungo le pareti; nessuna lavatrice in funzione – quel rantolo metallico, prolungato e fragrante che mi ricorda quando mi piaceva osservare, da bambino, l’oblò rotolare con i vestiti che cadevano non appena il cestello si fermava: mi dava un senso di quiete, come se il mondo potesse misteriosamente ridursi a quella riposante fissità circolare, sempre uguale a se stessa, senza che nessuna dolorosa evoluzione rompesse l’incanto. In quei momenti, non so come, mi accadeva di sentirmi particolarmente vicino a mia madre; come se, osservando rotolare nella mia fantasia quei panni sporchi che, da piccolo, me l’avevano sempre identificata come emblema della casalinga italiana, io riuscissi nella mia immaginazione, in qualche modo, a comprenderla meglio, foss’anche a possederla un po’ di più e più a lungo; e a sottrarla (almeno per quella volta e per quei pochi minuti in cui il vorticare del cestello induceva la mia fantasia ad indulgere su quelle immagini misteriosamente indotte dal caleidoscopio dei vestiti) al potere così asfissiante, anche nel semplice ricordo, che induceva l’immagine di lei ad apparirmi quasi come una filiazione, una dipendenza, un satellite dolorosamente (per me…) accondiscendente di quella di mio padre, la cui immagine statuaria e fissa sembrava pervaderla tutta e includere in sé, come non bastasse, l’intera mia esistenza che, per sentire di esistere come qualcosa di diverso, si appigliava disperatamente al bisogno che fosse diversa e separata da lui anche l’immagine di lei; e io, al contrario, fuso in tutto quell’universo paterno e giallo, così impotente da riuscire a conquistarle nient’altro che un sorriso distratto; eppure, niente di simile a quella complicità già fisica, oltre che morale, che ella viveva con mio padre e da cui io non potevo che essere escluso, mi sembrava, per una misteriosa e terribile disposizione di qualche insensibile demiurgo. La lavatrice costituiva lo strumento tondo e rassicurante del mio riscatto postumo – nessuna lavatrice, qui in giro, a far rumore; non si sente neppure la vicina. Le piace tanto farsi scopare da quel tipo alto e dinoccolato e urlare in modo che la senta tutto il vicinato. Ma, forse, è ancora troppo presto per lei. Che bel caldo che comincia a venire dalla doccia… com’è irritante… Sarà così la morte? Avrà qualcosa di simile ad un nuovo, ultimo ritorno in un utero invitante e tiepido? Immagino che, da morto, mi piacerebbe ancora ragionare e sentire; ma in una maniera affatto diversa, come in un dormiveglia; mi piacerebbe che i rumori esterni giungessero alle mie orecchie come attutiti, soffici, sonnolenti e consolanti come la neve che mi cadeva sull’ombrello l’altro giorno. Essere morti può essere dolce. Ma morire? Sentire anche l’ultimo barlume di vita sfuggirti di mano… dev’essere una sensazione molto simile a quella che deve provare chi stia annegando – è per questo che non voglio morire annegato – : annaspare disperatamente nell’illusione di poter tornare in superficie, di poter tornare a vivere; affannarsi, eppure vedere il mondo svanire dietro una buia coltre fatta di onde cristalline smerigliate dal riflesso del sole, un nero sudario che non si ha la forza di strapparsi di dosso. E poi, il dolore… ci ho impiegato quasi un anno a decidermi. Dapprima, era solo un vago pensiero nelle notti di solitudine. Mi svegliavo grondante di sudore, esattamente nel momento in cui la campana della chiesa suonava le quattro; ogni notte esattamente alla stessa ora. Quasi che una sorta di misterioso orologio interiore avesse voluto avvertirmi che quella avrebbe potuto essere l’ora giusta. Ma l’ora giusta per cosa? Mi svegliavo ancora disteso sul letto, le lenzuola avvinghiate attorno al corpo. Il mio cuore iniziava a palpitare forte, oppresso dalla cassa toracica; e un profondo senso di apprensione mi schiacciava sul materasso. Ora parlo di apprensione; ma allora, ricordo, non avevo idea di come definire quella sensazione; e, tuttavia, ancora oggi non so se apprensione sia il termine corretto, poiché, forse, più che apprensione era una declinazione differente – ma simile in qualche componente che non mi è mai riuscito di definire ma che, pure, mi accadeva di comprendere per istinto – , una forma non molto chiara, eppure oltremodo sensibile, di malinconia; una malinconia, tuttavia, affatto diversa da quella che avvertivo quando mi assaliva qualche lontano ricordo che avevo fatto in modo di rimuovere. Una malinconia meno superficiale, di cui mi risultava meno immediato individuare la causa. Era, piuttosto, come la trasposizione fisica della sensazione che tutto l’ordine delle cose si fosse improvvisamente infranto; e le relazioni di causa ed effetto, persino quelle di parentela, di somiglianza o vicinanza tra gli oggetti fossero improvvisamente venute meno, sostituite da aborti orribili di impressioni, da ombre inquiete di nuovi e sempre sorprendenti legami tra me e gli oggetti che mi circondavano, tra gli oggetti e ciò che restava, in quell’aria di sensuale putrefazione, del mondo delle idee e dei concetti. Avevo letto da qualche parte un articolo relativo a qualcosa che veniva chiamato entropia. L’entropia, si diceva, è la propensione di qualunque sistema a tendere invariabilmente verso il caos. Ecco, era forse quella la definizione giusta: non malinconia, non apprensione. Ma sensazione eminentemente fisica che tutto, nella mia stanza, esattamente come all’interno del mio corpo e, invariabilmente, persino nel cuore della mia stessa anima, tendeva a disgregarsi verso un caos nero e incomprensibile; inumano. Il caos… o piuttosto, la sensazione di tendere irrimediabilmente verso il caos mi era penetrata in profondità nel sangue; scorreva attraverso il mio corpo all’interno di ognuno dei miei singoli, più piccoli, più lontani organi. Ogni più piccola cellula veniva conquistata da quella sensazione di tremulo terrore. E io, allora, non potevo fare a meno di svegliarmi. A quel punto, mi guardavo attorno e non vedevo che buio; solo una leggera lama di luce strisciava livida sul pavimento attraverso le persiane. A tastoni, tremando dalla sorpresa, cercavo tremando l’interruttore della luce. La lampada si accendeva; un fascio più deciso ma ugualmente smorto carezzava ogni mobile e vi si stendeva come un morbido sudario, consentendo che si stagliasse contro il muro bianco, delineato perfettamente – ma in una maniera affatto diversa rispetto a quando, nella stanza, penetrava la luce del sole; più sinistra e, in un certo senso, mobile – dall’ombra decisa che, attraverso il pavimento, si spezzava risalendo lungo il muro sbilenco, arrestandosi a mezza altezza per poi virare nuovamente al suolo. La prima volta che mi accadde fu due anni fa. E, ogni altra volta, invariabilmente, dopo aver acceso la luce, non potevo più resistere a letto ed ero costretto ad alzarmi. Il freddo delle pantofole attraverso le dita dei piedi; arrancavo nel buio della cucina misurando ogni singola mattonella del pavimento, quasi volessi accertarmi che, nonostante tutto, fosse rimasta uguale a se stessa, come sempre. Eppure, quanto più mi ostinavo a voler sentire come tutto fosse rimasto esattamente uguale a prima, tanto più mi sorprendevo ad avvertire come ogni oggetto, in realtà, precipitasse inesorabilmente verso un caos che mi appariva inumano, distante, incomprensibile. Allora, avvertivo come se il mio stesso corpo prendesse a sfaldarsi; come se l’atomica cooperazione tra le mie cellule, che da sempre lo avevano tenuto ben saldo, e che ben saldi avevano tenuto tutti i miliardi di corpi di migliaia di generazioni e che per sempre avrebbero tenuto saldi i corpi di altrettante generazioni a venire, si sfaldasse anch’essa e, all’interno di ciascuna delle mie cellule stesse avvenendo quasi un ammutinamento, un rifiuto a comportarsi a dovere che io faticavo a controllare. Il mio corpo, mi sembrava, non era più mio – e, in definitiva, lo era mai stato davvero? O, solo, mi era stata concessa quella comoda illusione per qualche tempo (per venti, trenta… sessant’anni) perché io potessi ingannarmi facendovi affidamento; e al solo scopo di poter vibrare, alla mia istintiva sicurezza di essere senziente e illusoriamente coerente, un colpo ancora più terribile e definitivo, irrimediabile, per effetto del quale la mia anima non avrebbe potuto far altro che stramazzare al suolo, per sempre vinta – : tremava senza che io lo volessi; e da qualche parte, neanche tanto nascosta eppure profonda, sentiva come non avesse più alcun dovere di essere mio; ma, ugualmente, era stato, poteva essere e sarebbe stato inevitabilmente scomposto e assegnato, nelle sue singole e più piccole componenti, a miriadi di altri elementi, e oggetti, e individui che nulla avevano avuto a che fare con me e nulla avrebbero mai avuto in comune, se non l’untuosa comunanza di qualche infinitesimo elemento che sarebbe stato mio, o che lo fu in un qualche più o meno remoto passato – sopportare di condividere anche un solo, per quanto minuscolo, atomo di carbonio con qualunque altro essere o oggetto… la mia individualità persa per sempre nella necessità di perpetuazione della vita e della materia… – . Il corpo mi si sfaldava addosso; polvere alla polvere; e la mia coscienza, la mia anima non riuscivano ad avere più alcun appiglio. Venuta meno l’impalcatura esterna del mio essere, l’armatura esteriore e più solida del mio io, la mia parte più interiore precipitava come in una vertigine, cedendo alla sensazione che la situazione di esistenza o di non esistenza sarebbero state esattamente equivalenti e, forse, altrettanto indifferenti; né più né meno che differenti condizioni del perpetuarsi infinito e irrazionale della specie con cui l’esistenza del mio io individuale non avrebbe avuto nulla a che fare. Il mio io, la mia coscienza, la mia stessa anima; tutto me stesso avvertiva che io, come individuo, non avevo alcun diritto né alcun dovere di esistere in quel determinato periodo e in quella peculiare partizione dello spazio. Il caos mi aveva creato senza che io lo volessi; e il caos mi riprendeva a sé, seppure non per effetto di una qualche volontà determinata ma, in definitiva, per il solo esercitarsi del caso su una transeunte e inutile e minuscola – eppure, così convinta di avere qualche senso e, per effetto di questo, una sua qualche intrinseca importanza, una qualche irripetibile significanza… – esistenza. Il caos non bada alla convinzione, che ogni vita si crea ad arte, di essere necessaria. Il caos la lascia vivere, attraverso la sua indifferenza, attraverso il suo apparente non manifestarsi negli eventi della vita; la convince che, pure, in qualche modo sia unica, degna di ritenersi al di sopra delle altre e di nascondere in se stessa uno scopo che sta a lei scoprire. Al caos piace travestirsi da Dio buono e giusto per giocare con noi, un po’ come io facevo con le formiche, da piccolo, e farci aver voglia di resistere in vita fino a che non ci chiamerà nuovamente a sé. La vita, in quelle notti, mi sembrava si chiudesse su se stessa restringendosi in un unico, minuscolo punto e finiva per apparirmi come una lunga agonia; un’intera vita trascorsa nella semplice e spaventosa attesa della morte. Circa un anno fa, compresi che non avrei potuto più sostenere quell’attesa. La verità dell’entropia mi si era svelata a tal punto che mi sembrò di gran lunga più spaventoso continuare a vivere nell’incertezza di un’attesa così angosciosa piuttosto che darsi da sé la morte. La questione da risolvere, a questo punto, sarebbe stata: come trovare il coraggio? Sapevo bene che nella nostra coscienza è così ben radicata l’idea – o meglio, l’istinto – all’autoconservazione che l’atto che tra tutti abbia più senso, il suicidio, finisce per apparire privo di senso. Componente di questo nostro maledetto istinto di conservazione, e sua più frequente e facile maschera, è la paura di soffrire: organizzare un suicidio non è difficile; pensare al suicidio è, persino, naturale. Ma attuarlo è un’altra cosa! In sostanza, ci vuole del fegato! Pensarsi morti può anche andare, persino se si è convinti che, dopo, ci sia solo il nulla; ma prima della morte? Detto in altro modo, è fondamentale considerare la maniera in cui si muore. La cosa più difficile da sostenere è l’idea della sofferenza che si dovrà patire prima di poter finalmente non esistere più. E se quella sofferenza dovesse essere così forte da farci rimpiangere, proprio un istante prima di spirare, il fatto stesso di avere deciso di morire – come ricordare quelle quattro pagine che avevo letto miliardi di anni prima? – ? Ogni volta che mi riusciva di pensarci – e che il mio istinto non riusciva a rimuovere questo pensiero prima che potesse sorgere e manifestarsi, crudo e spoglio come una stanza vuota illuminata da un neon – , ricordavo la conclusione del mio Schnitzler… La Signorina Else mi sembra si intitolasse… Se, proprio nell’ultimo istante, il solito, incontrollato, imbarazzante impulso irrazionale dovesse comandarci di sopravvivere? Che senso ha pensarci ancora; adesso?! Il tempo di finire la doccia, asciugarmi, pettinarmi, e poi si va in scena! Istrioni fino all’ultimo bisogna essere! Per il misero piacere della propria vanità che sopravvive ad ogni coscienza dell’inutilità della vita e dell’ineluttabilità della morte. Ecco quanto conta l’opinione altrui nel formarsi un’immagine di sé; poiché tendiamo a prolungare la nostra vita all’infinito, quantomeno nel ricordo e nell’immaginazione altrui; mistificazione eterna e scomposta del nostro reale modo di essere – ammesso che ne esista uno e che ci sia dato di averne una corretta percezione – . Ci sembra che, anche dopo morti, sia piacevole sapere quanto gli altri ci rispetteranno e ci ammireranno per l’immagine che abbiamo creato di noi. Solo per poter gongolare, ovunque noi saremo. Ci sembra che dovremo continuare ad esistere per sempre. Il grande inganno… È questo il senso dell’invenzione dell’aldilà. Un’estensione affatto deliberata del nostro pensiero e dell’impossibilità fisica e morale di pensarci morti. L’ambiente sta diventando troppo caldo… Giusto un’ultima insaponata e poi il risciacquo finale: non ci sarà bisogno, per chi mi avrà trovato, di lavarmi come si fa con i morti – come ho sempre immaginato che qualcuno avesse fatto per mio nonno; chissà dove avrà trovato il coraggio… – da esposizione. Aggiungerò sull’agenda verde un altro post-scriptum in cui specificherò che non voglio essere messo in esposizione in una bara. Che bella agenda… davvero un bel regalo – e la bellezza, in punto di morte, ha senso in sé o si rivela inutile come tutto il resto? Questo ancora non sono in grado di stabilirlo… – ! Copertina verde e morbida… l’importanza del mezzo e del contenuto… forma e sostanza insieme… l’una senza l’altra senza senso… Anche l’accappatoio è verde; ma di un verde più intenso, più cupo e spento; e pensarli insieme, l’accappatoio e l’agenda, genera un bellissimo contrasto, come quello che, in primavera, mi ha sempre stupito: contrasto tra le foglie più giovani, tenere e diafane, e quelle più vecchie, già cristallizzate per sempre nel loro verde deciso e definitivo. Non l’ho scelto io l’accappatoio: a me piace il verde chiaro e vivo perché mi ricorda le foglie in primavera. Il verde scuro mi ricorda la verdura cotta, che non mi è mai piaciuta, sebbene mi sia sempre costretto a mangiarla almeno tre volte a settimana per ragioni di salute. In ogni caso, è abbastanza soffice e caldo; e non è forse questo che conta per un accappatoio? Evitare le mutande strappate – da quando è morta mia moglie, non ci faccio più caso… lei era così rigorosa, invece… mi piaceva che mi accudisse… ho fatto di tutto per rimanere bambino fino all’ultimo, sebbene sia stato sempre cosciente che questo debba averla fatta soffrire… – ; indossare quelle nuove e la maglietta comprata apposta al mercato due giorni fa. Calzini neri più vestito nero. Bisogna decidere come valga la pena morire, però. Anche se mi dispiace lasciare così presto il tepore dell’accappatoio, così avvolgente e tranquillizzante… si finisce per essere sempre troppo attaccati alla vita terrena… ce ne sarà di tempo, dopo, per sentire freddo… soli nella propria bara, sotto qualche metro di terra… macché sottoterra! Non si usa più seppellire sottoterra! Adesso si seppellisce in quei miseri loculi… abbiamo dovuto condividere abitazioni e condomini tutta la vita… non si può smettere neanche dopo la morte. Chissà, poi, se si litiga anche tra morti. Ci toccherà nominare un amministratore anche lì… Chissà a chi è venuto in mente di lasciare il bagno senza finestre e fare un finestrino così piccolo tanto in alto. Non riesco a vedere bene, ma mi sembra che la neve stia cominciando a sciogliersi. C’è un bel sole che colora l’intero paesaggio di un bell’arancio pieno di speranza… per chi è disposto ancora a crederci. Ma è giusto che sia così. E che resti prerogativa della giovinezza restare disperatamente – e convintamente! – avvinghiati alle proprie illusioni. Credo faccia in qualche modo parte di quell’istinto di conservazione che riesce a non abbandonarci neanche in punto di morte. Certo che questo silenzio mattutino ha qualcosa di delizioso: comunica una sensazione di quiete così profonda, così sovrannaturale, che mi mancano le parole per descriverla. È come se, in questo silenzio inzuppato nella bianca solitudine del mattino, si celasse una qualche profondità differente, una sensazione di pace più ampia e, in un certo senso, passiva: questo senso di calma mi fa avvertire che non ho il dovere di fare niente; devo solo attendere. O meglio, neanche attendere. Solo lasciare che dentro di me la quiete si propaghi come naturale filiazione della predisposizione mattutina all’ozio: il corpo si adagia sulla poltrona, gli occhi si socchiudono cedendo al tepore soddisfatto della morbida tranquillità che ci circonda. Corpo e poltrona finiscono per non distinguersi più l’uno dall’altra; e un tiepido dormiveglia sciaborda lungo le coste della nostra sopita coscienza. Si creano legami arditi tra le cose, disegni impossibili, caleidoscopiche filiazioni dei nostri più remoti pensieri che, nebulizzati tra le coltri della stanza, si chiarificano sfumando nell’atmosfera rarefatta di una verità immediata che disvela antichi pudori; sembra che il caos allenti gradualmente le sue catene e svanisca per sempre; e tutto sia misteriosamente regolato, perfettamente, ma in modo del tutto naturale, e senza bisogno di alcun principio esterno; che ci appartenga persino. Oppure, siamo noi stessi – io, davvero, non saprei dirlo – ad appartenere indissolubilmente a tutto il resto; comunione cosmica; comunione fisica e metafisica dell’anima. Categorie, corpo e anima, che si disfano dei propri confini; e non esistono più, se non fusi nella vaga e diafana consapevolezza di essere entrambi uno solo; e, insieme, di esistere diluiti in tutto il resto e con tutto il resto; e, per tribolata e dolorosa – il dolore sempre… sarà mai possibile espungerlo in modo definitivo dall’universo? – partizione e differenza da esso. Pensieri liberi di vagare senza ostacoli; i confini della decenza, del buon gusto, della paura e di tutto ciò che è opportuno, definitivamente abbattuti. L’io, in questi momenti, diventa davvero divino: può tutto e tutto comprende e sa. Il silenzio crea i fiori candidi dell’anima, puri e perennemente giovani. La malinconia si distende lungo l’incrollabile consapevolezza della necessità. Né recriminazioni, né rimpianti: tutto doveva essere così e non poteva esserlo diversamente; è stato persino giusto che fosse così; consapevolezza senza possibilità di appello. La giustizia asperge i tranquilli paesaggi dell’anima nati e prodotti dalla debole possanza del silenzio. Tutto torna alla manifestazione più nuda e naturale, essenziale della sua più intima armonia. Come sarebbe bello se si riuscisse a conservare questa impressione anche durante le restanti ore del giorno. L’attività finisce per ridurre il pensiero

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