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Dammi vento
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E-book437 pagine5 ore

Dammi vento

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Info su questo ebook

Giulia, dopo l’ennesima violenza del compagno, trova la forza di lasciarlo e va nell’isola di Levante, in Sicilia, a curare le sue ferite da Tindara, la zia paterna, una donna forte e saggia con cui ha un legame profondo. Luca ha un rapporto di coppia ormai logoro, un lavoro insoddisfacente e un sogno nel cassetto: fare il giro del mondo a bordo di SolYLuna, la sua barca a vela. La perdita del lavoro e la partenza della compagna gli danno la spinta per inseguire il proprio sogno. La prima tappa sarà Levante, dove Francesco, uomo enigmatico e solitario con cui Luca condivide la passione per la vela, gli chiede di cercare Tindara per consegnarle qualcosa che Luca non sa ancora di avere. L’incontro dei tre personaggi si rivela un momento curativo e nutritivo e l’oggetto misterioso che Luca restituisce a Tindara riporta in vita ricordi lontani e sentimenti mai sopiti. Giulia e Luca iniziano a conoscersi e a fidarsi l’uno dell’altra e, quando arriva il momento di salpare, Giulia decide di accompagnare Luca fino a Capo Verde, luogo natale di sua madre. SolYLuna spiega le sue vele verso ponente: 7 isole, 13 tappe, 3.200 miglia. Un viaggio attraverso mari incontaminati accompagnato dal suono del vento, durante il quale verità inattese e sorprendenti sul passato dei protagonisti cambieranno la loro rotta verso un futuro tutto da scrivere.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mag 2020
ISBN9788835824886
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    Dammi vento - Sandro Ardizzon

    DAMMI VENTO. ROTTA VERSO PONENTE

    di Sandro Ardizzon e Paola Alessandra Mezzogori

    Disegno in copertina di Camilla Bruschi

    Prima edizione: novembre 2019

    Tutti i diritti riservati 2019 BERTONI EDITORE

    Via Giuseppe Di Vittorio 104 - 06073 Chiugiana          

                     Bertoni Editore 

    www.bertonieditore.com

    info@bertonieditore.com          

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi 

    mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata.

    Sandro Ardizzon 

    Paola Alessandra Mezzogori 

    DAMMI VENTO

    Rotta verso

    ponente

    A Maria Rita, la mia compare sempre

    Paola

    A mio padre, che amava il mare e conosceva il valore della terra

    Sandro 

    INTRODUZIONE

    Cambiamenti, disorientamenti, iniziazioni, vuoti, abbandoni, ritrovamenti, e mare, tanto mare, dal Tirreno Centrale a quello Meridionale, fino all'Africa, ai Caraibi, e soprattutto per le isole, quelle piccole, reali o immaginarie che siano. Questo è il campo di regata di Dammi Vento. E i suoi personaggi parlano, tanto, sempre, si aprono, si raccontano, sembrando spesso dei grilli parlanti, dicendo sempre, gli uni gli altri, qualcosa di forte, massime che potrebbero bastare, ognuna, a cambiare una vita. Traggono da dove quella saggezza, quella capacità di decodifica dell’esistenza? Non si sa. Forse proprio dal mare. E non è un caso che la fuga sia a scorrere, che l’obiettivo risieda su una linea orizzontale.

    Che sia il vostro genere o non lo sia, Dammi Vento è un romanzo a forte componente marina, e anche nautica, e perfino subacquea. Scrivere del mare, che per mistero è parso pratica bandita per secoli, oggi sembra tornare a una presunta normalità, dunque ben vengano le storie azzurre e i blu writers, qualunque sia il loro approccio.

    Ma suppongo, data la mia storia personale, che io sia stato richiesto a leggere queste pagine e a scrivere poche righe di introduzione anche per un’altra ragione: il senso di libertà, il mare come opzione simbolica. E tutto questo, pur nel tono a tratti apodittico, c’è. Come funziona il sentimento del disagio per un licenziamento? Funziona come una fuga? Funziona come il desiderio di rinascita? Funziona come la solitudine della libertà, e il suo anelito per una nuova possibile vita? Anche su queste acque, tra le pagine, si va. E sono pronto a scommettere che molti dei lettori di questo romanzo vi troveranno quel che serve per pascere la maggiore deriva di questi anni, almeno per una generazione: cambiare. Credo che tutti, al di là delle paure, delle ritrosie, desiderino l’avventura che sta dietro a qualunque sogno di libertà. A questo servono le altre vite. Anche solo vagheggiate. A questo servono i romanzi che ne raccontano.

    Buona lettura.

    Simone Perotti

    PROLOGO 

    ARGENTARIO. MARZO 2015

    Il sole tiepido gli scalda il viso e il lieve dondolio della barca lo culla con dolcezza. Il porto è lontano e non c’è nessuno intorno: solo lui, la sua piccola barca e il mare. Mentre ammaina la vela la scatola di latta verde, ammaccata e scrostata dal tempo, inonda il suo viso di improvvisi bagliori di luce, come a voler richiamare la sua attenzione. Il sole si riflette sulla pelle bagnata del mare e si scompone in un luccichio silenzioso e diffuso.

    L’uomo getta l’ancorotto nell’acqua bassa e azzurra della piccola baia. Lo segue con lo sguardo mentre scende e si adagia sulla sabbia chiara del fondale, trovando uno spazio tra sparute ed esili posidonie. Attende alcuni istanti, fino a quando la brezza leggera e tiepida fa ruotare lentamente la barca, disponendola in favore di vento. Poi si siede sulla panca, guardandosi intorno. Dalla scogliera alle sue spalle si staccano due gabbiani. Volteggiano inseguendosi e disegnando nel cielo traiettorie curve e invisibili. 

    Fa un respiro profondo. Prende la scatola tra le mani, la posa sulle gambe, accarezza con un leggero tremore delle dita la vernice rovinata dagli anni. 

    Poi solleva il coperchio respirando ricordi che sembrano liberarsi timidamente, lenti e incerti, come se temessero di mostrarsi di nuovo al mondo, come se la vista improvvisa di tanta luce, dopo una così lunga e oscura prigionia, fosse insostenibile.

    L’uomo osserva gli oggetti e subito distoglie lo sguardo chiudendo gli occhi, perché a quella vista un’ondata di emozioni lo investe sommergendolo come una marea.

    Percepisce il chiarore del sole attraverso le palpebre chiuse. Stringe tra le labbra il sigaro spento, quasi volesse aggrapparsi con forza a un salvagente. 

    Poi lascia fluire i pensieri, accogliendo lentamente quel dolore, permettendo alla memoria di far emergere i ricordi uno dopo l’altro, addolcendoli, stemperandoli.

    Entrare nella casa del padre, il giorno prima, dopo più di trent’anni di ostinati e ottusi silenzi, aveva improvvisamente dissolto la corazza che si era costruito per proteggersi. Si era aggirato per le stanze grandi e vuote respirando l’odore stantio di polvere e naftalina, cercando di contrastare il senso di vuoto che la morte del padre gli aveva lasciato. 

    Si era rinchiuso nella sua stanza. Sulla porta pendeva ancora il poster scolorito e spiegazzato di un faro della Bretagna. Dentro era rimasto tutto come lo ricordava, come se il tempo non fosse trascorso per le cose, ma solo per le esistenze delle persone. Gli oggetti sembravano più piccoli, quasi si fossero svuotati di una qualche forma di vita, di un calore di cui non c’era più traccia. Si era ritrovato seduto per terra, tra il letto e la parete, in quello spazio angusto nel quale si rifugiava quando sua madre era malata e lui, incapace di accettarlo, cercava di chiudere fuori il suo dolore.

    Era stato allora che, alzando lo sguardo, l’aveva vista, nello stesso posto in cui l’aveva messa al rientro dal suo lungo viaggio. Quando era tornato aveva chiuso lì dentro tutti i suoi ricordi e non l’aveva mai più riaperta. 

    Spuntava appena sopra l’armadio, nascosta da un modellino di nave impolverato, con l’albero rotto. Aveva riconosciuto quella lacca verde e si era sentito improvvisamente meno perso, meno solo, come se qualcosa fosse riemerso dal suo passato per offrirgli ancora un leggero tepore, una possibilità di riparare ai propri errori.

    L’aveva presa, aveva tolto lo strato di polvere, ma sentiva il bisogno del luogo e del tempo giusto per aprirla. Non lo avrebbe fatto lì. Non in quel momento.

    L’uomo riapre gli occhi.

    Il mare ha cambiato colore, volgendo a un blu intenso, la luce è più dolce, l’aria odora di salsedine. 

    Sfiora gli oggetti contenuti nella scatola. Alcune pietre raccolte sulla spiaggia. Pezzetti di legno levigati dal mare, dalle forme strane. Una piccola bussola di ottone ancora funzionante, perché così saprai sempre come trovarmi, si era sentito dire ricevendola. Poi prende il foglio ingiallito dal tempo, lo libera dal nastro blu che lo avvolge, lo srotola, percorre con le dita il profilo della donna e poi quello dello scorpione adagiato sul fondo del fiume. Sotto c’è una data, 20 settembre 1974: l’ultimo giorno trascorso all’isola. Non riusciva a prendere sonno quella notte e, com’era sua abitudine quando era nervoso, aveva preso gli acquerelli e aveva dipinto fino all’alba. Poi aveva rivolto lo sguardo verso la banchina: lei non c’era, naturalmente. Allora aveva acceso il motore e, lentamente, si era diretto verso il mare aperto in preda a emozioni forti e contrastanti: una profonda tristezza per ciò che stava lasciando e un grande senso di attesa e di gioia per ciò a cui andava incontro, il suo sogno di libertà.

    L’uomo chiude gli occhi e cerca di rivedere nella sua mente l’altro acquerello, il ritratto che le aveva fatto quello stesso giorno, un regalo di addio, anche se allora non lo sapeva: lei era seduta sotto il suo mandorlo e, sebbene fosse profondamente addolorata per la sua imminente partenza, sorrideva e il suo sguardo emanava una forza e una serenità che lui non aveva mai dimenticato e che aveva cercato di trasmettere nel ritratto. Ma soprattutto, le aveva portate con sé nel suo lungo viaggio e gli erano state di grande aiuto nei momenti più difficili. Nel ripensare a lei il suo sguardo si addolcisce e l’uomo si domanda come sarebbe stata la sua vita se avesse creduto a quella promessa di felicità e avesse scelto di restare. Ma in fondo sa che una parte di lui non se n’è mai davvero andata. Erano trascorsi anni. Aveva dovuto solcare mari e oceani, cercando la sua luce nelle persone che incontrava, per capire che lei era l’altra metà del suo cielo. Ma solo adesso, mentre osserva lo scorpione dell’acquerello, gli è chiara la vera ragione che lo ha portato a partire e ora tutto ciò che desidera è che la conosca anche lei.

    PARTE PRIMA

    LA FUGA

    GIULIA, ROMA. MARZO 2015

    Apro gli occhi e mi guardo intorno alla ricerca di qualche elemento familiare che mi aiuti a orientarmi in questa stanza estranea. La luce che filtra dalle tapparelle sgranate mi fa pensare che l’alba sia passata da un pezzo e mi permette di osservare lo spazio circostante: il letto nel quale sono sdraiata ha un copriletto patchwork, le mensole sopra la mia testa sono piene di libri e pelouche e sulla parete di fronte troneggia un poster di Amy Winehouse. Sotto alla finestra, accanto al letto, c’è una scrivania in legno in perfetto ordine e sul fondo della stanza un grande armadio a muro.

    La testa mi pulsa dolorosamente. Resto immobile cercando di ricordare come sono arrivata qui e le immagini iniziano a riaffiorare a ritroso: questa stanza, la sala gessi, la sala raggi, il triage e prima ancora la trattoria, la donna col vestito rosso vicina al nostro tavolo.

    Tutto inizia come sempre, con lo sguardo allucinato di Luigi, quello di quando non sembra più lui, di quando sembra posseduto. Questa volta l’assurda accusa è di averci provato con il cameriere proprio sotto i suoi occhi, ticchettando le unghie sul tavolo e sorridendogli in modo allusivo. Poi gli insulti, le urla, il piatto di zuppa di ceci fumante sulla tovaglia a quadretti bianchi e blu, il vociare della sala indifferente a ciò che sta per accadere. Lo schiaffo violentissimo che mi colpisce in pieno viso, lo sguardo inebetito del cameriere con le mani e le braccia piene di piatti, la mia caduta, la fitta di dolore alla guancia, alla mano, all’osso sacro. E infine Luigi, che prende la giacca e si avvia deciso verso la porta senza nemmeno voltarsi, e la donna col vestito rosso che mi soccorre: la vedo avvicinarsi al rallentatore, non so se sia una mia sensazione o se la sua stazza le impedisca di muoversi velocemente. 

    Mi metto faticosamente seduta e prendo consapevolezza delle sensazioni del mio corpo: il formicolio alla mano sinistra, la guancia e la testa che pulsano all’unisono, l’osso sacro dolorante. Lentamente metto le gambe giù dal letto e noto che indosso una camicia da notte bianca a maniche corte: sul davanti c’è una pecorella sorridente con un cappello in testa. Un moto di gratitudine mi pervade: se non ci fosse stata la signora in rosso che cosa avrei fatto? Mi rendo conto che non conosco nemmeno il suo nome. Mi alzo in piedi, devo andare subito a ringraziarla. Mi gira leggermente la testa, ma sento che le gambe mi sostengono. Mentre mi dirigo verso la porta, mi imbatto in uno specchio a parete lungo quasi fino a terra. Dapprima passo oltre, ma poi mi fermo e torno sui miei passi perché qualcosa ha catturato la mia attenzione.

    Mi metto di fronte allo specchio, immobile, fissando l’immagine che mi restituisce: la donna che mi trovo davanti non sono io, non posso essere io. Il labbro destro è spaccato e la guancia è livida e gonfia, il viso è scavato, il colorito terreo e gli occhi infossati sembrano privi di vita. Erano mesi che non mi guardavo allo specchio. Con la mano destra sollevo la camicia da notte e osservo un corpo ridotto a un mucchietto di ossa, la pelle secca e screpolata: ecco perché i pantaloni mi cadevano, devo aver perso quanti? Forse dieci chili? Come ho fatto a non rendermi conto di come sono diventata? Come ha potuto Luigi ridurmi così? Perché è stato lui a farmi questo e io gliel’ho permesso.

    Ora capisco quello che ha cercato di dirmi Domenico quando è venuto a casa qualche settimana fa. È arrivato un sabato mattina, passava di lì e voleva farci un saluto, ma Luigi era andato in palestra. Non lo vedevo da un po’, dopo l’ennesimo litigio in pubblico avevamo smesso di frequentare gli amici. O meglio, io avevo smesso perché lui continuava a farlo senza di me.

    Quando ho aperto la porta Domenico ha spalancato gli occhi e mi ha preso il viso tra le mani: «Giulia, porca puttana, cosa è successo?»

    Io mi sono spostata per farlo entrare portando istintivamente una mano alla gola: due sere prima avevamo litigato e Luigi l’aveva stretta così forte da lasciarmi un livido scuro che andava da una parte all’altra del collo, quasi fosse una collana.

    Domenico mi ha preso le mani guardandomi dritto negli occhi. 

    «Adesso basta Giulia! Sei ridotta l’ombra di te stessa. Non lo vedi che ti sei spenta, che nel tuo sguardo non c’è più vita? E se la prossima volta stringesse troppo a lungo? So che Luigi è un mio amico, ma promettimi che lo lascerai. Promettimi che ti salverai. Ho paura che, se resti con lui, finirà molto male.»

    Io lo ascoltavo, o meglio sentivo le sue parole, che mi riuscivano a tratti incomprensibili. Quello che mi arrivava però erano il suo affetto e la sua preoccupazione. E questo mi ha stupita perché non mi ero mai sentita in pericolo, sola sì, infelice anche, ma non in pericolo. Probabilmente, però, le sue parole hanno innescato qualcosa dentro di me, accendendo un campanello d’allarme, perché da quel giorno ho iniziato a guardare Luigi con occhi diversi, ad ascoltare le sue parole, a osservare i suoi gesti come se fossero illuminati da una nuova luce. Forse, se oggi sono qui senza aver mai risposto alle sue chiamate è anche merito di Domenico. È la prima volta che succede e so che, quando lo saprà, ne sarà felice.

    La donna estranea e malconcia dentro lo specchio continua a fissarmi. Sento in lontananza qualcuno che bussa, poi il rumore di una porta che si apre. Con la coda dell’occhio percepisco un movimento alla mia sinistra, ma non riesco a distogliere lo sguardo dalla donna dentro lo specchio, così rimango immobile fino a quando alle sue spalle riconosco il viso rotondo della signora in rosso che le posa le mani sulle spalle.

    «Ora sei al sicuro» le dice avvicinando il viso al suo orecchio. «Da oggi non potrà più farti male.»

    La donna nello specchio ripete le stesse parole: «Ora sei al sicuro, da oggi non potrà più farti male.» Le ripete una volta, poi un’altra e un’altra ancora, finché mi sale un groppo alla gola e la voce mi si incrina. Cerco di trattenermi, ma non è più possibile, è come se un argine si fosse spezzato, sento qualcosa dentro che cerca disperatamente di uscire e scoppio in un pianto dirotto.

    La stretta sulle mie spalle si fa più decisa e la donna mi costringe a distogliere lo sguardo dallo specchio e a voltarmi verso di lei, poi allarga le braccia e io mi appoggio al suo petto generoso, mentre i singhiozzi scuotono il mio corpo. Mi sento disperatamente sola, cerco un appiglio, ma l’abbraccio della mia salvatrice sconosciuta non è sufficiente, ho assolutamente bisogno di una luce in mezzo a questo buio. Penso ai miei genitori a Milano, che non sanno niente di quello che è successo. Non posso chiamarli: non sopporterei di dare loro l’ennesima delusione e poi la mamma ne soffrirebbe troppo e papà potrebbe anche perdere la testa e fare una pazzia. 

    Ed ecco che in mezzo a questi pensieri cupi si fa strada l’immagine della sola persona che può aiutarmi in questo momento, zia Tindara: lei non mi giudicherà, non perderà la calma, si limiterà ad accogliermi e a prendersi cura di me, ne sono certa. Chiudo gli occhi e immagino che sia lei ad abbracciami, con i suoi capelli bianchi mossi, lo sguardo pulito dietro agli occhiali con le lenti spesse e il sorriso luminoso. La immagino mentre mi accarezza, come faceva quando ero bambina. Non la vedo da molto tempo, eppure mi sembra che sia sempre stata qui vicina a me, sento quasi il suo profumo, quel misto di sapone e borotalco. 

    Penso alla terra bruciata che Luigi ha fatto intorno a me in questi tre anni. Mi sono trasferita nella sua città allontanandomi dai miei affetti perché litigavamo sempre a causa della distanza, almeno così credevo allora. Dopo due anni di convivenza infernali ho rinunciato al mio lavoro nella società di consulenza, perché Luigi era geloso dei colleghi e mi faceva delle scenate terribili quando mi capitava di fare tardi la sera. Naturalmente mi è stato impossibile fare nuove amicizie. Le rare volte che sono uscita con le mie colleghe lui mi ha tenuto il muso per giorni dicendomi che, se dovevo trasferirmi a Roma per uscire con delle sconosciute invece di fare qualcosa insieme, tanto valeva che restassi a Milano. Il legame con zia Tindara è praticamente l’unico sopravvissuto, forse perché trattandosi di una vecchia zia un po’ pazzerella, non costituiva un pericolo o una distrazione dal nostro rapporto. Forse perché lei è stata così sensibile da capire che, se si fosse messa in contrapposizione con lui, mi avrebbe persa, o forse perché qualcuno lassù ha deciso di lanciarmi un’ancora di salvezza per quando ne avessi avuto bisogno.

    Riapro gli occhi, i singhiozzi sono finiti. Non so quanto tempo sia passato. 

    «Forse è ora di presentarci. Io sono Ines.» 

    «Io mi chiamo Giulia. Mi dispiace avervi rovinato la serata, mi vergogno come una ladra per quello che è successo.»

    «Come scusa? Tu ti vergogni? Chi deve vergognarsi è quel disgraziato, non tu! Se lo trovo a quello gli do du sganassoni che se li ricorda! Ma dove l’hai trovato, eh? Una ragazza bella come te che ci sta a fare con un infame come quello?»

    La sua domanda ha un senso, ma io non trovo una risposta, così Ines riprende da sola la conversazione.

    «Ti va un bel bagno caldo? Se vuoi puoi mettere i vestiti di mia figlia, non è secca come te, ma sono i più piccoli che ho: mi sa che i miei ti starebbero larghi!» dice Ines strizzandomi un occhio mentre allarga le braccia mostrandomi con orgoglio la sua taglia 50. Poi si dirige verso l’armadio sul fondo della stanza e inizia a sbuffare mentre tira fuori una quantità incredibile di maglie e pantaloni.

    «Flavia si è sposata da due anni e la sua camera è ancora piena dei suoi vestiti. Dammi un paio di mesi e ti porto via tutto mà mi aveva detto. Ah, ma io conosco i miei polli e sapevo che sarebbe finita così. Almeno oggi ci tornano utili. Ecco, questi dovrebbero andarti bene.»

    «Grazie Ines, andranno benissimo.»

    Poi mi accompagna in bagno e inizia a riempire la vasca, una di quelle in cui non ci si può sdraiare, ma solo sedere, che mi ricorda quella che avevamo quando ero piccola.

    Accende una piccola radio sopra una mensola, poi inizia a spogliarmi in silenzio, con la delicatezza e l’attenzione di una madre che prepara il suo neonato per il primo bagnetto. Le note di Everybody Hurts dei R.E.M. diffuse dalla radio mi ricordano quelle di una ninna nanna. Mi sembra di essere tornata bambina: non provo più vergogna, né paura, solo un senso di sollievo e una totale fiducia nella persona che ora si sta prendendo cura di me. Entro nella vasca tenendo il braccio sinistro sollevato e coperto da una busta di plastica per non bagnare il gesso.

    «Si risolverà tutto, fidati di Ines. Quando si tocca il fondo poi si risale sempre» afferma convinta mentre mi lava i capelli. Io annuisco, ma non riesco ad avere lo stesso ottimismo. 

    Dunque è questo il fondo di cui si parla, quello che quando lo tocchi non puoi che risalire? Come funziona esattamente? Immagino un sub che scende, scende, scende e arriva sul fondo del mare, posa i piedi sulla sabbia e poi rimbalza spinto verso l’alto da una forza invisibile proveniente dalle profondità della terra, una forza lenta ma inarrestabile, che lo porta su fino a quando, finalmente, non riemerge in superficie. Ma la domanda più importante alla quale non so rispondere è: come fai a capire che sei arrivato sul fondo? Siamo proprio sicuri, come dice Ines, che quando ci arrivi non puoi che risalire? E se invece ci fossero persone che non riescono a farlo? Se ci fosse qualcuno che rimane giù, senza più ossigeno, senza più luce, senza più la forza di tornare in superficie? E se questo stesse accadendo proprio a me?

    Quando Luigi mi ha insultata e schiaffeggiata, umiliandomi davanti ai miei ex colleghi, ero convinta di aver toccato il fondo, ma oggi sento che il volume dell’acqua che mi sommerge è decisamente maggiore rispetto a quel giorno di un paio d’anni fa. Questo significa che in tutto questo tempo ho continuato inarrestabilmente a sprofondare mentre mi illudevo di risalire. 

    «Ammazza che boccoli!» commenta Ines mentre mi asciuga i capelli. «Com’è che si dice? Ogni riccio un capriccio, giusto? Anche Flavia ha una bella criniera come la tua e da piccola era la numero uno delle capricciose. Ma è la mia principessa, che devo fa’? È più forte di me, non so dirle di no. Tranne quando in prima elementare ha preso i pidocchi e non voleva assolutamente tagliarsi i capelli. Ma io glieli ho tagliati corti così» mi fa segno dallo specchio mettendo indice e pollice uno sopra l’altro. «Mamma mia, sapessi, sembrava un diavolo: hanno dovuto tenerla ferma in due!» Ma mentre lo dice sorride e il suo sguardo è pieno di dolcezza.

    Dopo avermi aiutata a vestirmi mi accompagna in cucina, dove inizia a imburrarmi una fetta di pane. 

    «Sorridi eh? Buon segno!» dice compiaciuta.

    «Vederti imburrare il pane mi ha ricordato le colazioni a casa di zia Tindara, quando da ragazzina facevo le vacanze da lei in Sicilia. Io mi sedevo al grande tavolo della cucina e lei mi rimpinzava di ogni ben di Dio, ma iniziava sempre con pane, burro e marmellata.»

    «Tua zia è siciliana?»

    «Sì, vive a Levante, una piccola isola nell’arcipelago delle Eolie. Ricordo che, mentre facevamo colazione, mi parlava di tante cose, anche di quelle che i miei liquidavano come cose da grandi. Con zia Tindara non c’erano argomenti tabù, io chiedevo e lei parlava e quando io parlavo, lei si sedeva e mi ascoltava come se stessi dicendo la cosa più importante del mondo.»

    «Mi sembra giusto. E dimmi, è da tanto che non la vedi?»

    «Sì. Purtroppo Luigi mi ha isolata da tutti i miei affetti, ma so che se tornassi da lei oggi, sarebbe come se fossero passati solo pochi giorni.»

    «Allora che aspettiamo a chiamarla? Non è che voglio metterti alla porta eh, ma devi andare da qualcuno che ti vuole bene e, se proprio non vuoi chiamare i tuoi, allora vai da questa zia Tindara. La Sicilia… ah, quant’è bella! Io ci ho fatto il viaggio di nozze trentadue anni fa. Una meraviglia! E poi i cannoli, gli arancini, le panelle! Non ti farebbe mica male un po’ di dieta siciliana: qui bisogna rimpolparle queste ossicine!»

    «Mi sa che hai proprio ragione» le rispondo sorridendo, «zia Tindara tra l’altro cucina divinamente. Ha anche un ristorantino al porto: era della nonna e quando è morta lo ha preso in gestione lei.»

    «Ambeh! Sole, mare, coccole e buon cibo: che vuoi di più? È perfetto!» afferma Ines con convinzione.

    Ripenso alle chiacchierate con zia Tindara sotto il suo mandorlo, quando le raccontavo delle prime cotte estive, e lei mi parlava dell’amore.

    «Sai, mia zia dice sempre che l’amore vero ti fa danzare, ti fa volare e ti fa scoprire parti di te attraverso l’altro» le dico.

    «Oh quant’è vero! Mariuccio mio mi ha fatto sì danzare e volare, almeno prima che mi ingrassassi così, adesso se prova a farmi volare come minimo gli esce un’ernia!» ride Ines. «Sai, dopo la gravidanza ho avuto un problema alla tiroide e ho iniziato a prendere peso. Non sai come mi disperavo! Ero diventata gelosa, credevo che non mi volesse più bene e ho iniziato a fare la matta. Ma lui non ha occhi che per me, alla fine l’ho capito. Anche questo è amore, credo. Sentirti libera di essere come sei, anche quando non si vola più. Secca, grassa, bionda, mora, giovane, vecchia, alta, bassa, ma che c’importa! Tu che dici, eh piccolè?»

    «Dico che forse dell’amore so meno di quanto pensassi. Luigi mi dice sempre delle cose stupende, che mi fanno sentire speciale. Sostiene di amarmi come nessun altro potrebbe fare, ma mi chiedo dove sia tutto questo amore nei fatti, perché nei suoi gesti non lo sento più da tanto tempo. Mi fa sentire sempre controllata, sotto esame, sbagliata. Vuole che io sia perfetta, se ingrasso un paio di chili dice che lo faccio sfigurare con gli amici. Pensa, quest’anno compio quarant’anni e lui vuole regalarmi un intervento estetico per ingrandire il seno: sostiene che la terza è la taglia perfetta, la seconda è un po’ troppo piccola.»

    Ines mi guarda scuotendo vigorosamente la testa.

    «Sai che ti dico? Che sto’ Luigi non è solo un infame, ma è proprio un gran cojone se non apprezza una come te. Scusa il francesismo, ma quando ce vo’ ce vo’! E ti dico pure un’altra cosa: secondo me lo devi denunciare per quello che t’ha fatto e poi te ne vai a Levante da zia a farti coccolare. Sei giovane, bella, intelligente. Ti manca solo un po’ di fiducia in te stessa, ma ricordati che sei una donna e le donne sono una forza della natura. Siamo noi che mandiamo avanti sto’ mondo, anche se agli uomini piace credere di essere loro. Ma noi siamo più forti e tu non sei da meno. Devi solo crederci.»

    Mentre ascolto le sue parole penso che mi sento tutto tranne che forte e mi vedo con gli occhi della mente seduta per terra, circondata unicamente da macerie. Mi rendo conto che ho bisogno di ricostruire me stessa e la sola persona che mi può aiutare in questo momento è proprio lei, zia Tindara.

    II

    Ci siamo, lo sto facendo davvero: tra un quarto d’ora questo treno mi porterà lontana da lui, da questa città, dalla mia vita.

    Alla fine ho convinto Ines a non denunciare Luigi. Inizialmente era irremovibile, ma siamo riuscite a raggiungere un compromesso: per il momento possiamo soprassedere sulla questione denuncia se andrò subito a Levante da zia Tindara. Ines voleva accompagnarmi al treno, ma ho insistito perché mi lasciasse in stazione e tornasse subito a casa, visto che domani sarà giorno di mercato e lei e Mario, che hanno una bancarella di frutta e verdura, dovranno alzarsi fra poche ore. Però adesso non posso fare a meno di guardarmi intorno furtiva con la paura folle di vederlo comparire improvvisamente alle mie spalle. Mi rendo conto che si tratta di un pensiero irrazionale, ma in fondo non è un’ipotesi del tutto campata per aria. Luigi sa che la sola persona alla quale mi rivolgerei in questo momento è la zia e sa che questo è il treno che ho sempre preso per andare da lei, quindi se volesse trovarmi potrebbe venire qui a cercarmi. Conoscendolo, immagino che si sentirà come un leone in gabbia: da ieri non ha più mie notizie, ho bloccato il suo numero sul cellulare dopo aver trovato più di cinquanta chiamate fatte durante la notte. A casa di Ines mi sentivo protetta e accudita, qui invece mi sento esposta e, improvvisamente, molto sola. Ci sono poche persone al binario, del resto è un giorno infrasettimanale e all’estate manca ancora qualche mese. Mi affretto a salire e a cercare il mio posto: la carrozza è praticamente vuota, ci sono solo un signore con i capelli bianchi che sembra essersi già assopito e una coppia che sta sistemando i bagagli.

    Ecco, finalmente il fischio del capotreno, le porte si chiudono e, dopo qualche istante, iniziamo a muoverci. Tiro un sospiro di sollievo, ora posso rilassarmi. 

    Osservo la coppia seduta nella mia carrozza: lei è più giovane di lui e sembra felice di stargli accanto, ha lo sguardo appagato e sereno di chi sa ciò che vuole dalla vita e pensa che sia a portata di mano. Anche lui sembra sereno, ma nel suo sguardo c’è un fondo di stanchezza. Non riesco a farne a meno: quando sono in viaggio immagino la vita delle persone che incontro. A volte invento storie probabilmente lontane dalla realtà, ma mi piace farmi trasportare dalla fantasia. E poi così il viaggio passa prima. La coppia secondo me è piuttosto fresca, forse lui ha un matrimonio alle spalle finito male, probabilmente dei figli: lei rappresenta la sua seconda possibilità di una vita nuovamente felice. E lui per lei cosa rappresenta? Sicuramente tutto ciò che Luigi non è mai stato per me. Da come si parlano è evidente che il loro è un rapporto sano e alla pari, ogni tanto ridono, appaiono rilassati, cosa che noi non siamo stati mai, neanche all’inizio. Nella mia fantasia lei è una scrittrice in erba e

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