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Clack!
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E-book392 pagine5 ore

Clack!

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Info su questo ebook

Le parole che leggerai nascondono segreti. Del resto, non sempre quello che vediamo corrisponde alla realtà e la realtà può non essere una soltanto. 
Matteo ha 16 anni, è taciturno, ha problemi con gli orologi e si sconvolge davanti alle porte chiuse. Il solo rumore, clack, è per lui un pugno. Attraversando un tunnel viene trascinato in un bosco surreale, dove tutto emana un’energia strana e il tempo sembra non rispondere. Qui, tre fazioni di esseri incredibili si contendono la supremazia.
Matteo, in costante lotta con le sue difficoltà neuromotorie, scoprirà una realtà profonda e ricca di sfumature. Sarà l’enigmatico Gabriele a rivelargli la sua missione e a insegnargli a vedere oltre le apparenze, per percepire la connessione profonda non solo tra gli esseri viventi, ma anche con tutto ciò che li circonda. 

Clack! è un romanzo fantasy di formazione che celebra l’unicità e l’importanza di ogni individuo nella comunità. Invita i lettori a esplorare il mondo attraverso una lente particolare: quella dell’inclusione inversa. Grazie a essa, Matteo si immergerà nelle vite degli altri, li ascolterà e li osserverà con il cuore e l’anima. 

Clack! Ha anche l’obiettivo di raccogliere fondi per sostenere l’associazione T.A.R.T.A. BLU, che offre aiuto e supporto alle famiglie che hanno a che fare con l’autismo.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita5 dic 2023
ISBN9791254584507
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    Anteprima del libro

    Clack! - Edoardo Morelli

    COLLANA GLI SCRITTORI DELLA PORTA ACCANTO

    EDOARDO MORELLI

    Clack!

    Pubblicato da Pubme © – Collana Gli scrittori della porta accanto

    Prima edizione 2023

    ISBN:

    Copyright © 2023 Gli scrittori della porta accanto

    Responsabile editoriale: Davide Dotto

    Art director: Stefania Bergo

    Graphic designer: Stefania Bergo

    Immagine di copertina: generata con Adobe Firefly

    Per essere informati sulle novità della collana Gli Scrittori della Porta Accanto visitate il sito: www.gliscrittoridellaportaaccanto.com

    Questa è un'opera di fantasia.

    Ogni riferimento a fatti, luoghi o persone è puramente casuale.

    È vietata la riproduzione completa o parziale dell’opera ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge 633/1941).

    Dedicato a Elisa,

    mia moglie, che ha fatto brillare

    la prima scintilla di questo libro.

    DISCLAIMER

    Le parole che leggerai nascondono segreti.

    Non sempre quello che vediamo corrisponde alla realtà e la realtà può non essere una soltanto.

    Muoviti tra queste righe con circospezione. Leggi con la calma di chi sta cercando qualcosa. Svela gli arcani più nascosti.

    E se quello che leggerai ti piacerà, unisciti a coloro che stanno costruendo un castello. Hai già fatto la differenza aiutando molte persone acquistando Clack!. Alla fine del libro scoprirai come puoi diventare un eroe come Matteo.

    Alt, non saltare alla fine! Il segreto va scoperto con calma, solo dopo aver letto tutta la storia riuscirai a percepire il messaggio.

    Buona lettura.

    Edoardo.

    PARTE 1

    1.

    La luce che entra dalle fessure della persiana è una delle cose che odio di più. Tu sei lì, sotto le coperte calde e soffici, rilassato come riesci a essere di rado e sotto le palpebre si insinua quella lama sottile. Non fraintendetemi, adoro la luce, ma svegliarsi con la musica è tutt’altra cosa.

    La musica per me è irrinunciabile, mi entra dentro, fibre e organi vengono infusi di energia, è ciò che più si avvicina a un’amica.

    Io e la musica siamo così intimi che le sue frequenze mi condizionano; devo stare attento a quale scelgo, non posso fare a meno di lasciarmi trascinare dal suo ritmo e dalla sua anima. Sì, il mio rapporto con questa dolce dea fatta di onde è carnale, viscerale, concreto.

    «Matteo!»

    La mamma. Anche lei è una delle mie amiche più care, spesso ha il viso stanco, mi sorprendo a guardarla con distacco, quando mi rendo realmente conto di quello che è: una persona. Sembra banale, ma solo quando ho iniziato a vedere ogni essere umano come una semplice persona sono riuscito a valutarne davvero l’essenza. Ho cominciato a capire e non solo a guardare. Una volta non notavo la stanchezza nei suoi occhi, vedevo che si faceva in otto ma era una mamma! Tutte le mamme si fanno in otto per la famiglia! Purtroppo non riesco ad alleggerire il suo fardello, vorrei tanto e mi impegno davvero, ma non sempre viene fuori quello che ho dentro.

    «Matteo, sei sveglio?»

    Come potrei non esserlo con delle spade luminescenti piantate negli occhi e un corno vichingo che risuona il mio nome per le scale?!

    «Dai pigrone, il fatto che sia sabato non vuol dire che tu possa dormire tutto il giorno.»

    «Mhmm!»

    Ormai è dentro.

    «Andiamo, Lorenzo è giù che ti aspetta.»

    Sbam!

    Le mani della mamma spalancano finestra e persiana. La luce e l’aria entrano così prepotenti che sembra abbia aperto tutto in un colpo solo. Mi riparo la faccia alla bene e meglio, con movimenti che se dicessi maldestri sarebbe per farmi un complimento.

    Obiettivamente non sono molto coordinato, anche se a fiato non mi batte nessuno, sarei capace di cominciare a correre la mattina e fermarmi la sera. Se la musica è la mia migliore amica, il movimento è altrettanto fedele.

    Mi attende quando ho bisogno di sfogarmi, quando lo stress si accumula. Non devo fare altro che rilasciare la tensione e trasformarla in vibrazione e in movimento.

    Ora che ci penso, la mia vita è fatta di vibrazioni: siano quelle della musica o dei muscoli, una coincidenza tanto inquietante quanto affascinante.

    Ma non mi posso perdere troppo nei miei pensieri, la mamma è sopra di me e con uno strattone mi costringe a mettermi a sedere. Con movimenti rapidi e precisi traghetta vestiti dai cassetti fin sul letto, dando per scontato che li indossi con la stessa velocità.

    La guardo un po’ infastidito.

    Mentre la sonnolenza si dissolve, sento farsi avanti l’irrequietezza. La mano stringe l’aria e il pugno si contrae un pochino.

    Lo stereo si accende e nell’aria risuona Luce di Elisa[1].

    Ora sì che la mattina si incammina nella direzione giusta. Mi rilasso e mi faccio avvolgere dalla delicatezza della voce e dei suoni, le dita si distendono, il mio pugno stringe i jeans e con calma inizio a vestirmi.

    La mamma non si dimentica mai di accendere lo stereo.

    Sono vestito, lo zaino è preparato e l’iPod è nella tasca.

    «Ti sto aspettando, terremoto!»

    Lorenzo mi urla dalla strada. Con la finestra aperta è come se fosse in piedi sul davanzale. È un ragazzo giovane e ha i capelli strani. Sembrano di lana e dubito fortemente che riesca a pettinarli. Dovrebbero sembrare sporchi ma a vederli, a loro modo, sono curati. Boh! Ho rinunciato a capire da tempo, io mi trovo bene con la mia spazzola. Mica ho voglia di invecchiare nella doccia dietro ai capelli, ho cose molto più importanti da fare, io. Una di queste è unirmi alle escursioni con il gruppo di Lorenzo, al mare e in campagna ci divertiamo da matti. Ho sedici anni e ancora non ho preso il motorino, mi piacerebbe, ma come ho già detto la coordinazione non è il mio forte. Magari un giorno ci riuscirò, ma fino ad allora mi godo queste scampagnate.

    Faccio per precipitarmi tra un salto e un balzo giù per le scale ma non arrivo nemmeno alla porta, la mamma mi afferra per il cappuccio della felpa. Di solito è delicata, ma a volte riesce a essere maldestra almeno quanto me. D’altronde il fine giustifica i mezzi e se non si lasciasse andare, probabilmente le scapperei.

    Nella sua mano compare come dal niente un barattolo. Lo apre e con quattro movimenti dà un senso a quel garbuglio moretto che mi ritrovo in testa. È buono l’odore della cera per capelli.

    Ora sono pronto e con una pacca sul sedere mi indirizza verso le scale, fuori dalla porta.

    Le scendo a due a due, tengo stretto l’iPod nella tasca, arrivo davanti alla porta d’ingresso e mi fermo. Ho dei problemi con le porte chiuse. Potrei e vorrei aprirla, salutare Lorenzo e schizzare sul pulmino; semplicemente, la mano che dovrebbe aprirla non lo fa, motivo per cui la mia stanza è aperta, almeno per metà. Quasi sempre: quella maledetta a volte gioca brutti scherzi. Cerco di disperdere un po’ di tensione con il braccio e la mano destra, quella che dovrebbe decidersi. Arrivano rinforzi, la mamma mi supera e afferra la maniglia, mi guarda e sorride.

    Il sorriso della mamma. Credo che in tempi antichi potesse essere stato un’arma. Riesce con quel semplice gesto a sprigionare un’energia misteriosa, capace di trasformare nel profondo lo stato d’animo di un figlio. O a risultare estremamente appiccicosa… Dipende dalla situazione.

    Una mano sulla testa completa il lavoro cominciato dal sorriso, mi rilasso.

    Con la stessa mano gira la maniglia e con un clack la porta si apre, lasciando entrare un’altra lama luminosa. Questa volta non mi infastidisce, anzi, dentro di me sento crescere insieme la voglia di mettere i miei piedi fuori di casa e la preoccupazione di staccarmi da quel sorriso. La mano che poco fa mi accarezzava la testa ora mi accompagna fino a oltre la porta. L’aria di giugno è calda quel tanto che basta per star bene senza essere fastidiosa, il vento è leggero e lo sento passare tra i ciuffi. Chiudo gli occhi e assaporo il momento.

    La preoccupazione non scema, le dita si torcono di nuovo e i muscoli delle braccia si contraggono. Estraggo veloce l’iPod dalla tasca e lo porgo in avanti. Lorenzo è a pochi passi da me, afferra le cuffie, me ne piazza una nell’orecchio destro e schiaccia play. Grazie Lorenzo. Il mio viso lo deve dire molto chiaramente, a giudicare dalla faccia del ragazzo dai capelli di lana.

    «Sei pronto, Matte?! Oggi ci aspetta una bella giornata alla Piana dei Cipressi.»

    Quella notizia mi apre cuore e mente in un colpo solo, la Piana dei Cipressi è bellissima. È un posto semplice: una grande prateria ai bordi di un bosco. L’erba è curata, c’è qualche panchina e poco altro, a divertimenti e passatempi ci pensa Lorenzo.

    Non ho mai capito perché dei Cipressi. Non ce n’è nemmeno uno, solo prato e alberi immensi, sparse qua e là piccole ghiande che mi diverto a gettare in un ruscello che scorre lì vicino. Tanta è la felicità per la notizia appena appresa che mi costringo a parlare: «Bbbatti cinque». Una maledetta fatica.

    In un secondo le nostre mani si incontrano in uno schiocco secco.

    Non sono un grande oratore, non che non sia in grado, ma devo raccogliere bene la concentrazione. Qualche frase può uscire un po’ sconnessa, o manca una parola, difficilmente qualche lettera. Ancora peggio se sono in pubblico, se poi c’è anche gente che non conosco meglio se me ne sto zitto, non vorrei tirare strafalcioni.

    Funziona un po’ come l’apertura delle porte: sarei in grado di farlo con la mente, la difficoltà arriva nel tradurre il pensiero in azione. Le parole però mi piacciono, leggo molto bene, ma alla fine quello che imparo finisco per tenermelo dentro. Come il sorriso della mamma anche le parole devono avere avuto un potere particolare, magari in tempi di cui l’essere umano non ha memoria. Adoro sia leggere che ascoltare, quello che apprendo lo sistemo per bene nei cassetti della mia mente. Cerco per quanto posso di non buttare nulla, tutto può essere utile, non si sa mai.

    È l’ora di andare, la mamma mi saluta e, con un po’ d’ansia, seguo Lorenzo fino sul furgoncino. Mi apre la portiera e mi accomodo sul sedile del passeggero.

    Durante il tragitto, con la coda dell’occhio, mi sembra di vedere delle ombre lungo la strada.

    Mi volto pensando ci siano delle persone, ma resto deluso. Solo asfalto, qualche siepe. Poco male, ho il mio da fare adesso.

    L’odore all’interno del furgoncino è un po’ strano, sembra quello del tappeto del salotto in attesa da un po’ di essere passato con aspirapolvere e bicarbonato. Non importa, i sedili dietro sono pieni di giochi e in bauliera c’è Rudolf, un cagnolone biondo simpaticissimo. Avevo detto che eravamo un gruppo, no? Ora verrebbe da chiedersi quale madre snaturata mandi in giro un figlio con un elemento come Lorenzo. Capelli strani, auto che odora di tappeto polveroso, giochi sparsi in barba a qualsiasi concetto d’ordine e un cane in bauliera che di certo non profuma di rose.

    È mio fratello! Ci somigliamo come due gocce d’acqua, solo che una è ghiacciata, l’altra è liquida: dentro sono simili ma a vederle da fuori non si direbbe.

    Lui è grande e vive da solo poco fuori città. Lavora in una piccola bottega, sta imparando a fare il falegname. È sempre stata la sua passione, da piccolo ha provato a scolpire anche la gamba di una sedia per decorarla. Gli era venuta pure bene, ma non aveva calcolato lo spessore.

    L’intaglio era profondo e il nonno pesante. Povero nonno. Sembrava una tartaruga mentre imprecava contro tutti i santi del paradiso e si teneva l’osso sacro. Aveva anche una strana propensione per le imprecazioni verso le reliquie. A suo modo qualcuno lo definiva un artista. Ancora cerco di comprendere la sua arte, ma a molti faceva ridere.

    Lorenzo monta su e dopo aver chiuso la porta mi guarda con il suo solito sorriso a trentadue denti: «Allora, terremoto, sei pronto per l’avventura di oggi?»

    Faccio segno di sì, nelle orecchie ho una canzone inglese di cui non capisco un tubo, ma mi piace molto come suona.

    «Okay mozzo, benvenuto sulla nave del pirata Capello Pazzo. Mettiti comodo e tieniti, che il mare può farci delle sorprese!»

    Obbedisco, mi reggo forte e sorrido. Una cosa che di sicuro avevamo in comune era l’immaginazione e quando usciamo insieme è sempre un’avventura diversa. Riesce a guidarmi in mondi che mai potrei vedere. Molti di essi nemmeno esistono. È davvero un mago, senza di lui non sarebbe possibile. Tesse la trama delle nostre avventure con la stessa facilità con cui scolpisce il legno.

    A volte mi domando perché non si sia dedicato all’insegnamento. Spesso a scuola vorrei un professore come lui. Non sono un alunno facile: mi agito, salto, cammino veloce su e giù, dimeno braccia e gambe, parlo poco, ho difficoltà a concentrarmi e molto altro.

    Lo capisco. Sono consapevole anche se so che non si direbbe. La noncuranza di certi insegnanti però è di una vuotezza immane. Non ci sono vibrazioni, li guardo e vedo delle scatole vuote che compiono azioni preimpostate. La mia vita dipende da vibrazioni, musica e movimento. Sono imprescindibili. Coloro che non emettono vibrazioni mi innervosiscono. Tanto vale che facciano i falegnami, almeno lavorerebbero semplici pezzi di legno, e non persone dotate di un’anima.

    Poi ho fatto una considerazione in più: com’è che un buon falegname riesce a conferire emozioni a un pezzo di legno?

    Dunque ho capito che un buon falegname può essere migliore di molti di quelli che ho incontrato. Un buon falegname sa che si può trasmettere amore a qualsiasi cosa. Ha la sensibilità per percepire le vibrazioni che sono nell’aria, non importa da dove arrivino, e le riversa nelle sue creazioni.

    Ora sono con una di queste persone e fortuna vuole che sia mio fratello. Siamo su una nave pirata. Il vento gonfia le vele, mi accarezza i ciuffi e il sole caldo mi dà conforto.

    Un gabbiano ci segue a poppa e usa la nave per riposarsi quando è stanco di volare.

    Ho una bandana verde e pantaloni strappati sotto il ginocchio. Lorenzo ha i capelli raccolti in una crocchia selvaggia e una lunga cicatrice sul volto. La camicia a righe rosse e bianche gli dona.

    Abbasso il finestrino per far alzare il vento, le vele si gonfiano di più e aumentiamo la velocità. Se solo i professori avessero il potere di evocare tali paesaggi. Si accontentano invece di attraversare la vita senza viverla. Non la percepiscono, la guardano solo scivolare via. Come un paesaggio che scorre sotto i piedi, con loro fermi al centro. Nessuna fatica, nessun coinvolgimento: solo asettica attesa. Attesa che altri facciano, che altri vivano, che altri vibrino. Così spengono quello che hanno intorno; nel cercare di riempire se stessi, risucchiando l’energia altrui. E non se ne rendono conto.

    Il gabbiano mi è vicino e guarda l’orizzonte insieme a noi. Mi tocco il fianco, sento l’elsa della spada. L’ansia che mi invadeva per il distacco da casa si è dissolta, la vibrazione della passione di Lorenzo mi ha pervaso.

    «Allora mozzo terremoto, non ti piace quest’aria salmastra?!»

    Sorrido forte e sobbalzo, ma mi immagino di rispondere con la risolutezza che non mi appartiene: «Sissignore, dovrebbe essere cosa di tutti i giorni!»

    «Bravo mozzo, quello che dico sempre io. Ora teniamo gli occhi ben aperti, le navi della marina militare pattugliano queste acque, pronte a scagliarsi contro quelli che hanno la nostra faccia!»

    «Sì capitano, prendo il cannocchiale e vado di vedetta.»

    Dopo una mezz’ora di navigazione e passati indenni all’attacco di tre autovelox della marina, vediamo avvicinarsi uno dei luoghi più belli al mondo.

    «Piana dei Cipressi in vista, capitano.»

    «Ottimo lavoro mozzo terremoto, prepararsi all’ormeggio.»

    Gli basta guardarmi per capire quello che voglio dirgli, o almeno così sembra.

    2.

    Arrivati. Il furgone ormeggia vicino alle altre navi e Lorenzo scende ad aprirmi la portiera. Da dentro non si apre, deve essersi rotta tempo addietro, chissà quando.

    Appena slacciata la cintura, scorgo uno spiraglio. Scivolo di sotto facendo sobbalzare Lorenzo.

    Tutto vibra in questo posto: la natura, la luce, i suoni, l’aria. Le persone stesse risuonano in modo particolare. L’erba è di ovatta e velluto. Non so perché, ma una volta qui non ho più bisogno di musica. Sarà che tutto in questi luoghi mi conforta. Ci sono molte persone, ma il posto è talmente grande che nemmeno me ne accorgo, non mi sento schiacciato.

    «Pronto a partire, terremoto?»

    Mi metto sull’attenti e mi ricordo che ormai abbiamo abbandonato la nave. Non siamo più dei pirati.

    Lorenzo si carica sulle spalle un po’ di giochi e libera Rudolf.

    È sempre bello vederlo correre libero, anche lui sente tutto quel vibrare e si emoziona almeno quanto me.

    Mi abbasso per toccare il velluto e saggiare l’ovatta.

    Ci incamminiamo verso il nostro solito angolino, un albero vicino al ruscello. È sempre vuoto perché distante dalla piccola area giochi. A me piace proprio per quello.

    Ho provato a volte ad avvicinarmi agli altri ragazzi e bambini, ma con scarso successo. Loro sono molto espansivi e vorrebbero coinvolgermi nei loro giochi. Lo farei volentieri, ma ho i miei tempi e non tutti hanno voglia di aspettare. Noi giovani vorremmo tutto e subito. Anche io lo vorrei, ma mi sento come un pesce da acquario. Di quelli che vengono introdotti da una busta di plastica, da soli o in coppia. È, l’acquario, un ambiente che non conoscono, pieno di altri pesci che non hanno mai incontrato prima.

    Io reagisco come loro. Per prima cosa mi ritiro in disparte, cerco un posto sicuro e studio gli altri. Mi accerto che non ci siano predatori che possano mordermi. Poi salto da un nascondiglio all’altro ed esploro l’ambiente, per capire come è fatto. Dopodiché mi avvicino a un pesce alla volta cercando di non essere assalito da una mandria di curiosi.

    A volte funziona, altre no. Capita vi siano pesci dominanti che ci tengono a metterti in imbarazzo se si accorgono che c’è qualcosa di strano. Altri peccano di eccessivo altruismo: cercano in ogni modo di coinvolgerti ma non si accorgono che ancora sei nella fase di studio e quindi, di nuovo, ti rintani nell’ombra sicura di un nascondiglio.

    Per evitare tutto ciò mi tengo in disparte e decido io se, ma soprattutto quando e come, farmi avanti.

    Questa cosa fa la fortuna di molti professori del tipo che ho descritto prima. A scuola ho difficoltà a inserirmi e a relazionarmi. Non sono in grado di stare in gruppo, per questo sto in una stanza da solo.

    Quanto si sbagliano.

    Io sto da solo perché mi tengono da solo. Non capiscono che mi basterebbe prendere padronanza del luogo. Imparare ad aggirarmi per l’acquario-scuola e trovarmi un angolo in disparte dal quale pian piano cominciare a farmi degli amici. Così io gli amici me li faccio alla Piana dei Cipressi, con Lorenzo che mi dà una mano.

    Qui ho conosciuto Claude, un ragazzo un po’ più piccolo di me. La sua mamma è francese. Oggi ancora non l’ho visto, ma appena mi apposto sotto il mio albero, se c’è, salta fuori. Sa che ci sono.

    Mi stupisco di come io non sia in grado di fare amicizia con ragazzi che vedo tutti i giorni. Con Lorenzo invece, con persone che vedrò sì e no una volta al mese, ci riesco. Mistero della fede, o ignoranza dell’essere umano.

    Quando sono sotto l’albero percepisco lo scorrere del ruscello. È una melodia che mi culla, composta e suonata da abili musicisti invisibili. Chissà come si chiama lo strumento che suona il rumore dell’acqua?

    Mi siedo sull’ovatta e mi pettino il velluto. Mi tranquillizza e quindi lo faccio, forse con eccessiva insistenza. Lorenzo se ne accorge e mi propone un gioco.

    «Ehi terremoto, due calci al pallone?»

    Ogni tanto mi diverte ma non ora, la musica del ruscello e l’erba mi rilassano. Lorenzo capisce e mi si siede vicino, chiude gli occhi e assapora il sole che filtra tra le fronde dell’albero. Lo imito.

    Passano pochi minuti quando mi sento chiamare. Ecco Claude! Come cavolo farà a trovarmi? Forse mi fiuta da lontano. Magari fa parte di una specie che si è evoluta dai cani invece che dalle scimmie. O è magia. Ho letto una storia con un personaggio del genere e non mi è piaciuta molto. Il protagonista però era interessante.

    «Ciao Matteo, hai voglia di giocare?»

    «Forse ora è un tantino concentrato, magari tra un pochetto…» Lorenzo intercede per me.

    Il mio amico capisce, ma resta a guardarmi mentre mi godo la morbidezza del suolo. Mi si siede davanti, mi guarda da più vicino e comincia anche lui a pettinare l’erba.

    E mi si dice che non so relazionarmi. Perfino Claude, tredici anni, comprende che ho tempi diversi dai suoi. A differenza di quelli che dovrebbero essere colti e istruiti, si adatta a questa mia particolarità. Ci somigliamo più di quanto non sembri.

    A volte sento parlare Lorenzo con la mamma di Claude.

    Anche se sono lontani, il vento gioca a mio favore trasportando le loro voci alle mie orecchie. Che forte è il vento nel catturare i suoni e diffonderli. Vorrei averlo anch’io quel potere.

    Da quel poco che capisco, il mio amico ha come me un po’ di difficoltà a scuola. Le cose non gli rimangono in mente. Qualcuno dice sia un difetto di attenzione. Altri che sia un po’ in ritardo, quasi abbia chissà quale appuntamento. Ognuno dice la sua ma ancora non c’è niente di certo, fatto sta che il tempo passa e lui rimane indietro, e più rimane indietro più ha difficoltà a stare attento. Non sono un dottore né un insegnante, ma mi pare che questo cane si rincorra la coda.

    Per esempio a me la lettura viene facile, a lui per niente. D’altro canto io non mi raccapezzo con l’orologio, mentre lui lo sa leggere benissimo ed è sempre puntuale e preciso.

    L’unico orologio con cui dialogo è quello con i numeri digitali, so che alle dodici si pranza e alle venti si cena. Se però sono le diciotto, non mi regolo e non so bene quanto manchi a mettersi a tavola.

    Piano piano però sto migliorando. La mamma si diverte a mettermi alla prova dicendomi che se non riesco a essere puntuale potrei non trovare la cena in tavola. Ma non è mai successo.

    La mamma di Claude è giovane, poco più grande del mio fratellone e pare avere il potere di azzerare la fantasia. Quando parla con lei, il pirata dai capelli selvaggi diventa di una banalità disarmante e lo sguardo gli va da tutte le parti, tranne che dritto negli occhi della ragazza, salvo brevi istanti che gli suscitano non poca agitazione.

    In questo specifico attimo ha le mani in tasca e sposta di continuo il peso da una gamba all’altra. Fa discorsi del tipo si stava meglio quando si stava peggio.

    Colette è sportiva nel vestire, ha il volto sorridente e gli occhi dolci, pare assecondarlo, quasi capisca che quello che parla non è il vero Lorenzo. Ha capelli castani e occhi grandi.

    Ora che ci penso la vedo sempre al parco, sarebbe strano il contrario.

    Poco più bassa di mio fratello è magra almeno quanto lui. Mi stufo di tutte quelle chiacchiere e alzo lo sguardo su Claude, faccio un sorriso e lui mi ricambia. Poi apre la bocca: «Esplorazione?»

    Quello sì che è un gioco, altro che pallone. Ora è il mio sorriso a essere a trentadue denti.

    Ci alziamo con la delicatezza di due elefanti zoppi in un negozio di lampadari e ci buttiamo in mezzo a mio fratello e Colette.

    Quella cappa d’imbarazzo, che aleggiava sulla loro conversazione come la nebbia densa delle mattine autunnali, si scioglie subito. Il tempo delle chiacchiere è finito, è l’ora di entrare in azione.

    Non so se Lorenzo abbia sentito la proposta di Claude, ma credo abbia capito al volo quello che abbiamo intenzione di fare, o più banalmente ci segue senza porsi troppe domande.

    E infatti: «Eccoli lì, forza giovani esploratori, in marcia alla volta della foresta incantata!»

    Chiudo gli occhi e faccio un respiro profondo, sta per cominciare una nuova avventura.

    Mio fratello non continua a tessere la trama come è suo solito fare. A quanto pare è impegnato a farfugliare banalità. Non posso fare altro che avere pena per lui, non so bene il perché ma percepisco il suo imbarazzo e di rimando mi imbarazzo pure io.

    Noi esploratori facciamo una breve corsa verso le porte della foresta che circonda la Piana dei Cipressi. Sono alberi alti e la corteccia non ha molte scaglie, è abbastanza liscia e di colore chiaro. Le foglie sono simpatiche: più lunghe che larghe e leggermente seghettate sul bordo. Ci voltiamo indietro. Abbiamo distaccato i nostri accompagnatori di una decina di metri. Camminare sembra aiutare anche Lorenzo. Magari, dentro da qualche parte, anche lui trova conforto nelle vibrazioni del movimento. Non ha bisogno della frenesia che ci metto io quando mi agito. Non è ancora il pirata che dovrebbe essere, ma raggiunge il livello mozzo. Ora Colette non lo sta solo assecondando ma partecipa.

    Li guardo con attenzione, ne seguo i passi, i contorni, mi perdo nel colore dei loro capelli e nei dettagli dei loro lineamenti.

    D’un tratto si fa largo dentro di me una sensazione, non li sto più guardando, li sto vedendo. In un istante, credo di afferrare appieno la profonda differenza tra queste due parole.

    Non mi è mai successo, non so, forse c’è un momento giusto per ogni cosa. Chissà. Guardare è un’azione, come mangiare. Vedere è un qualcosa che lega l’azione a una parte più interiore, come assaporare. In questo preciso momento vedere vuol dire prescindere da quello che ho davanti. Non importa che sia mio fratello o la mamma di Claude. Sto vedendo due esseri umani, ancora di più, due esseri viventi. Sono parte di qualcosa di più grande, non capisco cosa. In qualche modo percepisco che stanno interagendo, avverto una sorta di energia nell’aria che li lega al mondo intero.

    Una sensazione strana che, anche solo provando a spiegarla, mi si annoda il cervello. Mentre penso questo, con la coda dell’occhio, ho l’impressione che ombre sfuggenti si muovano vicino a noi, ma appena mi volto, il nulla.

    D’un tratto ecco che nell’universo qualcosa si muove davvero e torno a vedere, intuisco il prossimo futuro che riguarda mio fratello e Colette.

    Il terreno che prima li teneva sufficientemente distanti e dritti mette davanti ai loro piedi una pietra rotonda grande come un pugno. Vedo anche questo e ne percepisco il disegno. Il piede di Colette si dirige dritto verso l’ostacolo, dovrei preoccuparmi, farle cenno di stare attenta. Contro ogni logica di educazione sorrido prima ancora che lei ci inciampi sopra. Ci siamo quasi, vedo il mondo al rallentatore. Il piede è sulla pietra che sguscia via di lato e si trascina la gamba della mamma di Claude. Il corpo non può fare altro che andare nella direzione opposta e sulla sua traiettoria trova inevitabilmente Lorenzo. Come ogni uomo d’azione è pronto e la sostiene. Il mio sorriso si allarga: si stanno abbracciando.

    Il tutto dura molto poco, lei si rimette subito in piedi. Ora è il suo sguardo a essere imbarazzato.

    «Cosa ridi, terremoto? Guarda che c’era da farsi male davvero!»

    Con un filo di malizia nella voce, me lo dice ridendo a sua volta. Lo percepisco ma smetto comunque di ridere. Quelle parole mi distraggono, smetto di vedere e mi limito a guardare. Mi sento di nuovo Matteo, non sono più parte di qualcosa di grande.

    Ho il ricordo di quello che ho provato, ma non avvertirlo mi fa venire alla mente che non ha importanza di cosa io sia parte. Ora sono qui, prima ero sotto l’albero e tra poco mi addentrerò finalmente nella foresta.

    Mentre io mi faccio il mio giro intorno al mondo nei miei pensieri, Claude si scompiscia per il ruzzolone di sua mamma. Vederlo piegato in due dalle risate è contagioso e lo imitiamo tutti. Non sto ridendo di Colette, ma di lui e non lo capisce nessuno. In un ambiente come quello, così puro, tutto vibra con più vigore.

    A scuola non rido mai, impegnato a

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