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Il giorno in cui ho smesso di avere paura
Il giorno in cui ho smesso di avere paura
Il giorno in cui ho smesso di avere paura
E-book190 pagine2 ore

Il giorno in cui ho smesso di avere paura

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Info su questo ebook

Un lungo mistero, una donna scomparsa e una ricerca che porta il protagonista a scoprire l’insopprimibile istinto di sopravvivenza che accomuna tutti gli esseri umani, fino alla scoperta del bisogno di “amare la vita”
di Andrea Improta
“Tanto tu mi troverai.” È da questo enigmatico messaggio che parte l’avventura di Sal alla ricerca della sua amata Laura, improvvisamente scomparsa.
Tra imprevisti e falsi indizi, le tappe del suo viaggio si muovono tra Firenze, Roma e il piccolo borgo siciliano di Marzamemi, intervallate dai ricordi deliranti della precedente folle storia d’amore con Barbara e dagli incontri con Sofia, una prostituta che attira in modo irresistibile la sua attenzione.
Lungo il filo del mistero di una donna scomparsa, il lettore viene trascinato nella vicenda di un uomo alla ricerca delle risposte alle proprie paure. Una ricerca costellata di ostacoli, fragilità, sentimenti e sbandamenti, contrapposti all’insopprimibile istinto di sopravvivenza che accomuna tutti gli esseri umani. Eventi ed emozioni si susseguono e si incrociano senza tregua, fino al sorprendente finale che racconta il bisogno di “amare la vita”.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mag 2020
ISBN9788833284323
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    Anteprima del libro

    Il giorno in cui ho smesso di avere paura - Andrea Improta

    Morrison)

    1.

    Schegge di vetro sul pavimento. Ho rotto un altro bicchiere. Da quando Laura è improvvisamente scomparsa, tutto sta andando in frantumi. Nessun graffio sulle dita, ma di lei non mi resta nient’altro che quello stupido e inutile messaggio: Tanto tu mi troverai.

    Io e la mia inquietudine siamo di nuovo dentro a una delle nostre notti insonni, affacciati alla finestra. Firenze al buio sussurra. Sembra tutto così facile in quelle osterie dalle luci rosse, un po’ come le tovaglie e il vino. Persino per le strade tutto pare sorridere: i volti dietro un bancone, o le chitarre all’angolo della piazza. La carne nel piatto profuma, la donna del secondo tavolo profuma. Dalla mia finestra, però, in questo momento, non è così. Il cielo è maledettamente nero, proprio come i giorni da cui sto provando a scappare. Mi giro a guardare il mio gatto di legno, mentre il tanfo di vecchi fondi di caffè e il caos dei vestiti, sparsi in ogni angolo del mio bilocale, mi ricordano che niente è ancora in ordine.

    Torno a guardare fuori. Firenze è ancora lì, insieme all’eco di quelle parole: Tanto tu mi troverai.

    2.

    La mattina seguente, nonostante i bisbigli della notte e i segni sulla pelle che raccontano il mio mezzo secolo di vita, mi sveglio con gli occhi meno rossi del solito. Persino l’estate sta dando i suoi primi segnali, lasciandomi dormire solo con i miei boxer. Senza nient’altro addosso.

    La sveglia del telefono lampeggia: 9:30.

    Ecco uno degli aspetti che amo di più del mio mestiere. Scrivere libri di poesie non mi gonfia certo il portafoglio; ma la libertà di bermi un whisky alle due, sapendo di avere ancora sei ore di cuscino, non ha prezzo. E del resto, cos’altro potrei mai combinare nella vita? Ci ho anche provato, a rinchiudermi per un po’ di tempo in un ufficio, ma tutto il guadagno lo bruciavo per farmi overdose di Omeprazolo. La gastrite è implacabile. Non potevo sopportare di passare più di metà della mia vita guardando sempre le stesse quattro facce. Conoscere ogni loro allergia o intolleranza, ma ignorare che luce e che colori avesse il mondo fuori, mentre mi accecavo lentamente davanti a un monitor. Col passare del tempo, alla gastrite si è aggiunta l’ansia. Bevevo, fumavo e ingurgitavo pasticche. Bacco, tabacco e Alprazolam. Volevo a ogni costo dare una cornice ben diversa ai miei giorni. Sono scappato, immaginando che il mondo avrebbe dovuto concedermi per forza un’altra possibilità.

    Un po’ come la sveglia, che è tornata a suonare per il secondo avviso: 9:40. Il led verde del telefono annuncia anche un messaggio, ma per il momento lo lascio lì. So che oggi dovrò scrivere. Scrivere e ancora scrivere, ché quel cavolo di libro è maledettamente indietro. So anche che ho bisogno del caffè e della mia prima sigaretta. Prima di tutto, prima anche di leggere o di scrivere.

    Il gorgoglio della moca sul fuoco mi annuncia che finalmente posso iniziare il rito di ogni mattino. Mezza tazzina e le prime boccate di fumo. Con ancora indosso solo i boxer, mi avvicino alla finestra. Firenze è già sveglia da ore, le strade invase dai turisti e dai furgoni bianchi delle consegne, ovunque trambusto di voci e rumori, clacson e sirene. Sembra una lontana parente un po’ cafona della città che mi fa compagnia la notte. La sigaretta è ormai alla fine. La schiaccio nel portacenere e prendo il telefono.

    Ciao Sal, io stasera verrò a Firenze. Dimmi che ci sei.

    Il messaggio non arriva da chi vorrei. È di Catia. Ormai è più di un mese che ci scriviamo. Ci siamo incrociati alla presentazione di un libro e mi hanno colpito il suo viso, il fisico esile sotto un caschetto di capelli neri, i suoi gesti umili e voluttuosi, quasi da geisha. E forse non di lei, ma di una geisha avrei un gran bisogno. Sì, di una geisha. Innamorata e meravigliosamente devota. Butto giù un altro sorso di caffè bollente e rispondo.

    Posso essere alle nove e mezzo al London Bar. Ti va bene?

    Quando esco dal bagno, il led è di nuovo acceso.

    Perfetto. A stasera, Sal!

    Mi vesto immaginandola già nuda. Qui, davanti a me. La mia geisha.

    Passo il resto della giornata a cercare di mettere in ordine i miei scritti, senza alcun risultato. Il tempo qualche volta è un bradipo: lento, pesante e del tutto inutile. Così alla fine mi infilo la camicia bianca che pende dall’ultima gruccia del mio armadio e raggiungo il bar dell’appuntamento. Spero che la serata riesca a spiegarmi perché io sia qui ora, a questo tavolino con due sgabelli. Con Catia.

    La vedo spingere la pesante porta a vetri del bar con una piccola smorfia. Perché ha messo quei pantaloni così lunghi? Le geishe non portano pantaloni lunghi. Mi sento più stronzo che mai. O forse solo un po’ idiota. Appena si siede, il locale comincia a riempirsi delle sue parole.

    «Sai, lavorando con quegli ingegneri è un continuo andare avanti e indietro tra Milano e Roma», mi confida con enfasi, gli occhi che splendono come due torce. Non so cosa voglia dirmi, ma non me ne frega niente.

    «Io scrivo, non mi sposto quasi mai da qua», rispondo distratto, guardandomi intorno.

    A ogni tavolo gente che parla e gesticola, desiderando probabilmente di essere altrove. Anch’io dovrei forse essere altrove. Invece sono qui, come se volessi provare l’ebbrezza di cadere fino in fondo.

    «Andiamo?» le chiedo dopo più di mezz’ora di inutili parole e tanti suoi piccoli gesti ammiccanti.

    Mi guarda piegando un po’ la testa di lato.

    «Stasera facciamo tutto quello che vuoi», mi sussurra, scandendo le parole una per una. Poi si avvicina per baciarmi. Baciarmi e mordermi. Mordermi maledettamente, denti contro denti.

    Infine arriva il momento, nella camera da letto del mio bilocale. Mi sento come Hank Chinaski in una delle sue storie di ordinaria follia. Non più di tre centimetri, massimo quattro, a dividere le mie labbra dai finissimi peli della fica di Catia. Però? Però nessun odore. Talmente presente a me stesso da essere completamente assente. Fuori posto in questo pianeta fatto di grandi occhi che non è il mio. Catia è in piedi, nuda contro il muro, ma io faccio un salto all’indietro sul letto, bisbigliando uno scusami più pesante e stupido di qualsiasi morso.

    La sento rivestirsi mentre guardo il soffitto. Noto più di un alone sulle pareti: credo siano passati almeno due anni dall’ultima volta che ho imbiancato. E sono passati giorni, forse settimane o mesi, da quel messaggio di Laura. Senza alcun preavviso. Mi ha scritto che doveva sparire e di non farla cercare da nessuno, perché comunque stava bene. Solo due righe. E quelle ultime quattro parole: "Tanto tu mi troverai!"

    Non riesco nemmeno a calcolare quanto tempo sia passato da quando è sparita. Ma, soprattutto, non riesco a rispondermi. Perché? Perché e dove? Dove può mai essere Laura, adesso?

    3.

    Catia e i suoi grandi occhi mi guardano un’ultima volta, poi se ne vanno.

    Sento la porta chiudersi.

    Osservo la mia camicia in terra e improvvisamente mi rendo conto che sono seduto sul letto nella stessa identica posizione di quella sera. La sera del messaggio di Laura. Quel dannato messaggio, cancellato per rabbia una delle innumerevoli volte che ho provato a cercarla al telefono. Invano. Sempre spento. Quelle parole marchiate a fuoco nella mia memoria. Avevo capito subito che non era un gioco, né uno scherzo. Giorni su giorni a rincorrerla, a sbattere la testa contro ogni muro che avesse anche solo una sua impronta. Inutilmente.

    Catia è stato il primo sbaglio, ma da troppo tempo sto ballando al buio. E già so che potrei cadere ancora. Di sicuro cadrò ancora.

    Mi sento come la camicia buttata per terra. Più passa il tempo, più la consistenza della mia vita sembra sgretolarsi e cadere a pezzi, come un edificio abbandonato. Quando ero giovane, era tutto così eterno, granitico, infallibile come l’incoscienza. Sono cresciuto credendo che, in fondo, ogni cosa fosse possibile e controllabile, come il triciclo su cui scorrazzavo da un capo all’altro di quella terrazza all’ultimo piano. Mio padre e mia madre erano il cemento armato di quella casa e l’ultima risposta a ogni mia domanda.

    «Mamma, hai visto come vado forte?»

    «Sì, tesoro, corri…»

    «Prima avevo paura, vero?»

    «Sì, prima sì.»

    «Ma se il triciclo si rompe, chi lo aggiusterà?»

    «Perché pensi a questo?»

    «Non lo so, ma non voglio che si rompa.»

    «Non si romperà, non ci pensare.»

    E invece sì. Forse avrebbero dovuto dirmelo subito, che può accadere. Che prima o poi sarebbe accaduto. Che anche le ali su cui hai volato altissimo possono rompersi all’improvviso, in un giorno che credi essere solo uno dei tanti. È successo quattro anni fa con mio padre: una di quelle malattie che, fino ad allora, avevo creduto appartenessero a mondi lontanissimi. L’ha consumato un giorno dopo l’altro, come se gli stesse riprendendo un po’ per volta tutto il tempo felice passato con me. La mattina in cui il conto alla rovescia è finito stavo prendendo un caffè. Il solito, maledetto caffè al bar. E la telefonata di mia madre: «Samuele, vieni… ora!»

    Tre parole urlate senza fiato, da un vuoto che non si sarebbe più riempito. E poi, due anni dopo, anche lei. Senza preavviso, ma con lo stesso orribile odore dolciastro di morte che provoca conati di vomito. Mi sono ritrovato in una stanza vuota, davanti a un gabinetto, mentre l’amore e la vita mi esplodevano dentro. I loro volti erano uguali in quell’ultimo momento, come il lenzuolo fermo e freddo; avevano l’espressione di tutta la mia vita, una vita a cui avevo creduto. Mi sono sentito derubato. Qualcuno aveva rotto il triciclo e l’aveva buttato giù dalla terrazza, sulla quale non avrei più potuto correre. Quando è morta mia madre, è stato come se fosse morto di nuovo anche mio padre.

    E ora, proprio domani, dovrò firmare anche la vendita della loro casa, della mia casa di sempre. Il mio stupido lavoro non mi permette di mantenerla. Anzi, ho più che mai bisogno di quei soldi per poter vivere tranquillo, senza l’ansia di contare sulle esigue vendite dei miei libri di poesie. Provo rabbia, paura e forse anche odio per me stesso. Perché tutto si sta sgretolando così? Perché non riesco a salvare niente di ciò che costruisco? Tutte le mie storie decollano come dei fantastici grattacieli di cento piani e poi, lentamente, sprofondano. Naufragano come minuscole zattere. Al buio.

    Tiro un calcio alla camicia, ma quasi non si muove. E adesso anche Laura è sparita. Perché? Sei tu quello sbagliato, Sal, che continui a crederci? No, questa volta no. Questa volta avrò ragione ad amare e sperare. Non so perché se ne sia andata, ma so che la ritroverò. Mi alzo e arrivo fino alla dispensa per versarmi un goccio di whisky. Sento freddo alle gambe. Sono davvero ridicolo in mutande e con un bicchiere in mano. Non posso Catia… non posso fare l’amore con te.

    Prendo in mano una vecchia foto che è lì nella dispensa, vicino alla bottiglia. Io e Maurizio seduti in un pub, gli occhi rossi e i denti bianchi, felici. Sono già passati quasi quindici anni da questa foto. Io avevo da poco lasciato il mio vecchio lavoro di informatico. C’era voluto del tempo perché mi accorgessi che avevo passato tutti i miei anni di scuola a studiare un mondo che non era il mio. Uscivo dall’ufficio e scappavo in un qualsiasi angolo di strada a scrivere, leggere, e ancora scrivere. Poi, a Villa Dora, l’incontro casuale con Edoardo, uno di quei piccoli editori affamati di denaro e quindi a caccia di qualche pazzo da mettere a nudo con i suoi scritti. Alcune mie poesie erano finite nelle sue mani e gli erano sembrate piene di ossessioni così accattivanti e compulsive da meritare una proposta di pubblicazione con la Ink&Words. La sua faccia non mi piaceva, ma la mia scrivania ancora meno. Dopo il terzo bicchiere di vino avevo iniziato a ridere di fronte a quella prospettiva: Samuele Banti, scrittore. Suonava male e faceva ridere. Ma avevo accettato.

    Ed è proprio alla Ink&Words che ho conosciuto Maurizio. Ci lavorava solo come tipografo, perché detestava scrivere; ma se avesse preso una penna in mano, sarebbe stato anche lui dotato della sua bella valigia di ossessioni compulsive, e con una sensibilità tale da poter diventare uno dei miei rivali più temibili nelle vetrine delle librerie. Tra noi due si è creata una sintonia immediata, forse proprio per quello stesso modo di vivere ogni istante e ogni sentimento con tutta l’intensità possibile. Folli, istintivi e imprudenti. In quel periodo, ogni volta che mi fermavo alla casa editrice, andavamo a prenderci un caffè insieme al distributore automatico e ci raccontavamo i nostri giorni con sempre maggiore intimità. Il caffè era orrendo, ma quell’appuntamento sembrava fare un gran bene a entrambi. Quella della foto, però, è stata la prima vera serata insieme.

    Maurizio si era da poco lasciato con Sara e quel mattino doveva

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